Quando la mediazione familiare è vietata, impossibile o sconsigliata

Quando la mediazione familiare è vietata, impossibile o sconsigliata

A chi svolga la professione del mediatore familiare è chiaro che non tutte le coppie sono mediabili.

Un primo aspetto di imprescindibile partenza da considerare riguarda l’atteggiamento e la volontà delle parti che accedono alla mediazione e le ragioni per le quali si trovano davanti al mediatore familiare. La mediazione nasce come volontaria, al di là dei casi di obbligatorietà e della funzione di condizione di procedibilità per la proposizione della domanda giudiziale acquisito nel tempo.

Qualora non ci sia una reale volontà (e, dunque, anche nelle ipotesi in cui la mediazione è obbligatoria per imposizione “esterna”) di partecipare e di impegnarsi a lavorare su di sé e sulla coppia in un clima di rispetto e fiducia delle opinioni e delle scelte altrui, le possibilità che la mediazione abbia successo si riducono notevolmente.

Inoltre, vi sono casi in cui il ricorso all’autorità giudiziaria è obbligatorio e altri in cui, invece, una o entrambe le parti della coppia vogliono ricorrere direttamente al giudice per ottenere un risarcimento dei danni, sottrarre il figlio alla controparte financo umiliarla. La rivendicazione di rivalsa basata su sentimenti personali prevale sulle esigenze e sulla tutela del minore e rende impossibile qualsivoglia dialogo costruttivo. Tale atteggiamento, tutt’altro che propositivo e dialogico, così come l’assenza totale di comunicazione tra le parti rende difficile la riuscita del percorso di mediazione.

Quando è vietata e perché

I casi:

  • la violenza, di qualsiasi tipo, verso il coniuge e/o il/i figlio/i integrante reati quali maltrattamenti, abusi, violenza domestica etc;

  • l’abuso di sostanze psicotrope e di alcool;

  • le coppie in cui vi è presenza di denunce: sono esclusi i casi di procedimenti penali in corso (seppur non sia ritenuta ostativa, per l’invio in mediazione familiare, la presenza di querele o denunce di parte rimettibili[1]) di provvedimenti di allontanamento dalla casa famigliare e di divieto di avvicinamento, i casi di consulenza tecnica d’ufficio (CTU) in corso;

  • le patologie psichiatriche e la presenza di valutazione psicologica o delle relazioni familiari da parte dei Servizi territoriali competenti in corso.

La violenza

In maniera perentoria la riforma Cartabia vieta in situazioni di violenza o di denunce la mediazione familiare. La mediazione e le ADR[2], infatti, non sono né lo strumento né il luogo adatto e idoneo a gestire situazioni che richiedono una tutela diversa. Se è vero che in ipotesi di questo tipo, e soprattutto di manifesta violenza nelle forme più gravi, è raro che una coppia si rivolga ad un mediatore familiare, qualora così non dovesse essere e il mediatore dovesse trovarsi a lavorare dinnanzi a una coppia con situazioni di tal fatta è compito del mediatore comprenderle quanto prima possibile e, se già avviata, interrompere la mediazione, evitando possibili ulteriori e ancor più gravi conseguenze. Tra i rischi di situazioni estreme di tal fatta c’è l’impossibilità da parte di uno dei due coniugi, per esempio, di esprimersi liberamente o di negoziare in modo equo.

Uso di alcool e sostanze psicotrope e presenza di patologie psichiatriche

Anche l’abuso di sostanze psicotrope o di alcool, così come la presenza di patologie psichiatriche, in uno o entrambi i coniugi, proprio per assenza di una piena capacità cognitiva e di comprensione, impedisce il ricorso alla mediazione sia per mancanza di senso di responsabilità che per alta probabilità (se non certezza) di non riuscire a formulare accordi durevoli e consapevolmente e pienamente condivisi.

Requisito imprescindibile, dunque, per accedere alla mediazione familiare è l’assenza di conclamata e certificata psicopatologia di uno dei genitori o entrambi. A titolo esemplificativo si annoverano l’uso comprovato e sistematico di sostanze, il TSO, i ricoveri ripetuti in strutture psichiatriche pubbliche e/o private etc[3].

Quando è difficile e/o sconsigliata e perché

L’alta conflittualità

Dalle ipotesi precedentemente indicate vanno, invece, distinti i casi di alta conflittualità che (del resto) rappresentano anche l’ambito di più difficile collocazione, essendo spesso ipotesi di confine.

E’, pertanto, importante distinguere le situazioni di violenza strictu sensu da quelle di conflitto, potendo solo queste ultime (e non le prime) avere accesso alla mediazione.

La riforma Cartabia ha introdotto importanti novità in ambito di diritto di famiglia, occupandosi proprio dei casi in cui non possa essere disposta la mediazione familiare stante la presenza di una conflittualità definita come “alta”, ovverosia quando vi è un livello di conflitto tale da compromettere la serenità e la sicurezza delle persone coinvolte, pur non essendoci casi né di violenza né di abusi.

Chi studia la mediazione familiare, ma anche gli altri ambiti di mediazione, sa bene che la nozione di conflitto non ha affatto un’accezione esclusivamente negativa, ma che al contrario il conflitto è una naturale situazione di incontro-scontro di opinioni, idee e vissuti differenti e contrastanti che possono convivere nello individuo o sussistere tra individui diversi (come nel caso di base di una coppia che si presenti davanti al mediatore familiare).

Il conflitto, infatti, non è di per sé “ontologicamente” distruttivo; tuttalpiù può esserlo il modo in cui tale conflitto viene gestito. Secondo K. Levin “Il conflitto è quella situazione che si determina tutte le volte su un individuo agiscono contemporaneamente due forze psichiche di intensità più o meno uguale, ma di opposta direzione”.

Questo disequilibrio, che di conflitto prende il nome, nella mediazione può spingere sia verso una risoluzione che verso un nuovo equilibrio, poiché è inteso in termini neutrali (e non patologici), come un evento naturale e necessario per la crescita e la trasformazione.

Tuttavia, in alcuni casi il conflitto è così alto che la mediazione familiare non risulta essere la modalità di intervento più adatta (come invece potrebbe essere la coordinazione genitoriale).

In tali situazioni le emozioni di rabbia, rancore e odio reciproche rendono impossibile qualsivoglia forma di dialogo che non sia caratterizzato da aggressività verbale e improperi. Lo sfogo di questi sentimenti e la volontà di recare danno all’altro prevalgono sul bene non soltanto delle parti, ma persino su quello dei figli.

Altrettanto altamente conflittuale può essere l’ipotesi in cui una sola delle due parti voglia separarsi, per cui l’altra cercherà in ogni modo di ostacolo qualsiasi accordo e di interrompere gli incontri di mediazione fino a non parteciparvi più.

E ancora, se non esclusa, la mediazione familiare risulta difficile o inutile nelle ipotesi di gravi disuguaglianze di potere, nel caso in cui una delle due parti eserciti un significativo controllo sull’altra, per tale intendendosi sia la coercizione psicologica che la manipolazione, in alcuni casi acuita dalla diversità di strumenti culturali e di linguaggio, derivante dalla diversa formazione scolastica, accademica e professionale.

Pertanto, nel caso di conflittualità alta, la mediazione è spesso esclusa o impossibile, in casi invece di conflittualità cosiddetta “media”, può essere proposta, ma non è obbligatoria: la possibilità di ricorrere alla mediazione dipende certamente anche dalla valutazione del giudice, che deve considerare la situazione specifica e la capacità delle parti di dialogare in modo costruttivo.

Si deve, infatti, sempre ricordare che la legge mira a tutelare l’interesse del minore, definito dalla Convenzione di New York (1989) come il best interest[4], che può essere danneggiato da un conflitto troppo acceso tra i genitori, e allo stesso tempo cerca di evitare di forzare le persone a una mediazione in contesti dove non è possibile un dialogo né sereno né produttivo.

[1] Si veda in particolare la Convenzione di Istambul 11.05.2011.
[2] Alternative Dispute Resolution.
[3] A.I.Me.F. ,A.I.M.S., A.E.Me.F., S.I.Me.F., Roma 29.09.2016.
[4] Convenzione di New York (20.11.1989): «in all actions concerning children, whether undertaken by public or private social welfare institutions, court of law, administrative authorities or legislative bodies, the best interests of the child shall be a primary consideration».

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