Quando una dichiarazione assume efficacia di confessione

Quando una dichiarazione assume efficacia di confessione

La confessione è una dichiarazione di scienza resa dalla parte per rendere noti fatti per sé sfavorevoli, ma favorevoli alla controparte. È disciplinata dagli articoli 2730 e seguenti del Codice Civile.

La confessione è qualificata come atto giuridico con valenza probatoria, e può essere resa all’interno di un processo, facendo ora riferimento alla confessione c.d. giudiziale, disciplinata dall’art. 228 e ss. c.p.c. e dall’art. 2733 c.c.

Regola generalmente accettata è quella, secondo cui, chi afferma un fatto sfavorevole per sé stesso, afferma il vero.

Occorre fare una distinzione tra la confessione spontanea e quella provocata. La confessione spontanea è il risultato di un qualsiasi atto processuale che contiene la firma del soggetto che ha reso la dichiarazione, o da dichiarazioni (ovviamente spontanee) rilasciate in udienza e che successivamente sono state verbalizzate. Parte della dottrina, esclude l’imputabilità di dichiarazioni contenute nelle memorie e negli atti introduttivi del giudizio.

All’opposto, si colloca la confessione provocata, ove le dichiarazioni rese sono il frutto di un interrogatorio formale, un interrogatorio reso personalmente dalla parte, che deve rispondere oralmente e senza avvalersi di alcun sussidio scritto precedentemente preparato. Ove la parte da sottoporre ad interrogatorio sia una persona giuridica, sarà sottoposto ad interrogatorio il soggetto che detiene la rappresentanza legale della medesima.

Laddove la parte non si presenti o non risponda alle domande dell’interrogatorio formale, senza un giustificato motivo, il giudice può reputare validi i fatti che sono stati dedotti, ovviamente alla stregua della valutazione di ogni altro elemento di prova che è stato presentato.

Non può essere resa una confessione durante un interrogatorio libero, in quanto, con questo, lo scopo è solamente quello di chiarire alcuni fatti controversi. Una tesi, ormai pressoché superata, supponeva che le dichiarazioni sfavorevoli fatte durante l’interrogatorio libero, andavano ad avere efficacia di prova. Più recentemente, è stato affermato che tali dichiarazioni sono dei meri elementi di precisazione utili al convincimento del giudice.

Ma la confessione può risultare anche da atti al di fuori di un processo, difatti, lo stesso art. 2730 sostiene che “la confessione è giudiziale o stragiudiziale”. Presupposto per la confessione stragiudiziale, affinché assuma efficacia probatoria all’estremo di quella giudiziale, è che essa venga rilasciata o alla persona direttamente interessata o al suo rappresentante. La dichiarazione rilasciata ad un terzo può assumere valenza di confessione, come da art. 2735 c.c., in riferimento al libero apprezzamento del giudice. Rientrano nella confessione a terzo anche le dichiarazioni rilasciate a soggetti appartenenti alla polizia giudiziaria e dichiarazioni interne ad un testamento.

Basilare risulta la sentenza della Suprema Corte n° 13212 del 2006, e la sentenza n° 3055 del 1996, concernenti gli effetti della confessione stragiudiziale. Difatti è necessario che ci sia identità a livello processuale tra le parti del giudizio ed i soggetti (nello specifico autore e destinatario) della dichiarazione. Nell’ipotesi in cui tale nesso non è presente, sarà, come nel caso del terzo, il giudice a valutare la rilevanza della dichiarazione.

Al fine di ottenere effetti probatori all’interno di un processo, la confessione stragiudiziale deve essere provata ricorrendo ad ulteriori mezzi di prova, quali: testimoni, documenti, presunzioni.

Ove, la confessione venga provata con qualsiasi mezzo a disposizione, assume, direttamente, efficacia di prova legale. Ciò vale ugualmente per la confessione giudiziale, ma con conseguenza dell’inammissibilità della prova testimoniale. (Cassazione n°10581/2000; Cassazione 3975/2001)

Quindi, la parte che intende avvalersi di una confessione stragiudiziale altro non dovrà che provare l’esistenza della confessione riferita ai fatti controversi oggetto del procedimento.

La suprema Corte ritiene che deve sussistere un elemento soggettivo tra i requisiti essenziali al fine di considerare una dichiarazione una confessione. Rientrano tra gli elementi soggettivi: la consapevolezza e la volontà di ammettere e riconoscere elementi sfavorevoli; è necessario quindi il così detto animus confitendi.

Tuttavia, allo stesso tempo, deve sussistere anche un elemento oggettivo configurabile come il derivare di un concreto pregiudizio all’interesse del soggetto dichiarante, e ovviamente, un vantaggio al destinatario delle argomentazioni della confessione. (Cass. 19/11/2010 n° 23495).

Una parte della dottrina, minoritaria, sostiene che, per essere efficace una confessione, non si dovrebbe dare alcun rilievo all’elemento soggettivo, fondando così la confessione solo sull’aspetto oggettivo, ovvero sui fatti.

Ad oggi tuttavia, tra le due tesi, prevale quella in cui deve sussistere l’animus confitendi per essere riconosciuta, una dichiarazione, come una confessione.

Particolare attenzione deve inoltre essere prestata a non confondere la confessione con l’ammissione, che, pur disponendo dello stesso contenuto, le ammissioni non possono essere definite alla stregua delle prove legali, benché utili al convincimento del giudice dei fatti posti in essere dalla parte. Le dichiarazioni sfavorevoli per l’assistito rese dal proprio avvocato, non hanno quindi efficacia di prova legale, cioè di confessione, ma risulteranno delle mere ammissioni, con conseguente dispensazione dell’onere della prova per la controparte.

L’art. 2734 c.c. recita: “quando alla dichiarazione indicata dall’art. 2730 si accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti a infirmare l’efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o a estinguerne gli effetti, le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità se l’altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte. In caso di contestazione, è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l’efficacia probatoria delle dichiarazioni.”

Tale articolo va a disciplinare il fenomeno della confessione complessa, ossia, quella situazione in cui, ad una dichiarazione principale (ricordiamo, sfavorevole), ve ne sono altre, ma favorevoli al soggetto che la rilascia.

In questo caso, le dichiarazioni sottostanno al principio di inscindibilità, per cui, se non vi è contestazione, non sussiste l’onere della prova per i fatti favorevoli che sono stati aggiunti ,assumendo così, la dichiarazione, valore di prova legale.

Si può quindi affermare che la confessione complessa assume valenza in relazione al comportamento tenuto dalla controparte, se ha intenzione di contestare o meno la dichiarazione che è stata rilasciata. (Cassazione n°24754/2013).

Ovviamente, non tutte le dichiarazioni aggiunte alla confessione possono assumere valenza di confessione complessa, ma solamente quelle in grado di estinguere o modificare gli effetti del fatto oggetto della confessione, e quelle ove i fatti dichiarati sono connessi. (Cassazione n°23637 del 20/12/2004).

Che si tratti di confessione giudiziale o stragiudiziale, la dichiarazione deve essere rilasciata personalmente, da soggetto capace di disporre del diritto.

Il rappresentante legale della parte, eccezionalmente, può rendere confessione di fatti sfavorevoli al proprio assistito, solo nell’ipotesi in cui sia in possesso di procura e della possibilità di disporre dei diritti cui i fatti si riferiscono.

L’art. 2732 c.c., afferma che: “la confessione non può essere revocata se non si prova che è stata determinata da errore di fatto o da violenza”.

In linea generale è possibile affermare che l’articolo sopra citato prevede l’irrevocabilità della confessione eccetto nei casi tassativamente previsti dalla legge stessa: l’errore di fatto e la violenza. (Cassazione n° 15618/2004 e n° 9368/2000).

Si ha errore di fatto quando colui che rilascia la confessione ha una rappresentazione errata della realtà, andando così a ritenere veritiero un fatto che in realtà è diverso, o il fatto stesso non è mai avvenuto.

In tal modo, il confidente, per la revoca della confessione, ha l’onere di dimostrare, non solo la falsità del fatto sfavorevole, ma anche tutti gli elementi che hanno condotto ad un errato convincimento della verità del fatto stesso. (Cassazione n° 3010/2002; Cassazione n° 629/1995).

Per quel che concerne la violenza, la dottrina ritiene che debba essere fatto riferimento alla c.d. violenza morale, traducibile nel tenere un comportamento tale da impressionare un soggetto, provocando timore di subire un danno per sé stesso o per i suoi beni.

Una parte della dottrina ritiene che la confessione possa essere revocata solo se è stata estorta con violenza.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n° 689 del 21/01/1997, riferisce che anche nella confessione stragiudiziale è applicabile l’istituto della revoca per errore di fatto e per violenza.

Per essere revocata una dichiarazione che ha assunto valenza di confessione, la richiesta deve essere esperita nel medesimo processo, in via incidentale. Infatti, la stessa giurisprudenza di legittimità, ha stabilito che l’azione di revoca non può essere oggetto di un autonomo giudizio, separato dal fatto cui si riferisce. (Cassazione n°603 del 12/01/2009).


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