Questioni problematiche in tema di danno da ritardo
Le questioni giuridiche concernenti il danno da ritardo e il suo conseguente risarcimento sono molteplici: l’articolo si pone, pertanto, l’obiettivo di trattare le più delicate, anche alla luce della recentissima sentenza numero 6755 del 2 novembre 2020 della III Sezione del Consiglio di Stato. Tra i principi generali dell’attività amministrativa, sebbene non nominativamente indicato nella legge numero 241 del 1990, un’importanza fondamentale riveste quello di celerità: esso consiste nel divieto per la pubblica amministrazione di aggravare inutilmente il procedimento, se non per esigenze legate al miglior perseguimento dell’interesse pubblico [1]. Tale principio è altresì centrale nel processo amministrativo, dove riceve protezione non solo dal legislatore nazionale ma anche da quello europeo [2].
L’articolo 2 della legge numero 241 del 1990 rappresenta una logica conseguenza del principio di celerità e statuisce l’obbligo di conclusione del procedimento amministrativo mediante provvedimento espresso, disciplinando i termini di conclusione del procedimento. Il comma 1 dell’articolo 2 prescrive, infatti, che, quando l’istanza sia presentata da parte del privato o quando vi sia l’obbligo per la pubblica amministrazione di procedere d’ufficio all’avvio del procedimento, esso sia concluso con un provvedimento non implicito [3](come giurisprudenza risalente ammetteva) ma espresso.
Il comma 2 disciplina, invece, l’ipotesi della manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda del privato.
In questi casi, la pubblica amministrazione è tenuta ad adottare un provvedimento espresso ma la redazione dello stesso è in forma semplificata: la motivazione può consistere, quindi, in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo.
L’articolo 2 bis della medesima legge regolamenta le conseguenze del ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento.
In primo luogo, sussiste una responsabilità penale [4] qualora il responsabile del procedimento non risponda entro 30 giorni dalla messa in mora o nello stesso tempo non risponda spiegando le ragioni del ritardo.
Il comma 9 dell’articolo 2 stabilisce inoltre che la mancata o la tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
In secondo luogo, il privato ha diritto ad un indennizzo o ad un risarcimento, qualora dal ritardo sia derivato un danno di natura patrimoniale [5]. I presupposti del diritto al risarcimento sono quindi: 1) l’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento; 2) il danno ingiusto causato al privato cittadino. Il Consiglio di Stato si è soffermato più volte sul tema del risarcimento del danno da ritardo o da inerzia della pubblica amministrazione: il presupposto che giustifica il risarcimento non è il ritardo in sé per sé ma il danno causato al privato dalla condotta inerte o tardiva della pubblica amministrazione. Il danno prodottosi nella sfera giuridica del privato e del quale quest’ultimo deve fornire la prova sia sul an che sul quantum, deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all’adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento da parte della pubblica amministrazione [6].
Secondo quanto disposto dal comma 3 dell’articolo 30 c.p.a., l’azione per chiedere il risarcimento deve essere fatta valere entro 120 giorni, a pena di decadenza.
Tale termine decorre dal giorno in cui si è verificato il fatto ovvero dalla conoscenza del provvedimento (qualora il pregiudizio discenda da quest’ultimo). Se, invece, è esperita l’azione di annullamento, la domanda di risarcimento può essere formulata nel corso del giudizio caducatorio o, una volta concluso, entro 120 giorni decorrenti dal giudicato, ex articolo 30 comma 5 c.p.a..
Delineati i caratteri principali del risarcimento che consegue al danno da ritardo, occorre affrontare due questioni assai problematiche che lo coinvolgono e che hanno visto il formarsi di un contrasto giurisprudenziale sul tema.
La prima concerne i rapporti tra l’azione di annullamento e l’azione risarcitoria: la questione riguarda l’esistenza, nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, di una pregiudiziale di tipo interno in forza della quale la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno ingiusto presuppone il previo annullamento dell’atto ritenuto lesivo [7].
La giurisprudenza amministrativa, prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, si è mostrata quasi unanime nel sostenere l’inammissibilità dell’azione risarcitoria se proposta in forma autonoma, escludendo che il giudice amministrativo potesse far luogo, nella sola prospettiva risarcitoria, all’accertamento incidentale della legittimità di un atto non impugnato nei termini decadenzial [8]; la Corte di Cassazione, invece, ha sostenuto il rapporto di assoluta autonomia tra le due azioni, adducendo l’equiparazione, sul piano sostanziale, delle posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo e la necessità di assicurare ad entrambe la stessa pienezza di tutela risarcitoria [9].
Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, nel disciplinare l’azione di condanna nei confronti della pubblica amministrazione, l’articolo 30, prevede, al comma 3, la possibilità che la pretesa risarcitoria sia azionata anche indipendentemente dal previo annullamento dell’atto assertivamente lesivo, assegnando all’interessato un termine di decadenza di centoventi giorni: l’articolo 30 consente, quindi, la proposizione dell’azione di condanna in via autonoma.
La seconda questione riguarda il ruolo del tempo nella configurazione del danno da ritardo: in particolare, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sul seguente quesito: è meritevole di tutela il solo fattore tempo o esso lo diventa solo a fronte della spettanza del bene finale dell’amministrato?
Nel primo caso, infatti, il compito del giudice consisterà nella verifica della sussistenza del ritardo e del danno che esso produce, nei termini di incertezza per l’istante.
Nel secondo caso, invece, il compito del giudice sarà quello di accertare la fondatezza della pretesa privata: la domanda risarcitoria sarà quindi accolta se e solo se il giudice accerti l’esito positivo del procedimento oppure nell’ipotesi in cui la pubblica amministrazione adotti tardivamente un provvedimento di assenso.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha sancito la prevalenza del secondo orientamento, mettendo fine alle continue oscillazioni della giurisprudenza.
Meriano, infine, di essere segnalate due pronunce che si sono occupate di aspetti diversi del danno da ritardo.
La IV Sezione del Consiglio di Stato, nella prima [10], ha ribadito che l’articolo 2 bis comma 1 della legge n 241/1990 riconosce il risarcimento del danno da ritardo della pubblica amministrazione nella conclusione del procedimento, solo ove la condotta tardiva della stessa abbia prodotto un danno nella sfera giuridica del privato che avviò il procedimento con propria istanza.
Affinché possa parlarsi di una condotta della pubblica amministrazione causativa di danno da ritardo occorre che esista un obbligo della stessa di provvedere entro un termine definito dalla legge a fronte di una fondata posizione di interesse legittimo ad ottenere il provvedimento tardivamente emanato.
La IV Sezione sottolinea che, in presenza dei presupposti sopra richiamati, è possibile che il danno da ritardo si configuri anche nei casi in cui il procedimento debba essere avviato d’ufficio.
Analizzando infatti l’articolo 2 bis, solo il comma 1 bis si riferisce espressamente al procedimento ad istanza di parte mentre il comma 1 opera un generico riferimento all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ben potendo essere quest’ultimo avviato anche d’ufficio.
Per quanto riguarda l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità, il Consiglio di Stato ha chiarito che l’ingiustizia e la sussistenza del danno non possono presumersi iuris tantum ma il danneggiato deve, ex articolo 2697 c. c. provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere oggettivo quali la prova del danno e del suo ammontare, l’ingiustizia dello stesso e il nesso causale, sia di quelli di carattere soggettivo ossia il dolo o la colpa del danneggiante [11].
Nella seconda sentenza [12], la III sezione, dopo aver ricordato che il tempo dell’azione amministrativa non è un bene in sé ma la misura di un bene che consiste nella soddisfazione dell’interesse ottenibile soltanto mediante il legittimo e tempestivo esercizio dell’azione amministrativa, ha ribadito che l’ingiustizia del danno e la sua risarcibilità per il ritardo dell’azione amministrativa sussiste solo se il provvedimento favorevole sia stato adottato, anche in ritardo, dall’autorità competente ovvero sarebbe dovuto essere adottato, sulla base di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata, in esito al procedimento.
La III sezione si sofferma, a questo punto, sulla esatta definizione di giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita: esso è il procedimento mentale che ha lo scopo di individuare che cosa sarebbe effettivamente accaduto se l’amministrazione avesse agito correttamente.
La risoluzione di tale quesito postula una applicazione dei principi generali in tema di nesso di causalità materiale: essi sono mutuati dal diritto penale che, agli articoli 40 e 41 c. p., dettano i criteri per l’accertamento della stessa.
Alla causalità materiale, lo stesso Consiglio di Stato ha in passato applicato sia la teoria della causalità adeguata sia la regola della probabilità relativa (regola del più probabile che non, enunciata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza numero 30328/2002 “Franzese”, che ha rivoluzionato l’analisi del nesso causale in ambito penale, sostenendo che la ricostruzione del fatto necessitasse di essere ancorata ad una probabilità logica e non più statistica).
Le conclusioni che si possono trarre dal presente articolo sono da rintracciare nella limitazione di tutela dell’interesse legittimo del privato a fronte dell’azione amministrativa: sono risarcibili, infatti, solo i pregiudizi derivanti dal ritardo con cui la pubblica amministrazione abbia emanato il provvedimento favorevole richiesto e i pregiudizi conseguenti alla non emanazione di alcun provvedimento o all’emanazione in ritardo di un provvedimento negativo, anche se legittimo.
Per determinare, poi, la sussistenza dell’ingiustizia e, conseguentemente, la sua risarcibilità sarà necessario operare un giudizio prognostico con l’ausilio dei principi sulla causalità materiale mutuati dal diritto e della giurisprudenza penale.
Occorre segnalare, infine, che recente giurisprudenza ha ritenuto inammissibile l’azione di risarcimento sull’istanza rivolta alla pubblica amministrazione per danno da ritardo se la stessa poteva ancora provvedere [13].
Note
[1] V. Parisio, I processi amministrativi in Europa tra celerità e garanzia, Giuffrè Editore, Milano, 2009, pp. 101 e ss..
[2] M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, G. Giappichelli Editore, Torino, 2017, pp. 219 e ss..
[3] La V Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza numero 589 del 24 gennaio 2019 ha comunque precisato la configurabilità del provvedimento amministrativo implicito, soffermandosi, in particolare, sulle sue condizioni di ammissibilità.
[4] L’articolo 328 del codice penale, al comma 1, dispone, infatti, che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.
[5] M. Fratini, Manuale sistematico di diritto amministrativo, Accademia del diritto, Roma, 2019, pp. 539, 540.
[6] Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza numero 3362 del 23 maggio 2019.
[7] Essa prende il nome di questione della pregiudiziale amministrativa (per una trattazione sintetica ma comunque esaustiva si rinvia al Manuale di Diritto Amministrativo di R. Garofoli, Nel Diritto Editore, Bari, 2020, pp. 598 e ss.).
[8] Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza numero 1917 del 31 marzo 2009.
[9] Corte di Cassazione Civile, S. U., sentenze numero 13659 e 13660 del 13 giugno 2006.
[10] Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza numero 358 del 15 gennaio 2019.
[11] Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza numero 1182 del 9 marzo 2015.
[12] Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 2 novembre 2020 numero 6755.
[13] Tar Sardegna, Sezione I, sentenza numero 399 del 10 maggio 2019.
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