Ragionevole durata del processo e Cedu

Ragionevole durata del processo e Cedu

La “resilienza” dei giudici italiani nell’applicazione della giurisprudenza della Corte Edu: la perdurante assenza di una tutela effettiva per le vittime del reato nel caso di irragionevole durata delle indagini preliminari e del processo (Nota a Decreto Corte d’Appello di Palermo sez. lavoro 11 maggio 2021)

A cura dell’Avv. Giuseppe Raimondi

Abstract: Il provvedimento in commento conferma ancora una volta l’atteggiamento di ferma resistenza da parte dei Giudici italiani nel recepire gli orientamenti della giurisprudenza sovranazionale in materia di diritti umani. Nel caso di specie il contrasto giurisprudenziale tra giudici nazionali ed europei ha ad oggetto l’individuazione del dies a quo ai fini del computo del termine di ragionevole durata del processo penale per i soggetti vittime di reato. L’orientamento italiano, recentemente ribadito anche con la sentenza della Corte costituzionale n. 249/2020, ritiene da sempre che la persona offesa dal reato non possa considerarsi parte del processo sino a che l’organo giudicante non abbia formalmente ammesso in sede processuale la sua costituzione di parte civile contro l’imputato. È solo a partire da questo momento processuale, quindi, che la vittima del reato, secondo i giudici nazionali, può iniziare a computare, ai fini della verifica della durata, se il processo abbia superato il canone della “ragionevolezza”. La posizione della giurisprudenza interna sul punto è stata sempre così granitica tanto che nel 2012 il legislatore ha deciso di codificare il principio di diritto espresso in maniera conforme nel corso degli anni con l’aggiunta di un comma 2-bis all’art. 2 l. n. 89 del 2001. Di contro, la giurisprudenza della Corte Edu, da ultimo con le note sentenze Arnoldi c. Italia del 2017 e Petrella c. Italia del 2021, riconosce anche in capo alla mera “persona offesa dal reato” il diritto ad avere un processo equo che sia definito in tempi ragionevoli, estendendo alla vittima del reato le guarentigie di cui all’art. 6 della convenzione. Si registra pertanto – allo stato dell’arte – nell’ordinamento italiano l’assenza di un rimedio effettivo per le vittime del reato (in alcuni casi anche di gravi ipotesi di violenza di genere) che a causa della irragionevole durata dei processi italiani, spesso preceduti da una fase investigativa di lunga durata, non riescano ad ottenere in sede penale il riconoscimento del risarcimento dei danni e una adeguata protezione dei loro diritti primari protetti dalla Convenzione Edu.

Sommario: 1. Il caso – 2. La decisione della Corte di Appello di Palermo – 3. Nuovi scenari per dirimere il contrasto: il ricorso alla Corte Edu con procedura diretta e l’interlocuzione con il governo italiano

 

1. Il caso

La ricorrente, parte offesa in un procedimento penale per il delitto di atti persecutori durato oltre undici anni, citava in giudizio il Ministero della Giustizia al fine di ottenere l’equo indennizzo per la non ragionevole durata del processo.

Segnatamente, la ricorrente denunciava l’avvenuta violazione degli artt. 6 e 13 C.e.d.u., atteso che nel caso in esame la prima querela contro l’imputato era stata sporta nel 2009, mentre il processo penale era stato definito, in grado di appello solamente nel 2020, oltre undici anni dopo la denuncia dei fatti, con sentenza di proscioglimento per estinzione del reato per decorso del tempo massimo dei termini di prescrizione.

E ciò anche sulla base del fatto che, nonostante le indagini preliminari si fossero concluse già nel 2010, l’ufficio requirente fosse rimasto per anni inerte, formulando l’imputazione solo nel 2014.

Si evidenziava inoltre nell’atto introduttivo come, all’inerzia del pubblico ministero procedente, si erano poi aggiunte nel corso del dibattimento altre classiche e annose disfunzioni che sovente compromettono la celerità delle procedure giudiziarie italiane, quali il mutamento della persona fisica dell’organo giudicante e un tempo considerevole (ben diciotto mesi dalla pronuncia) per il deposito della motivazione della sentenza.

Si censurava, quindi, con il ricorso in parola l’irragionevole durata del processo penale, muovendo, sulla base della esegesi resa dalla Corte Edu nella recente sentenza Petrella c. Italia[1], dal presupposto che il dies a quo a partire dal quale computare la durata irragionevole del procedimento dovesse farsi coincidere con l’assunzione da parte della ricorrente della qualità di persona offesa, ovvero sin dal momento in cui quest’ultima aveva denunciato gli atti di persecuzione subìti all’autorità giudiziaria competente.

In ragione delle superiori doglianze, pertanto, si richiedeva, previo riconoscimento della irragionevole durata del processo per anni cinque e mesi otto oltre il termine di cui all’art. 2 comma 2 bis l. 89/2001, la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento in favore della ricorrente della somma complessiva pari a € 5.100,00.

2. La decisione della Corte di Appello di Palermo

Con decreto emesso l’11.05.2021, la Corte di Appello di Palermo Sez. Lavoro, rigettava il ricorso ex l. 89/2001 depositato nell’interesse della ricorrente.

In motivazione, il collegio – pur dando atto delle innovative statuizioni della pronuncia Petrella c. Italia – dichiarava di aderire integralmente alla consolidata giurisprudenza interna espressa più volte dalla Corte di Cassazione e ribadita di recente dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 249/2020, a mente delle quali le vittime del reato “non possono considerarsi parti del suddetto procedimento prima della loro costituzione come parte civile (…)”[2].

Per tali motivi, la Corte considerava nel caso di specie rispettato il termine ex art. 2 comma 2 bis l. 89/2001 di ragionevole durata del processo per ciascun grado di giudizio (tre anni per il primo grado e due anni per il secondo grado), atteso che lo stesso si era protratto per due anni e tre mesi in primo grado  (conteggiando quale dies a quo il giorno dell’udienza in cui era stata depositata la costituzione di parte civile e, invece, escludendo dal computo il notevole lasso temporale, pari ad oltre cinque anni, in cui si era dipanata la fase delle indagini preliminari) e per nove mesi e sette giorni in grado di appello.

3. Nuovi scenari per dirimere il contrasto: il ricorso alla Corte Edu con procedura diretta e l’interlocuzione con il governo italiano

Sulla scorta del precedente Petrella c. Italia del 18.03.2021, preso atto della resistenza delle corti italiane ad aderire alla interpretazione resa dai giudici di Strasburgo, si decideva di non impugnare con gli ordinari mezzi interni la decisione in esame e avanzare invece ricorso immediato alla Corte Edu per mancanza in sede nazionale di un rimedio e una procedura effettiva per la tutela delle vittime di reato in palese violazione degli artt. 6, 13 Cedu.

Con provvedimento del 14.10.2022 la Corte Edu ha notificato il caso al Governo Italiano, iniziando la fase non contenziosa per addivenire ad una risoluzione amichevole mediante la formulazione di una proposta di riconoscimento delle summenzionate violazioni con la proposta di riconoscere alla ricorrente l’equo indennizzo di cui all’art. 41 Cedu, o in caso di mancato accordo tra le parti, seguirà una fase contenziosa.

Si è a oggi in attesa della decisione, anche in virtù delle difese eventualmente spiegate dal Governo italiano a seguito della comunicazione del ricorso da parte della cancelleria della Corte di Strasburgo ([3]).

Il caso in esame potrebbe aprire nuovi scenari e spingere, nel caso di accoglimento del ricorso, per una – si spera definitiva – apertura da parte dell’ordinamento giuridico italiano ai principi più volta espressi dalla giurisprudenza di Strasburgo e volti a riconoscere alle vittime del reato il ruolo di “parte” del procedimento – sin dall’avvio delle indagini preliminari – a prescindere che si sia poi o meno avanzato nella susseguente fase processuale effettive richieste risarcitorie in forza della costituzione di parte civile.

L’evoluzione giurisprudenziale della Corte Edu, peraltro, negli ultimi anni, soprattutto al fine di garantire una effettiva tutela alle vittime di violenze di genere, ha anche ampliato lo spettro applicativo dell’art. 2 C.e.d.u., che tutela il diritto alla vita di ogni uomo, condannando alcuni stati membri per non avere garantito ai propri cittadini una tutela effettiva, mediante investigazioni caratterizzate da una reazione diligente, celere e determinata e al contempo assicurando alla vittima delle violenze una partecipazione effettiva al procedimento, fornendo loro le necessarie notizie e informazioni e i necessari mezzi di controllo procedurali[4].

Anche su questo versante, ad oggi, l’ordinamento italiano, nonostante l’approvazione del c.d. “Codice Rosso” con la l. n. 69 del 2019, rimane ancora indietro nell’applicazione concreta dei diritti e principi giurisprudenziali riconosciuti in sede europea, di guisa che lo stato italiano continua a ricevere reprimende e condanne economiche a Strasburgo.

Più di recente, invero, con le sentenze Landi c/Italia del 7 aprile 2022, ric. n. 10929/19 e De Giorgi c/Italia, del 16 giugno del 2022, Ric. n. 23735/19, la Corte EDU ha nuovamente condannato l’Italia per la violazione dell’art. 2 Cedu (Diritto alla vita) e art. 3 Cedu (Divieto di Tortura) per l’inerzia delle autorità italiane nel proteggere vittime di reati di genere dalle violenze e dai maltrattamenti inflitti e la conseguente violazione dei c.d. obblighi positivi gravanti sullo stato di compiere indagini rapide ed effettive e di garantire una protezione efficace nei casi di violenza.

Da un primo sguardo di insieme, inoltre, anche la c.d. Riforma Cartabia, seppur ampliando i diritti informativi e le possibilità per la persona offesa di avere accesso al fascicolo delle indagini a seguito dell’emanazione dell’avviso ex art 415 bis c.p.p., dandogli così facoltà di intervenire nei casi di intempestività nell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.

Nessun intervento normativo, invece, è stato apportato alla procedura per la irragionevole durata del processo di cui alla c.d. legge “Pinto” e nella specie al comma 2-bis all’art. 2 l. n. 89 del 2001, norma che, come sopra esposto, così come applicata in Italia continua a rimanere in distonia con gli oramai consolidati orientamenti del diritto europeo.

 

 

 

 

 

 


[1] Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. I, ric. n. 24340/07, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia, testo e commento in Elisa Grisonich, “Il dirompente incedere delle garanzie processuali della vittima nella giurisprudenza di Strasburgo: il caso Petrella c. Italia, tra ragionevole durata del procedimento, diritto di accesso al giudice e rimedio effettivo”, in Sistema Penale, rivista online,  07.04.2021; in senso conforme vedi anche la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. I, ric. n. 35637/04, 7 dicembre 2017, Causa Arnoldi c.Italia.
[2] Cfr. sul punto Cass. n. 26625 del 21.12.2016 e sentenza Corte Cost. n. 249/2020.
[3] In particolare, CEDU, 23 febbraio 2017, Grande Camera, ric., n. 43395/09, De Tommaso c. Italia, ha rilevato che “[…] in alcune circostanze può essere opportuno cancellare un ricorso dal ruolo ai sensi dell’articolo 37, § 1, lettera c), della Convenzione sulla base di una dichiarazione unilaterale da parte del Governo convenuto anche qualora il ricorrente desideri che l’esame della causa prosegua. Ha sottolineato al riguardo che tale procedura non è di per sé finalizzata a eludere l’opposizione del ricorrente a una composizione amichevole. Deve essere accertato sulla base delle particolari circostanze della causa se la dichiarazione unilaterale offra una base sufficiente per concludere che il rispetto dei diritti umani, come definito dalla Convenzione, non richieda che la Corte continui l’esame della causa”, a tal fine rilevando la natura delle doglianze sollevate, la questione di sapere se le questioni sollevate siano simili a questioni già determinate dalla Corte in precedenti cause, la natura e la portata delle misure adottate dal Governo convenuto nell’esecuzione delle sentenze pronunciate dalla Corte in tali cause, nonché le conseguenze di queste misure sul caso in esame – cfr. § 135 sent. cit. Assume, poi, particolare rilievo il fatto che la dichiarazione unilaterale del Governo “[…] debba, sulla base delle doglianze sollevate, contenere il riconoscimento della responsabilità in relazione alle asserite violazioni della Convenzione, o per lo meno qualche ammissione al riguardo” – cfr. § 136, sent. ult. cit.
[4] Cfr. sul punto in maniera più approfondita, Antonella Marandola, “Reati violenti e Corte europea dei diritti dell’uomo: sancito il diritto alla vita e il “diritto alle indagini”, nota di commento a C. eur. dir. uomo, Sez. II, 4 agosto 2020, Dhurata Terschana c. Albania, ric. n. 48756/14, in Sistema Penale, rivista online, 22 settembre 2020; cfr. anche Roberta Casiraghi, “La corte di Strasburgo condanna l’Italia per la mancata tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, commento a Corte E.D.U., Sezione Prima, sent. 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, in Diritto Penale Contemporaneo,13 marzo 2017, Contributo pubblicato anche nel Fascicolo 3/2017.

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