Rapporti tra diritto europeo e diritto interno
Evoluzione del rapporto tra diritto interno e diritto europeo. Sulla questione relativa al rapporto tra l’ordinamento interno e quello comunitario si è attestato, per lungo tempo, il dibattito in seno alla giurisprudenza, inizialmente orientata nel senso di ritenere la norma comunitaria come norma di rango paritario a quello della legge ordinaria. Impostazione alla quale si perveniva in ragione della ritenuta essenzialità del ruolo che, nel recepimento del diritto comunitario, aveva avuto la legge: il fatto che il Trattato istitutivo della Comunità europea fosse stato recepito per mezzo dello strumento legislativo conduceva alla soluzione che agli atti adottati dagli organi europei doveva riconoscersi lo stesso rango. Conseguenza immediata di una simile impostazione era quella di riconoscere come eventuali successive leggi in contrasto col Trattato avrebbero prevalso in ossequio al criterio di soluzione dei conflitti di tipo cronologico.
A questa prima fase succede il riconoscimento del primato del diritto comunitario. Si ritiene, infatti, che la sua supremazia vada rinvenuta nei dettami di cui all’art. 11 Cost., il quale, dopo avere riconosciuto che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” statuisce come la stessa “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni“. In quella fase storica, l’art. 11 Cost. viene considerato come la norma più idonea a garantire al diritto comunitario il primato rispetto alle norme di diritto interno: primato riconosciuto tenendo conto del passaggio logico giuridico che, muovendo dall’accettazione dello Stato di apporre dei limiti alla propria Sovranità, riconosce aree di competenza all’UE, con conseguente accettazione della supremazia della stessa su quegli spazi di competenza.[1]
Il riconoscimento del primato del diritto europeo viene garantito attraverso un particolare strumento: la disapplicazione. Infatti, nel caso in cui venga a profilarsi una situazione di contrasto tra norma interna e norma europea, è riconosciuto al giudice nazionale il potere di disapplicare la norma interna confliggente, con la precisazione del fatto che, prima di provvedere in tal senso, occorre operare un preliminare tentativo, ossia quello di verificare che non sia possibile fornire una interpretazione conforme al diritto comunitario della norma interna[3].
Non va sotteso il fatto che, tuttavia, la gestione del conflitto resta attratta al giudizio della Corte Costituzionale solo in due casi. Ci si riferisce, in primis, al caso in cui, nei rapporti tra Stato e Regioni o tra Regioni venga in rilievo la violazione di una norma comunitaria.
In secondo luogo, resta attratta al giudizio della Corte Costituzionale la questione relativa al contrasto tra norma interna e norma europea non dotata di efficacia diretta. La ragione di una simile scelta riposa nella mancanza, in ipotesi di tal fatta, di una concreta utilità del meccanismo della disapplicazione. Infatti, in caso di contrasto tra norme interna e norma europea, la violazione del diritto europeo è solo astratta, non trovando la norma efficacia diretta. Pertanto, la non applicazione della norma interna non sortirebbe l’effetto di determinare l’applicazione della norma europea, che resterebbe comunque estranea al giudizio.
La giurisprudenza nazionale concorda, dunque, con la giurisprudenza europea, su quello che è il meccanismo cui il giudice nazionale deve ricorrere al fine di lasciare al diritto europeo piena operatività. Se la soluzione è, quindi, la stessa, diversa è la visione che i due ordinamenti hanno del percorso logico giuridico che ad essa conduce. Infatti, per la giurisprudenza nazionale, il giudice deve disapplicare (quindi non applicare) la norma nazionale in quanto, per effetto dell’adesione all’ordinamento sopranazionale, lo Stato Italiano lascia determinati spazi di operatività alla competenza del diritto europeo, con conseguente ritrazione nei casi di attrito tra le rispettive norme. Diversa, invece, l’impostazione accolta dalla Corte di Giustizia: in caso di conflitto tra norma interna e norma europea, la norma interna non può essere applicata in ragione dell’esistenza di un rapporto di gerarchia. Si tratta, in questo secondo caso, di una lettura per così dire monista dei rapporti tra i due ordinamenti: questi, seppur di diversa derivazione, finiscono per ricongiungersi in un unico sistema giuridico, strutturato secondo rapporti gerarchici.
Invero, il tradizionale accoglimento di una impostazione dualista, proprio della giurisprudenza interna, tende ad esser sempre più prossimo ad una conversione verso l’impostazione monista, soprattutto alla luce degli interventi operati sul titolo V della Costituzione e, in particolare, all’art. 117, comma 1 Cost. in forza del quale la “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali“. Dalla norma emerge con chiarezza quella che è la natura dei rapporti che intercorrono tra Stato e ordinamento sovraordinato: la potestà legislativa deve essere esercitata nel rispetto dei vincoli che promanano dall’ordinamento comunitario. Una visione sicuramente più prossima all’impostazione monista, che intende ricondurre norma interna e norma europea entro un unico sistema retto, poi, da una impalcatura di carattere gerarchico.
I controlimiti. Sin qui si è detto, dunque, del primato del diritto europeo. Primato che, però, non opera senza limiti. Delle barriere alla sua operatività sono costituite, infatti, dai principi fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. Con riferimento a questi ultimi si è parlato, tenuto conto della ritenuta insormontabilità degli stessi, di controlimiti[4]. Si tratta di principi supremi e di diritti inalienabili della persona umana che è difficile immaginare possano essere messi in discussione da norme comunitarie, considerato che la stessa comunità costituisce ordinamento sovranazionale risultante dall’incontro dei principi fondamentali dei singoli ordinamenti nazionali. Ciò nonostante, si afferma l’esigenza di impedire che eventuali interventi comunitari possano porsi in conflitto con la struttura del singolo ordinamento nazionale. Infatti, è pur vero che lo Stato ha rinunciato a spazi di sovranità in favore di un ordinamento sovraordinato quale la comunità europea, ma ciò è avvenuto senza che quelle cessioni di sovranità potessero dirsi estese al suo nucleo centrale. Per questo motivo, in caso di attrito tra norma europea e principi supremi dell’ordinamento interno, spetterebbe al Giudice sollevare questione di legittimità della legge che ha dato esecuzione al Trattato, nella parte in cui permette l’ingresso nell’ordinamento di disposizioni simili.
Diritto interno e CEDU. Diverso il modo in cui si atteggia, invece, il rapporto tra norma interna e CEDU[5]. La CEDU, infatti, non rientra nell’ambito del diritto dell’Unione europea, con conseguente esclusione della sua efficacia diretta nell’ordinamento nazionale. Per questo motivo, nel caso di conflitto tra diritto nazionale e CEDU, il giudice potrà limitarsi a sollevare questione di legittimità alla Corte Costituzionale, venendo in rilievo la violazione dell’art. 117, comma 1 Cost., in forza del quale, come già visto, la potestà legislativa di Stato e Regioni è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Anche in questo caso, prima di sollevare questione di legittimità costituzionale, il giudice deve provare a risolvere la situazione di attrito in via ermeneutica, tentando la strada dell’interpretazione conforme alla CEDU. Occorre precisare che il meccanismo appena indicato continua a venire in rilievo, come precisato anche dalla Corte Costituzionale, nonostante l’intervento del Trattato di Lisbona del 2009: il Trattato, infatti, riconosce che i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione fanno parte del diritto dell’Unione[6]. La Corte ha preso posizione sulla questione, affermando l’impossibilità di riconoscere, nonostante l’intervento del Trattato, un’adesione dell’UE alla CEDU.[7]
[1] Il primato del diritto comunitario viene riconosciuto a partire dalla sentenza della Corte Cost. del 1973 n. 183. Si precisa, però, che almeno agli albori della riconosciuta riconduzione del primato della norma comunitaria nel disposto di cui all’art. 11 Cost., la giurisprudenza nazionale finisce per individuare lo strumento idoneo a risolvere il conflitto tra norma interna e norma comunitaria esclusivamente nella sottoposizione al vaglio di legittimità costituzionale.
[2] Nel senso che a fronte del contrasto tra norma interna e diritto comunitario, il giudice deve limitarsi a sollevare questione di legittimità alla Corte Costituzionale, individuando nell’art. 11 Cost. il parametro di legittimità violato.
[3] L’esigenza dell’operatività dello strumento della disapplicazione è messa in luce nella nota sentenza della Corte di Giustizia Simmenthal del 9 marzo 1978, ove si afferma che, in ossequio al principio del primato del diritto comunitario, il giudice nazionale è tenuto alla disapplicazione, onde garantire la piena applicazione del diritto europeo. Soluzione condivisa anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza Granital n. 170 del 1984
[4] La tesi dei controlimiti trova un primo riscontro nella sentenza della Corte Costituzionale del 27 dicembre 1973 n. 183
[5] La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nota come CEDU, fu firmata a Roma il 4 novembre 1950 nell’ambito del Consiglio d’Europa. Consiglio d’Europa che non va confuso con altri organi europei come il Consiglio dell’Unione Europea. Al fine di garantire l’applicazione e la corretta interpretazione dei principi della Convenzione è stata istituita la Corte EDU.
[6] Secondo parte della dottrina l’entrata in vigore del Trattato avrebbe comunitarizzato la CEDU, con conseguente operatività del meccanismo dell’efficacia diretta: in caso di conflitto tra norma interna e Convenzione, andrebbe riconosciuta l’operatività del meccanismo della disapplicazione.
[7] Ci si riferisce alla sentenza della Corte Cost. 11 marzo 2011 n. 80
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Avv. Federico Francesconi
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