Rapporti tra azione aquiliana e azione di ingiustificato arricchimento, l’arricchimento mediante fatto ingiusto
L’azione aquiliana e l’azione di ingiustificato arricchimento sono rispettivamente disciplinate dagli artt. 2043 e 2041 c.c.; l’azione generale di arricchimento ha carattere sussidiario, nel senso che non è proponibile, a mente dell’art. 2042 c.c., quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subìto. L’art. 2043 c.c. prevede invece la norma cardine del sistema della responsabilità aquiliana: in virtù del principio generale di neminem laedere, qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno. Come è noto, la funzione della responsabilità civile è specialmente di tipo compensativo-risarcitorio cioè, come efficacemente affermato recentemente dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, mira a ricollocare il danneggiato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito: in tal senso, il risarcimento del danno svolge la funzione di spostare il peso dell’illecito dal danneggiato al danneggiante, di modo che sia il danneggiante a subire gli effetti della propria condotta illecita.
La ratio dell’azione di cui all’art. 2041 c.c., invece, attiene alla diversa logica secondo cui l’ordinamento non tollera spostamenti patrimoniali privi di causa lecita. È per questo che, chi senza giusta causa si è arricchito a danno di un’altra persona, è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. Dal punto di vista strutturale, le due azioni presentano sia elementi comuni e che alcune differenze.
Come si afferma tradizionalmente, l’azione aquiliana presuppone la sussistenza di due danni, il danno-evento e il danno-conseguenza e, quindi, di due diversi rapporti di causalità. Il danno-evento è la lesione dell’interesse considerato meritevole di tutela risarcitoria: da questo punto di vista, deve sussistere un nesso di causalità tra fatto del danneggiante e la suddetta lesione (c.d. causalità materiale).
Il danno-conseguenza consiste invece nel risultato, valutabile in termini di conseguenze patrimoniali e non patrimoniali, patito dal danneggiato e che consente il sorgere dell’obbligazione risarcitoria. Tra danno-evento e danno-conseguenza, deve sussistere un rapporto causale (c.d. causalità giuridica): non tutti i danni sono risarcibili, ma lo sono solo quelli riconducibili alla lesione in via diretta, immediata nonché, in alcuni casi, anche in via indiretta purché collegati all’illecito in base ad un criterio di regolarità causale. Come riferito, il danno-conseguenza ha la precipua funzione di limitare la tutela risarcitoria al danno patito dal danneggiato, essendo invece esclusa la configurabilità di una responsabilità aquiliana con funzione punitiva. L’azione di cui all’art. 2041 c.c. presuppone da un lato l’arricchimento senza una giusta causa, dall’altro il correlato impoverimento di un diverso soggetto, oltre che, come sopra affermato, l’insussistenza di un’altra azione per ottenere il ristoro del pregiudizio subito.
L’azione di ingiustificato arricchimento ha quindi in comune con l’azione aquiliana gli elementi della ingiustizia del danno e la correlazione tra arricchimento e pregiudizio altrui: infatti per entrambe le azioni si richiede una contrapposizione tra un soggetto che subisce uno svantaggio, che in un caso è il danno ingiusto ex art. 2042 c.c., nell’altro è un depauperamento in genere, ed uno che cagiona quel danno o quel depauperamento.
Tuttavia, con riferimento all’azione di ingiustificato arricchimento, la norma non richiede che la diminuzione patrimoniale avvenga necessariamente in ragione della commissione di un fatto doloso o colposo.
Il presupposto dell’azione in esame, invero, è costituito dalla verificazione di uno spostamento patrimoniale ingiustificato e, infatti, il quantum debeatur è commisurato, nei limiti dell’arricchimento, alla correlativa diminuzione patrimoniale e non necessariamente in ragione della commissione di fatto doloso o colposo.
Fermo quindi restando che una differenza le due azioni si possa cogliere in primo luogo dal punto di vista dell’elemento psicologico, che deve necessariamente sorreggere la condotta di chi commette un illecito aquiliano, si deve comunque evidenziare che vi sono casi in cui l’arricchimento si verifica proprio in favore di chi commette un fatto ingiusto ai sensi dell’art. 2043 c.c.: si tratta di casi in cui l’autore dell’illecito cagiona un danno, che sarà oggetto di risarcimento del danno, risarcimento, tuttavia, inferiore al profitto che lo stesso ha ricavato dal proprio fatto illecito.
In particolare, si suole parlare in questi casi di arricchimento mediante fatto ingiusto, per indicare che l’arricchimento è la conseguenza della commissione di un fatto illecito.
Tale ipotesi si verifica, in genere, quando la condotta dell’autore dell’illecito ha avuto ad oggetto la lesione del potere di disposizione di un diritto altrui: il soggetto titolare di un diritto non può liberamente disporne a causa della condotta illecita del danneggiante il quale, a propria volta, trae utilità dall’esercizio illecito del potere di disposizione del diritto altrui.
In questi casi, specialmente se gli atti di disposizione del diritto altrui si sono protratti per molto tempo, è ben possibile che il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., dovendosi limitare a compensare il danno subito dal titolare del diritto e non potendo rivestire alcuna funzione punitiva nei confronti del danneggiante, sia comunque inferiore rispetto alle utilità che, in quel frangente, il danneggiante è riuscito ad ottenere ed è in questo senso che si coglie la possibilità di arricchimento mediante fatto ingiusto.
Non è un caso, infatti, che, in alcuni settori specifici del diritto civile aventi ad oggetto beni “immateriali”, come con riferimento alla tutela della proprietà intellettuale e industriale, il legislatore abbia introdotto una disciplina particolare che consenta al danneggiato di esperire un’azione diretta alla restituzione degli utili.
Ebbene, la previsione di tali norme ad hoc ha sollevato, sul piano sistematico, il problema di stabilire se, in mancanza di esse, sia configurabile o meno un rimedio che consenta il recupero dell’ingiusto profitto tratto da chi illecitamente abbia sfruttato un diritto altrui tramite atti di disposizione illeciti.
Precisamente, occorre comprendere se le norme citate siano o meno espressione in un principio generale secondo cui, in caso di ingiusta percezione di utilità attraverso lo sfruttamento di un diritto altrui, esista un rimedio per ricollocare quegli utili in capo al titolare del diritto; inoltre, una volta risposto positivamente a tale primo quesito, si pone l’ulteriore problema di comprendere quale sia questo rimedio.
Secondo un primo orientamento, le norme che prevedono espressamente un’azione di restituzione degli utili consentono di ritenere che, ove queste non vi fossero, non vi sarebbe rimedio: il danneggiante sarebbe tenuto al risarcimento nei confronti del titolare del diritto nei limiti del danno sofferto, ma potrebbe comunque tenere le utilità così percepite.
Altro indirizzo ermeneutico, obiettando che il primo orientamento darebbe luogo alla inaccettabile conclusione secondo cui dall’illecito deriverebbero conseguenze vantaggiose per chi lo commette, ritiene che un rimedio sussista e che sia identificabile proprio nell’azione di ingiustificato arricchimento.
Tuttavia, e su tale critica si innesta un ulteriore orientamento interpretativo, si deve escludere che il rimedio sia l’azione ex art. 2041 c.c. poiché testualmente questo prevede che l’indennizzo sia commisurato al depauperamento e non all’altrui arricchimento.
Sotto questo profilo, come già evidenziato, le azioni ex artt. 2041 e 2043 c.c. conducono entrambe al risultato di commisurare quanto dovuto al soggetto danneggiato, che sia a titolo di risarcimento del danno o a titolo di indennizzo, alla luce di quanto dallo stesso patito e non avendo riguardo di quanto ottenuto dal danneggiante.
Sul punto, è recentemente intervenuta la Terza Sezione della Corte di Cassazione (Cassazione Civile, Sez. III, 23 aprile 2020, n. 8137) che, recuperando la tesi indirettamente avallata dalle Sezioni Unite alcuni anni fa (Cassazione civile, SS.UU., sentenza 04/07/2012 n° 11135), ha confermato la sussistenza di uno strumento volto ad un riequilibrio tra la posizione di chi subisce atti di disposizione illecita di un proprio diritto e di chi ottiene un arricchimento dai suddetti atti di disposizione ed ha affermato che tale rimedio si possa desumere dalla disciplina della negotiorum gestio ex art. 2028 e ss. c.c.
Segnatamente, le Sezioni Unite si erano occupate del caso di locazione di un bene in comunione da parte di un comproprietario senza il consenso altrui ed avevano affermato che, in tali casi, i il locatore aveva posto in essere una negotiorum gestio e che comunisti pretermessi potevano avvalersi, nei confronti del locatario, dello strumento della ratifica ex art. 2032 c.c. e ottenere, in misura correlata alla propria quota, gli utili da questo ricevuti in costanza di locazione.
L’art. 2032 c.c. prevede infatti la possibilità per l’interessato di ratificare l’operato del gestore anche ove la gestione sia stata compiuta in buona fede, cioè nell’erroneo convincimento di gestire un affare proprio; si ritiene quindi che la norma in esame possa trovare applicazione, oltre che nel caso specifico ivi contemplato, anche, e a maggior ragione, nel caso in cui la gestione avvenga in mala fede, come nel caso di chi dispone volontariamente e consapevolmente di un diritto altrui, ottenendo da tale gestione un arricchimento.
Anche in caso di gestione dell’affare altrui svolta in mala fede, come affermato dalle SS.UU. e ribadito dalla Terza Sezione, la ratifica produce gli effetti di un mandato senza rappresentanza.
Alla luce di quanto esposto, avuto riguardo anche della giurisprudenza intervenuta recentemente sul punto, è possibile quindi affermare quanto segue.
In caso di arricchimento mediante fatto ingiusto, attraverso cioè il compimento di atti di disposizione di un diritto altrui, il danneggiato può senz’altro agire ex art. 2043 c.c. per ottenere il risarcimento nei limiti del danno subito.
Egli può inoltre scegliere di avvalersi dell’art. 2032 c.c. che, attraverso una interpretazione estensiva, consente di equiparare il gestore dell’affare altrui a chi, senza titolo, dispone del diritto altrui e trae da tali atti di disposizione un arricchimento e quindi di ratificare l’operato del danneggiante.
Ai sensi dell’art. 2032 c.c., la ratifica produce, relativamente alla gestione, gli effetti che sarebbero derivati da un mandato: il titolare del diritto di cui illecitamente il danneggiante ha disposto, potrà quindi agire con l’actio mandati c.d. directa ove il gerente-mandatario sia inadempiente, cioè ometta la restituzione delle utilità ottenute dalla disposizione.
Viceversa, ove dagli atti di disposizione illecita siano derivati effetti sfavorevoli, il titolare può scegliere di non ratificare l’operato del gerente e, in questo caso, sarà quest’ultimo a dover sopportare gli eventuali effetti dannosi derivanti dalla propria condotta illecita.
In questo modo, per concludere, si evidenzia la coerenza del sistema che prevede, in via generale, un importante strumento di riequilibrio e di salvaguardia un principio fondamentale di ordine pubblico.
Per effetto della ratifica da parte del danneggiato, si evita, infatti, che il danneggiante possa trarre un vantaggio dalla propria condotta illecita e si consente che il danneggiato, oltre al risarcimento del risarcimento del danno, possa ricondurre in capo a lui stesso gli effetti derivanti dalla disposizione altrui e illecita di un proprio diritto, di cui il potere di disposizione, unitamente al potere di godimento, rappresenta una componente necessaria.
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