Quando le liti temerarie configurano un tentativo di estorsione

Quando le liti temerarie configurano un tentativo di estorsione

Il fatto di promuovere liti temerarie configura “di per sé” un tentativo di estorsione.

La sentenza della Cassazione Penale n. 25432 del 2024 in una visione estensiva ulteriore della libertà di stampa.

di Michele Di Salvo

La sentenza della II sezione penale della Corte di cassazione entra nel merito di una questione patologica generale die sistemi giudiziari, e che talvolta assume dimensioni preoccupanti anche sotto il profilo della tenuta democratica, oltre che dei diritti delle persone.

La Corte di Cassazione, con la sentenza oggetto di commento (n. 25432 del 27 giugno 2024) ha chiarito che la promozione di azioni temerarie al fine di ottenere un ingiusto profitto può integrare il reato di estorsione.

In tema di reati contro il patrimonio, l’estorsione, sia in forma tentata, che consumata, può ritenersi integrata solo qualora l’azione civile promossa costituisca il mezzo per ottenere un profitto ingiusto “fuori dal giudizio”, essendo funzionale a costringere il convenuto, fiaccandone le resistenze economiche e morali, a consegnare somme a titolo formalmente “transattivo”, ma invero, privo di qualunque giustificazione, e, dunque, ingiusto.

Ne consegue, pertanto, che la promozione di liti temerarie non configura “di per sé” un tentativo di estorsione (Cassazione penale, Sez. II, sentenza 27 giugno 2024, n. 25432).

Il Tribunale per il riesame delle misure cautelari personali di L’Aquila ha annullato l’ordinanza che aveva imposto agli indagati la misura del divieto di dimora in Abruzzo e in Molise.

Le accuse riguardano una tentata estorsione in concorso: nello specifico, gli indagati avevano ceduto al coimputato presunti crediti relativi a danni, in ipotesi, patiti nell’ambito di una procedura di esecuzione immobiliare a loro carico.

Questi aveva promosso sette giudizi civili dinanzi al Tribunale di Vasto per ottenere il risarcimento dei danni generati da ipotetiche condotte di ingiuria e diffamazione agite nel corso della procedura di esecuzione immobiliare e chiedeva ai convenuti (persone offese) somme da pagare in via extragiudiziale a titolo di risarcimento del danno.

Il Tribunale ha ritenuto che non vi fossero elementi per ritenere i gravi indizi di colpevolezza del reato di tentata estorsione in quanto gli indagati avevano adito le vie legali e la mediazione del giudice, al quale gli stessi avevano rimesso la valutazione della legittimità delle loro pretese.

Avverso tale ordinanza è stato proposto ricorso per Cassazione dal Pubblico ministero con il quale si censurava l’illegittimità della motivazione deducendo che l’attivazione dei procedimenti civili non sarebbe incompatibile con la sussistenza della “minaccia necessaria per integrare il reato di tentata estorsione”.

La Corte di Cassazione, nel dichiarare fondato il ricorso, riprende un principio di diritto secondo il quale “integra gli estremi del reato di estorsione la minaccia di prospettare azioni giudiziarie al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute, qualora l’agente ne sia consapevole, potendosi individuare il male ingiusto prospettato nella pretestuosità della richiesta“.

Infatti, la minaccia di adire le vie legali, pur avendo un’esteriore apparenza di legalità, può integrare l’elemento costitutivo dell’estorsione quando sia formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto, ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia.

La Corte ritiene che “la promozione di azioni temerarie non configura di per sé un tentativo di estorsione. L’estorsione, sia in forma tentata che consumata, può ritenersi integrata solo qualora l’azione promossa costituisca il mezzo per ottenere un profitto ingiusto fuori dal giudizio, essendo funzionale a costringere il convenuto, fiaccandone le resistenze economiche e morali, a consegnare somme a titolo formalmente transattivo, ma invero, privo di qualunque giustificazione e, dunque, ingiusto“.

La Corte ha chiarito che, nel caso in esame, il Tribunale si è limitato ad effettuare una valutazione astratta della problematica giuridica, senza tenere conto della possibile pretestuosità delle richieste avanzate dall’indagato, della esosità degli importi richiesti, del numero e della serialità delle azioni giudiziarie intraprese nei confronti di soggetti diversi.

Ha dunque ritenuto che il Tribunale del riesame ha fatto malgoverno dei principi di diritto sopra enunciati, posto che ha ritenuto insussistente il tentativo di estorsione in ragione del concreto esperimento dell’azione giudiziaria senza considerare le peculiarità del caso specifico: plurime azioni intentate contro le medesime persone connotate da serialità, sproporzionate nelle richieste di risarcimento, potenzialmente strumentali ad ottenere un profitto ingiusto.

Per questi motivi, la Cassazione ha annullato l’ordinanza impugnata rinviando per nuovo giudizio.

Nel caso in esame la Corte si esprimeva su un caso in cui l’azione di “forza” estorsiva era un uso massiccio, sproporzionato e spropositato di azioni legali tese a “piegare” la controparte onde percepire un indebito profitto.

Si ravvedono in tale caso analogie non lontane dalle ben note querele intimidatorie nei confronti dei giornalisti e più volte analizzate e descritte e contro le quali vi è una passività assordante nella volontà di porvi rimedio.

Un motivo risiede forse nel fatto che coloro che dovrebbero intervenire per regolamentare la materia appartengono spesso a quei rami legislativi chiamati a intervenire in materia.

Il tipo di azione legale che per estensione analogica affrontiamo non è considerato un problema solo in Italia ed è stato definito a livello internazionale con un nome specifico: “Slapp”, acronimo di Strategic lawsuit against public participation, cioè “causa strategica contro la partecipazione pubblica”.

In quest’ottica ho parlato all’inizio di un problema che rischia di minare finanche la tenuta democratica di un paese.

Le Slapp sono cause legali in cui è palese una grossa sproporzione di potere tra la persona o organizzazione che fa causa e chi viene accusato: il loro obiettivo non è necessariamente vincere il processo, ma comunque intimidire – anche soltanto attraverso i molti oneri ed effetti dello svolgimento di un processo – la persona accusata e scoraggiarne il lavoro, togliendole tempo, soldi e iniziativa.

Approfittando anche dello scarso senso comune della presunzione di innocenza, che fa sì che chiunque si trovi sotto accusa venga messo in una posizione di debolezza e rischio.

La maggior parte delle volte l’accusa è di diffamazione, ed è rivolta quasi sempre a giornalisti, blogger o attivisti che abbiano scritto o detto in pubblico qualcosa che qualcuno sostiene essere diffamante nei suoi confronti. Le conseguenze possono essere sia penali – quando le Slapp vengono presentate in forma di querele – sia civili, quando viene chiesto un risarcimento per danni.

Quando si parla propriamente di Slapp, nel contesto anglosassone, ci si riferisce quasi sempre a cause intentate da persone o organizzazioni che hanno disponibilità economiche in grado di sostenere agevolmente lunghi processi: è invece assai più dispendioso – in termini di tempo, soldi ed energie mentali – difendersi per un giornalista, blogger o attivista, che in molti casi deve provvedere da solo a pagare un avvocato. Chi presenta le Slapp è generalmente consapevole di questa sproporzione e la sfrutta a suo favore.

In Italia vengono spesso chiamate indistintamente “querele temerarie”, con qualche confusione, sia le cause civili che quelle penali: la “querela” però nel linguaggio giuridico si riferisce solo a cause penali. Vengono definite “temerarie” perché sono affrontate malgrado l’incertezza del risultato finale, ma appunto a scopo di risposta o minaccia nei confronti dell’accusato.

Gli effetti delle Slapp e della loro frequenza sono molto concreti: può capitare che per paura di affrontare processi molto dispendiosi un giornalista eviti di trattare un certo argomento o di parlare di una certa persona. Inoltre non è raro che alcune testate – soprattutto quelle più piccole o appartenenti a cooperative indipendenti – decidano di non occuparsi di alcuni temi per evitare problemi.

E questo effetto è tanto evidente quando diviene “fatto noto” che quella persona, azienda o organizzazione, usa lo strumento giudiziario con ampia frequenza: basta saperlo per ottenere immediatamente l’effetto di distogliere la maggior parte delle persone e desistere in anticipo dalla trattazione.

La giornalista Alice Oliveri ha affermato ad esempio che lavorando come freelance su temi di cultura e costume le è capitato di proporre articoli ad alcune testate e di aver ricevuto rifiuti con la motivazione esplicita del timore di ricevere querele: non perché i temi trattati fossero ritenuti inadeguati o particolarmente azzardati, ma perché avrebbero riguardato persone comunemente note per aver presentato di frequente querele dopo essere comparse in un articolo.

Tutto ciò influenza molto la qualità del lavoro giornalistico: sia nella libertà dei giornalisti di scegliere gli argomenti di cui occuparsi, sia nel modo in cui li trattano.

In teoria si potrebbe sostenere che chi faccia con accuratezza il proprio mestiere non debba correre rischi, ma nella pratica la cospicua quota di imprevedibilità dei giudizi processuali non può rassicurare nessuno che sia querelato per diffamazione.

Inoltre, per arrivare all’archiviazione o al proscioglimento, le risorse economiche e di tempo da dedicare possono essere considerevoli, senza che ciò porti necessariamente ad un conseguente risarcimento.

Di fatto presentare una querela può non costare addirittura nulla, rispetto alle molte migliaia di euro necessarie per difendersi.

Non da ultimo, spesso, basta il semplice fatto di essere “un giornalista molto querelato” per minare la reputazione e la credibilità del professionista.

Un dossier del 2016 curato dall’associazione “Ossigeno per l’informazione”, basato su dati forniti dal ministero della Giustizia, stimò che circa il 70 per cento delle querele per diffamazione viene archiviato su proposta del pubblico ministero, e quindi non arriva nemmeno a processo. Un dato che anche se non è aggiornato da fonti univoche nazionali è orientativamente confermato da dati a macchia di leopardo.

Significa in sostanza che i pubblici ministeri hanno l’impianto spesso pretestuoso di queste querele e hanno deciso nella maggior parte dei casi che non ci sia fondamento sufficiente per andare a processo.

Tra quelle che procedono, poi, il 92 per cento (sempre secondo i dati del 2016) non arriva a condanna. Ma nel frattempo la difesa è costata economicamente solo al giornalista querelato.

E anche quando vince, è rarissimo che gli vengano rimborsate le spese processuali: solitamente infatti il giornalista viene dichiarato non punibile perché gli viene riconosciuto il diritto di cronaca e di critica garantito dalla Costituzione, quindi perché quello che ha scritto “non costituisce reato”.

Per il rimborso delle spese però bisognerebbe dimostrare che “il fatto non sussiste”, secondo il linguaggio giuridico, cioè che non sia avvenuta alcuna diffamazione: quest’ultima è però un concetto molto soggettivo, e per un giudice è difficile stabilire che una persona non si sia sentita realmente diffamata, quando ha presentato la querela.

Il più delle volte, quindi, il giornalista viene assolto ma non ha diritto a rimborsi.

Nei casi in cui la querela viene archiviata invece può succedere che chi l’ha presentata faccia appello contro l’archiviazione, imponendo che si tenga almeno un’udienza per stabilire se quell’appello sarà accolto o meno.

Molto diversi sono invece i casi in cui al posto di una querela viene presentata in sede civile una richiesta di risarcimento danni, la maggior parte delle volte attribuiti a una presunta diffamazione. Le cause civili sono considerate molto più pericolose delle querele, per diverse ragioni che riguardano soprattutto i procedimenti civile e penale che ne derivano.

Il reato di diffamazione in Italia è previsto dall’articolo 595 del codice penale e riguarda chiunque «comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione». È punito con la reclusione fino a due anni o una multa fino a 2.065 euro (ma entrambe possono essere aumentate se l’offesa è contro «un corpo politico, amministrativo o giudiziario»). Perché si parli di diffamazione è sufficiente che la dichiarazione “diffamante” sia comunicata in presenza di almeno due persone, e non è necessario che sia falsa: si può diffamare anche dicendo una cosa vera.

Quando c’è di mezzo il giornalismo, o comunque altri tipi di pubblicazioni o discorsi di interesse pubblico, il giudice deve quindi stabilire se valga di più la tutela della reputazione e dell’onore di una persona, o il diritto di critica e di cronaca di un’altra: questi due diritti a loro volta presuppongono che ci debba essere un interesse pubblico dell’informazione divulgata e che questa sia esposta con correttezza e pertinenza.

Nel caso in cui si tratti di diffamazione “a mezzo stampa” – una definizione che oggi comprende sia i giornali che altri mezzi di comunicazione, per esempio i social network, e che quindi riguarda potenzialmente quasi tutti – la pena può arrivare a tre anni e la multa è di almeno 516 euro.

Fino a poco tempo fa in Italia per la diffamazione a mezzo stampa si teneva in considerazione anche l’articolo 13 della legge 47 del 1948 sulla stampa, che determinava obbligatoriamente «la reclusione da uno a sei anni in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato».

Questo articolo è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, che ha invece ritenuto compatibile con la Costituzione l’articolo 595 del codice penale (quello descritto sopra), visto che consente al giudice di usare la pena detentiva solo in casi di eccezionale gravità (e in tutti gli altri di limitarsi a una multa).

Per tutte queste ragioni oggi le conseguenze penali che possono derivare da una querela sono tutto sommato limitate: il carcere è ormai quasi del tutto escluso, e la maggior parte dei problemi riguarda le spese legali da affrontare.

In una causa civile invece, con cui il carcere e altre conseguenze penali non hanno niente a che fare, l’eventuale condanna al risarcimento economico dei danni può essere molto elevata, perché dipende dalla richiesta di chi presenta la causa: per questo si sente spesso parlare di richieste di risarcimento per centinaia di migliaia di euro.

Il risultato è però che in molti casi le richieste di risarcimento sono assai arbitrarie, e assai elevate. Nel processo civile non c’è la possibilità che la causa venga archiviata subito, come avviene invece per le querele, e quindi si va per forza a processo: la differenza è che se si vince si ha diritto al rimborso delle spese legali. I processi però possono durare anni, e nel frattempo il giornalista in causa eviterà con tutta probabilità di scrivere articoli sulla persona o sull’organizzazione che lo ha accusato.

In questo modo le Slapp ottengono ciò che si erano prefissate: intimidire il giornalista, limitarne il lavoro ed evitare possibili critiche.

Un altro punto problematico della questione è che una causa civile si può presentare anche 5 anni dopo l’avvenimento a cui fa riferimento, mentre per la querela il limite è di 90 giorni.

L’intimidazione vale anche per i giornali, che quando hanno processi pendenti devono dichiararlo al revisore dei conti dell’azienda, che li costringe a mettere da parte i fondi eventualmente necessari a risarcire i danni. In condizioni di ristrettezze economiche, alcuni decidono che nel frattempo è meglio evitare altre cause, limitando il proprio lavoro.

In ogni caso presentare una causa civile o penale non è una scelta esclusiva: non sono rari i casi in cui avvengono entrambe le cose contemporaneamente.

Il problema esiste anche in altri paesi, con gradi diversi a seconda delle leggi vigenti, e dopo anni di richieste di intervento la Commissione europea ha presentato due misure che sono ancora in attesa di approvazione.

La prima è una proposta legislativa per una direttiva che intervenga proprio sui problemi delle cause civili che esistono anche in Italia: la misura più importante è infatti l’introduzione di un meccanismo che permetta di archiviare rapidamente le cause civili che sono manifestamente infondate, un po’ come avviene in Italia con le querele per diffamazione.

Questo meccanismo, se dovesse essere approvata la direttiva, sarà valido però solo per i casi di rilevanza europea: quindi cause ricevute per articoli o discorsi pubblici che per esempio coinvolgano più di un paese membro dell’Unione. La direttiva prevede anche una protezione per i giornalisti che lavorano nell’Unione europea e che ricevono condanne da tribunali di stati che non ne fanno parte, e penalità per disincentivare il ricorso frequente alle Slapp, tra cui la possibilità per l’accusato che dimostra la sua innocenza di chiedere a sua volta un risarcimento per danni.

L’altra misura proposta dalla Commissione europea è una raccomandazione agli stati membri di attuare misure per favorire questo genere di pratiche anche nelle proprie legislazioni nazionali: la raccomandazione però non ha valore vincolante, e molto dipenderà da se e come sarà recepita in ogni paese.


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