Rapporti tra neuroscienze e libertà personale nel processo penale italiano

Rapporti tra neuroscienze e libertà personale nel processo penale italiano

Quello delle neuroscienze è un argomento che anno dopo anno sta interessando giuristi di ogni Paese, tanto in ambito civile quanto in ambito penale. All’interno di questa trattazione si vogliono analizzare i rapporti intercorrenti con il concetto di libertà personale e il conseguente dibattito circa la loro ammissibilità nel processo penale italiano. Prima di procedere è tuttavia opportuno specificare che con il termine neuroscienze si indica un insieme di discipline che si prefiggono l’obiettivo di dimostrare e spiegare come ogni comportamento umano derivi in ultima istanza dal cervello e che pertanto lesioni o malfunzionamenti dello stesso siano idonei ad indirizzare il comportamento umano, dando luce, eventualmente, anche ai comportamenti criminali. A queste conclusioni si è giunti per gradi, dopo decenni di approfonditi studi che oggi si servono dei dati raccolti attraverso il cosiddetto neuroimaging, vale a dire quell’insieme di tecniche attraverso le quali è possibile osservare direttamente il cervello, anche durante le fasi della sua attività. Tra queste tecniche di osservazione diretta sono ricomprese, tra le altre, la risonanza magnetica funzionale per immagini (fRMI), l’elettroencefalografia (EEG), la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la brain fingerprint technology[1]

E così, gli ultimi approdi delle neuroscienze danno origine ad implicazioni evidenti per il diritto penale sostanziale in relazione ad istituti come l’imputabilità, la pericolosità sociale e l’elemento soggettivo del reato.

Per quanto riguarda il primo profilo, le neuroscienze sarebbero in grado di ricercare l’origine del comportamento criminale in lesioni o malfunzionamenti del cervello, fattispecie cioè estranee alla volontà personale, e quindi di provare quell’etero-determinazione della condotta criminosa sufficiente a far venire meno l’attribuibilità in termini psicologici del fatto di reato al suo autore[2].

In relazione al secondo profilo invece, essendo la pericolosità sociale identificata dalla legge come probabilità di commettere nuovi reati in futuro, le neuroscienze sarebbero in grado di esercitare una funzione di predittività della pericolosità sociale in quanto idonee a fornire al giudice un’analisi del rischio di recidiva potenzialmente derivante da anomalie cerebrali, sia in riferimento alla morfologia che alle funzioni del cervello[3].

Infine, per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato, le neuroscienze sarebbero in grado di assolvere ad una funzione di mind detection potendo accertare la sussistenza del dolo, della colpa o della preterintenzione. Per comprendere al meglio questa dinamica si pensi a che quelle indagini neuroscientifiche dimostrative nel reo una certa incapacità cognitiva, dovuta ad una lesione o a un malfunzionamento del cervello, inidonea a ideare, pianificare e mettere in opera piani delittuosi elaborati e a lungo termine. In casi come questo la naturale conseguenza dell’indagine sarebbe quella che porta all’esclusione della premeditazione in riferimento al delitto commesso[4].

Tali teorie sono state e sono tutt’ora fonte di accesi dibattiti che in linea di massima tendono a consigliare un approccio più cauto e moderato alle neuroscienze ma che non saranno analizzati ai fini di questa trattazione. Infatti, ciò che in questa sede maggiormente importano sono le implicazioni per il diritto penale processuale, dal momento che per mezzo delle neuroscienze, in particolare attraverso le tecniche di cosiddetto lie o memory detection (dall’inglese, rilevazione della menzogna o della memoria), sembrerebbe possibile accertare la veridicità delle dichiarazioni rese nel processo dall’imputato ovvero delle testimonianze. Si tratta di una pretesa certamente non nuova dal momento che nel tempo sono state proposte numerosissime tecniche finalizzate soprattutto al rilevamento della menzogna. Si pensi al celeberrimo poligrafo, alla narcoanalisi, ma anche all’ipnosi. L’indagine neuroscientifica ha tuttavia di recente portato alla ribalta i cosiddetti memory detector, tra i quali va annoverato l’autobiographical-Implicit Association Test (a-I.A.T.), vale a dire un test di associazione implicita attraverso il quale sarebbe possibile riscontrare tracce di memoria autobiografica, legate al delitto per il quale il procedimento è stato instaurato, nella mente della persona esaminata sottoponendolo ad un particolare test al computer[5].

Ora, tralasciando il giudizio di scientificità delle suddette tecniche, l’obiettivo di questo contributo è, come già anticipato, valutare l’ammissibilità delle neuroscienze nel processo penale italiano in relazione ai principi che tutelano la libertà personale degli individui, ma prima di procedere è opportuno fare un digressione inevitabile sul concetto di libertà personale e sulle evoluzioni che nel tempo lo hanno riguardato.

Quando si parla di libertà personale si fa riferimento ad una libertà individuale, propria di ogni persona in quanto tale, che trova collocazione nelle “carte” più importanti emanate nel corso del ‘900. A livello nazionale il riferimento normativo più diretto e immediato è insito nella Costituzione, più precisamente nell’articolo 13, il cui primo comma dispone che «la libertà personale è inviolabile». Il contenuto di questa importante libertà ha dato adito ad un notevole dibattito dottrinale, alimentato dalle contrastanti pronunce della Corte costituzionale in merito. Sulla base dell’interpretazione più risalente, e per questo anche più restrittiva, dell’articolo 13, la libertà personale veniva innanzitutto qualificata come libertà negativa, vale a dire come libertà da, nello specifico libertà da una qualunque forma di coercizione o costrizione fisica. In altri termini, la disposizione costituzionale, alla luce di questa ristretta interpretazione, vieta di sottoporre l’individuo, nella sua fisicità, a misure coercitive arbitrarie e ingiustificate. E tale divieto opera sia orizzontalmente, in quanto la libertà personale è tutelata rispetto alle azioni di altri soggetti privati, che verticalmente, in quanto anche lo Stato deve astenersi dal comprimerla se non in specifici casi in cui devono ricorrere contemporaneamente due condizioni imprescindibili: la riserva di legge, nel senso che i modi e i casi in cui la libertà personale può essere limitata devono essere tassativamente previsti dalla legge, e la riserva di giurisdizione, nel senso che gli atti limitativi devono essere autorizzati, caso per caso, dall’autorità giudiziaria attraverso l’emanazione di un provvedimento motivato[6]. Non a caso il secondo comma dell’articolo 13 dispone proprio che «non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi stabiliti dalla legge».

La giurisprudenza[7] e la dottrina hanno successivamente ampliato il significato del concetto di libertà personale facendovi rientrare anche la libertà da ogni condotta, non necessariamente fisicamente tangibile, che sia idonea a ledere l’integrità psichica della persona[8]. Alla luce di questa interpretazione estensiva appare allora evidente come nell’articolo 13 possa rientrarvi anche la libertà morale intesa come libertà da una qualunque ingerenza nella psiche dell’individuo pregiudizievole del libero utilizzo delle sue «facoltà intellettive, emozionali e raziocinanti»[9]. Invero una tutela della libertà morale, sebbene in riferimento alle sole persone sottoposte a restrizioni di libertà, era già prevista esplicitamente dal quarto comma dello stesso articolo 13, sebbene con una portata decisamente inferiore rispetto a quanto poi elaborato dalla prassi, e con una funzione completamente diversa.

Se poi si considera che nell’ambito della libertà morale vengono da alcuni fatte rientrare anche altre libertà costituzionalmente protette quali la libertà di coscienza, di espressione, di manifestazione del pensiero e la libertà alla vita affettiva e familiare allora si può senz’altro affermare che nell’articolo 13 è insita anche la tutela della libertà di autodeterminazione dell’individuo, intesa come libertà di attuare scelte, attinenti al proprio foro interiore, in piena autonomia[10] e al di fuori di ingerenze altrui, sia private che pubbliche. Ma di autodeterminazione si è cominciato a parlare anche in relazione alla sfera fisica dell’individuo, soprattutto alla luce della nuova interpretazione che viene fatta del diritto alla salute ex articolo 32 della Costituzione in combinato disposto proprio con l’articolo 13[11], che consente la possibilità di disporre liberamente del proprio corpo, seppur nei limiti indicati dall’intero ordinamento.

Altra parte della dottrina, tenendo fede ancora oggi ad un’interpretazione restrittiva, esprime tuttavia riserve non indifferenti sulla collocabilità della libertà morale nella cornice di garanzia dell’articolo 13. Tali riserve si incentrano innanzitutto su quanto emerge dai lavori preparatori portati avanti dai Padri costituenti, ma soprattutto dalle caratteristiche strutturali e sistematiche caratterizzanti la stessa disposizione costituzionale. Essa infatti, al di là del primo comma, sarebbe intuitivamente volta alla tutela della libertà fisica in ambito detentivo e processuale, in quanto proibitiva di detenzioni, ispezioni e perquisizioni, opinione corroborata dal fatto che gli articoli successivi tutelerebbero espressamente ex se le libertà che invece vogliono ricondursi all’articolo 13[12]. Tale opinione non è tuttavia condivisibile dal momento che il secondo comma, dopo aver parlato di detenzioni, perquisizioni e ispezioni, termina con una formula aperta, disponendo il divieto di qualsiasi altra restrizione della libertà personale. Il fatto poi che esistano altri articoli posti a tutela delle libertà fatte rientrare nell’articolo 13 perde di rilevanza, del resto è stata la Consulta a qualificare la libertà personale come fondativa di tutte le altre libertà costituzionalmente garantite, che quindi possono da essa ragionevolmente trarre forza ed essere meglio specificate da norme diverse[13].  Altri fanno notare come un ampliamento del significato della libertà personale insita nella citata disposizione costituzionale significherebbe sottoporre alla duplice cornice di garanzia della riserva di legge e di giurisdizione una qualunque prestazione imposta dall’autorità all’individuo[14]. Ma anche questa opinione non risulta condivisibile, in quanto è chiaro che non tutte le prestazioni imposte rientrerebbero nell’ambito applicativo dell’articolo 13 ma soltanto quelle di una certa gravità idonee a ledere la dignità personale, e quindi a realizzare una degradazione giuridica in capo alla persona[15].

In ogni caso, ammesso e non concesso che la tutela della libertà morale possa non trovare spazio nell’articolo 13, è fuori di dubbio una sua collocazione nella Legge fondamentale per mezzo dell’articolo 2, ormai universalmente riconosciuto come clausola aperta volta alla costituzionalizzazione dei cosiddetti nuovi diritti[16]. E l’ingresso nell’ordinamento costituzionale può avvenire anche per mezzo degli articoli 10, 11 e 117 disciplinanti i rapporti con gli ordinamenti sovranazionali. Al riguardo, l’importanza della libertà personale è infatti avvalorata anche dal richiamo operato dalle più importanti fonti del diritto internazionale. L’articolo 5 della CEDU ricalca lo schema dell’articolo 13 cost., quindi è teso in primis alla garanzia di una libertà negativa. Tuttavia, il combinato disposto con gli articoli 8, 9, 10 e 12 CEDU conduce alle stesse conclusioni cui è pervenuta la dottrina nazionale in ordine al concetto di libertà personale estensivamente interpretata. Anche la Carta di Nizza sembra tutelare la libertà morale, per le stesse ragioni, agli articoli 3, 6, 7, 8, 9, 10 e 11.

Assodato che la libertà personale è comprensiva sia della libertà fisica che della libertà morale, e soprattutto che quest’ultima ha una rilevanza costituzionale, resta da capire se le neuroscienze, nel subentrare nel processo, siano con essa compatibili.

L’esperimento di una qualunque tecnica neuroscientifica, avendo direttamente ad oggetto l’individuo, implica certamente una restrizione della libertà personale fisicamente intesa. Il ricorso alle tecniche di neuroimaging presuppone per esempio l’immobilizzazione, per un certo lasso di tempo, dell’individuo esaminato all’interno di uno scanner cerebrale, ma anche la semplice sottoposizione a test a-I.A.T. e a tutte le altre tipologie di lie e memory detection implica una restrizione, seppur attenuata, della libertà fisica. Per cui, partendo da questo presupposto, è necessario chiedersi se nonostante tutto le tecniche neuroscientifiche siano comunque idonee ad essere utilizzate in ambito forense. Nulla quaestio se l’esperimento delle tecniche è richiesto dalla stessa persona imputata, è infatti lo stesso ordinamento a prevedere tale possibilità in ossequio al principio dispositivo che regola la produzione probatoria[17]. La sottoposizione forzata contra voluntem, invece, non è esclusa a priori, ma può avvenire soltanto nel rispetto delle condizioni enunciate dall’articolo 13 della Costituzione, vale a dire la riserva di giurisdizione e, soprattutto, la riserva di legge. È pertanto richiesta l’emanazione di un provvedimento motivato del giudice ma prima ancora l’esistenza di una legge che in maniera puntuale vada a tipizzare i casi e i modi in cui la libertà personale può legittimamente essere messa da parte. A questo sistema caratterizzato da favor libertatis si è giunti a piccoli passi, soprattutto a causa dell’anima fascista del codice previgente che impediva non poco la piena applicazione dei principi costituzionali[18]. L’introduzione del nuovo codice non sembrò tuttavia prevedere novità significative, e infatti il cambio di rotta si ebbe soltanto nel 1996 con la sentenza n. 238 della Consulta, la quale sanciva l’illegittimità costituzionale dell’articolo 224 del codice di rito nella parte in cui consentiva al giudice, durante le operazioni peritali, di disporre misure incidenti sulla libertà personale al di fuori di quelle tassativamente previste nei casi e modi stabiliti dalla legge. In altri termini, per il legislatore del 1988 era sufficiente far rientrare gli atti limitativi della libertà personale all’interno del tipo legale della perizia ai fini della compatibilità con l’articolo 13 cost., ma la Corte costituzionale fu di diverso avviso e ciò portò inevitabilmente ad una fiorente attività del legislatore, che ampliò la tutela verso l’imputato ma che non mancò anche di estendere i poteri dell’autorità, principalmente in casi eccezionali[19]. Con l’introduzione dell’articolo 224-bis c.p.p. ad opera della legge n. 85 del 2009 si ebbe finalmente una disciplina articolata degli atti limitativi della libertà personale integrante la previsione dei casi e dei modi richiesti dalla Costituzione. La norma in esame infatti prevede che quando si procede per reati qualitativamente e quantitativamente determinati[20] il giudice può disporre l’esecuzione coattiva di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, come ad esempio il prelievo di capelli, peli o mucosa del cavo orale utile alla determinazione del profilo del DNA ovvero altri accertamenti medici, sempre che essi siano necessari all’espletamento della perizia e previa emanazione di un’ordinanza motivata.

Proprio dalla disposizione appena esaminata sembra allora prospettabile una legittimazione alla sottoposizione coatta a tecniche e metodi neuroscientifici, che certamente possono rientrare nella clausola volutamente aperta degli accertamenti medici[21].

Ovviamene è inutile specificare che la sottoposizione coatta alle indagini neuroscientifiche deve avvenire pur sempre nel rispetto di valori indiscutibili della persona umana tra cui, principalmente, la dignità[22], a maggior ragione se il soggetto esaminato è un minore. Va altresì segnalato come fino ad ora non si siano mai verificate ipotesi di questo tipo, essendo state le varie indagini a carattere neuroscientifico sempre effettuate con il consenso della persona interessata e da essa stessa richieste.

La compatibilità con i principi tutelanti la libertà fisica dell’individuo è certamente una condizione necessaria ma non anche sufficiente per poter attribuire piena legittimità alla neuroscienze. È infatti opportuno chiedersi se le indagini neuroscientifiche siano o no lesive anche della libertà morale. Per rispondere è necessario analizzare ciò che il codice di rito dispone al riguardo.

In ambito processuale la norma di riferimento è rappresentata dall’articolo 188 del Codice di procedura penale[23] il quale sancisce che «non possono essere utilizzate, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o macchine idonei ad influire sulla libertà di determinazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». In un’ottica di etica processuale il legislatore del 1988 ha voluto, con questa norma, bandire dalle aule dei tribunali tutti quei metodi idonei a ledere la libertà morale della persona nell’assunzione della prova dichiarativa, in altri termini ad estorcere, mediante l’introspezione della mente, la verità da un soggetto che, non va dimenticato, si presume innocente ma soprattutto è titolare di un diritto al silenzio immediata espressione del diritto di difesa, sul quale si tornerà più avanti.

Affermare in via generica che le neuroscienze sono lesive di questa libertà non è però corretto in quanto troppe differenze esistono tra le varie tecniche. Bisogna innanzitutto precisare che l’articolo 188 si applica esclusivamente a quei casi in cui la persona viene in rilievo come fonte di prova dichiarativa «e cioè quando ciò che si cerca appartiene al foro interno dell’individuo e non esiste indipendentemente dalla sua attivazione»[24]. La disposizione codicistica non è quindi applicabile in relazione a quelle ipotesi in cui la persona viene in rilievo come fonte di prova reale, in questi casi infatti ciò che si vuole ricercare è un elemento diverso dalla dichiarazione, esistente nella persona indipendentemente dalla sua volontà[25]. La diretta conseguenza è che le indagini neuroscientifiche in cui l’individuo rileva come fonte di prova reale sono compatibili con l’articolo 188, si pensi alla risonanza magnetica funzionale, alla PET, all’elettroencefalografia, e in generale a tutte le tecniche di neuroimaging, si tratta infatti di tecniche volte alla semplice osservazione di anomalie morfo-funzionali del cervello, vale a dire un’attività che in alcun modo influisce sulla libertà morale della persona, essendo finalizzata alla ricerca di elementi e dati che sono per natura presenti nell’individuo, indipendentemente dalla sua volontà, che non devono quindi essere estrapolati o estorti dalla sua mente[26].

Ben più complessa è invece la questione relativa agli strumenti volti alla verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni processuali, in quanto espressione di indagini in cui per l’appunto l’individuo rileva come fonte di prova dichiarativa. Per quanto riguarda il poligrafo, si ritiene essere sempre uno strumento altamente invasivo in quanto causa di etero-determinazione del soggetto esaminato non solo in relazione alle sue facoltà fisiche, ma anche, e soprattutto, morali e mentali. Ciò è intuibile specialmente se si considera che durante il test l’esaminato viene indotto in una posizione di stress, dato che è proprio questo il presunto indice rivelatore della menzogna. Per quanto riguarda la narcoanalisi e l’ipnosi, esse possono considerarsi addirittura più invasive della tecnica poligrafica, maggiori sono infatti i livelli di costrizione morale cui è sottoposto il presunto colpevole, i quali danno luogo ad un’etero-determinazione totale, o quasi[27].

Per quanto riguarda invece l’a-I.A.T. è da alcuni qualificato come tecnica con un livello di etero-determinazione addirittura nullo. Questa macchina della verità implicherebbe per l’individuo la semplice somministrazione di un compito cognitivo, vale a dire «nulla di tecnologicamente più invasivo di una visita di controllo per la patente di guida»[28]. Verrebbe completamente a mancare una qualsivoglia limitazione della libertà morale, anzi l’individuo si troverebbe in una posizione che potremmo definire agevolata e favorevole in quanto verrebbe semplicemente posto dinanzi ad un computer. Non sarebbe altresì riscontrabile un’alterazione nella capacità di ricordare e di valutare i fatti, in quanto non sarebbero queste operazioni richieste all’individuo, che anzi sarebbe chiamato ad effettuare delle normalissime associazioni tra frasi che compaiono sullo schermo, e, soprattutto, il somministrato non verrebbe indotto o costretto a dire la verità, sarebbe al contrario libero di rispondere in modo veritiero o menzognero. Per cui, almeno astrattamente, l’utilizzo di tale tecnica sembra conforme al dettato del legislatore in quanto effettivamente non è riscontrabile alterazione o etero-determinazione, in senso tradizionale, alcuna.

Tuttavia, un’interpretazione estensiva e garantista del concetto di libertà morale[29], quale è quella precedentemente esposta, conduce a ritenere inammissibile l’utilizzo processuale dei lie e dei memory detector. Infatti, durante l’espletamento delle suddette tecniche, sebbene possa anche non verificarsi alcuna lesione della libertà morale tradizionalmente intesa, è senza alcun dubbio possibile che il soggetto esaminato, in virtù del modo in cui il test è condotto, sia comunque destinatario di una qualche perturbazione della libertà psichica idonea a determinare uno stato di soggezione tale da indurlo a rispondere in un certo modo alle domande somministrate durante l’esame stesso, anche al solo fine di porre termine a quella condizione di turbamento nel più breve tempo possibile[30]. Secondo questo modo di vedere allora non sarebbero tanto illegittime le neurotecniche in sé e per sé considerate quanto le modalità di esecuzione delle stesse. Quale che sia l’orientamento prescelto emerge però come la capacità di ricordare e valutare i fatti, nonché la libertà di autodeterminazione, risultino essere inevitabilmente compromesse. È innegabile infatti come attraverso tali tecniche si voglia attuare «un controllo del comportamento che tende a cercare risposte al di fuori dell’autodominio del soggetto»[31]. Si pensi anche al fatto che l’esecuzione dei test avviene pur sempre in ambiente controllato, nella peggiore delle ipotesi in un laboratorio, alla presenza di persone estranee, e si consideri altresì la pressione psicologica che potrebbe soffrire l’esaminato alla luce della presenza «di un sistema che si presume in grado di svelare il carattere mendace delle risposte fornite»[32]. Tra l’altro va anche considerato come la situazione di soggezione e suggestione che si viene a creare può minare l’attendibilità dei risultati. Come ampiamente dimostrato dalla comunità scientifica in riferimento al memory detector, infatti, la sottoposizione a eventi stressanti può generare falsi ricordi[33].

Non si può tra l’altro non far presente che alla libertà morale è strettamente connesso il diritto al silenzio. Si tratta di un diritto, costituzionalmente e internazionalmente protetto, che consente all’imputato (e all’indagato) di rifiutarsi, nel corso dell’esame (o dell’interrogatorio), di rispondere ad una qualunque domanda attinente ad un fatto proprio[34].

Non esiste una disposizione che esplicitamente cristallizzi tale diritto, che tuttavia è tutelato implicitamente in primis dall’articolo 24 cost., che come si sa è posto a tutela del diritto di difesa, e infatti il silenzio, come del resto la possibilità di mentire impunemente, rientra tra le opzioni difensive dell’imputato. In secondo luogo, il diritto al silenzio trova fondamento nel principio della presunzione di innocenza insito nel secondo comma dell’articolo 27 cost., il quale dispone che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva», e negli articoli 6 CEDU e 48 della Carta di Nizza che ricalcano nella sostanza la disposizione costituzionale. Il principio del nemo tenetur se detegere è inoltre espressione del più ampio principio del giusto processo ma soprattutto della libertà morale estensivamente interpretata che, come detto precedentemente, può trovare tutela nell’articolo 13 cost., oltre che nell’articolo 2 cost.

Se il diritto al silenzio è espressione della libertà morale, appare allora evidente come una sua protezione possa essere ravvisata anche nell’articolo 188 c.p.p., è innegabile infatti che tale diritto possa subire ingiustificabili violazioni proprio sottoponendo l’imputato a metodi, tecniche o macchine in grado di ledere la libertà di autodeterminazione ovvero di alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti, in altri termini, sottoponendo l’imputato a metodi in grado di estorcere la verità dei fatti in sua conoscenza. Di contro, non è lesiva del diritto al silenzio, in quanto non lesiva della libertà morale, la sottoposizione a metodi neuroscientifici in cui l’imputato rileva come fonte di prova reale e non come fonte di prova dichiarativa. Ponendo l’attenzione sulle singole tecniche neuroscientifiche, tanto i lie detector quando i memory detector sono senza dubbio lesivi del diritto al silenzio, in quanto integrano metodi pensati per scoprire la verità storica dei fatti oltrepassando e, come si è visto, alterando in maniera più o meno marcata a seconda del metodo esperito, la volontà dell’imputato.

Discorso a parte meritano invece le indagini condotte non sull’imputato (o sull’indagato) ma sul testimone, anche persona offesa del reato. Il principio del nemo tenetur se detegere infatti non è applicabile anche al teste, in quanto non è titolare di un diritto al silenzio espressione del diritto di difesa ma, al contrario, è titolare dell’obbligo giuridico di rispondere alle domande che gli vengono poste, e soprattutto rispondere in maniera genuina. Queste considerazioni hanno portato alcuni a ritenere legittime le tecniche in contrasto con l’articolo 188 c.p.p. se riservate al solo testimone, o al più alla persona offesa. In realtà la libertà morale deve essere riconosciuta e tutelata anche nei loro confronti, unitamente ad altre libertà e diritti costituzionalmente rilevanti tra cui, su tutti, la dignità[35].

Se è quindi assolutamente escluso esperire tecniche di “diagnostica” della verità contra voluntem, bisogna a questo punto chiedersi se il consenso della persona esaminata sia sufficiente a vincere il divieto normativo.

Così non è, in quanto nel dare alla libertà morale dignità di principio cardine dell’ordinamento processual-penalistico, l’articolo 188 c.p.p. prescrive anche la sua assoluta indisponibilità. Ciò significa che il rispetto della libertà morale non può essere disatteso neanche con il consenso della persona interessata, ossia colui che viene sottoposto ai “metodi” e alle “tecniche”. Così facendo, però, si finirebbe con l’escludere a priori la loro utilizzabilità, anche qualora queste fossero dirette al fine di dimostrare l’innocenza della persona interessata e fossero dalla stessa richieste al giudice.

Da questo punto di vista si osserva un concorso tra principi costituzionalmente protetti, che ha dato adito ad un vivace dibattito sia giurisprudenziale[36] che dottrinale sull’ammissibilità processuale del poligrafo e che ha visto contrapporsi da un lato il diritto di difesa ex articolo 24, dall’altro il principio della libertà morale ex articolo 13. Secondo un’autorevole opinione l’ago della bilancia dovrebbe inevitabilmente pendere per il diritto di difesa, altrimenti si creerebbe un paradosso in virtù del quale l’imputato non potrebbe dimostrare la propria innocenza, per mezzo di esperimenti sul suo corpo, in omaggio alla sua stessa libertà[37]. A questa si contrappose un’altra autorevole opinione[38] fondata in primis su considerazioni inerenti alle modalità di acquisizione della prova dichiarativa. Secondo questo orientamento l’unico strumento del quale sia possibile valersi nell’ambito del processo, per validare le dichiarazioni, è rappresentato dall’interrogazione, da effettuarsi in forma di dialogo, condotta secondo regole ben precise in virtù delle quali l’interlocutore deve essere lasciato libero di determinare il se e il come delle risposte. In altri termini, l’unica arma dell’interrogante è rappresentata dalla «forza persuasiva usata per provocare un’adesione consapevole e volontaria»[39] della persona interrogata, che, non va dimenticato, è pur sempre un soggetto senziente e libero di formulare le risposte alle domande. Inoltre, in risposta alla tesi contraria precedentemente esposta, si ritiene che l’utilizzo di tali metodi e tecniche sia assimilabile ad una versione incruenta e scientificamente rispettabile delle ordalie, in quanto «la parte, dichiarandosi disposta a subire la prova, lancia una sfida, la cui posta è la decisione della contesa»[40], insomma si creerebbe una situazione che vede la persona alla stregua di una “cosa” contrapposta alla natura[41]. Se così fosse si cadrebbe in una condizione di sub-umanità, inammissibile in un ordinamento, quale è quello italiano, fondato sul principio personalistico e in cui l’individuo è parte, e quindi soggetto, e non oggetto, del processo.

 

 

 


[1] GRANDI C., Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi? Giappichelli, Torino, 2016, pag. 5 e ss.
[2] Questo approccio alla categoria dell’imputabilità assume la denominazione di “approccio rifondativo”, un approccio comunque caratterizzato da numerose correnti interne, alcune più rigide, altre più moderate, tra i cui maggiori esponenti possono annoverarsi quelle di Greene e Cohen (GREENE J., COHEN J., For the law, neuroscience changes nothing and everything, Philosophical transactions of the Royal Society of London. Series B, Biological sciences vol. 359,1451, 2004, pagg. 1775-1785), quelle di Merkel e Roth (G. MERKEL, G. ROTH, Freiheitsgefühl, Schuld und Strafe, in AA.VV., Entmoralisierung des Rechts. Maβstäbe der Hirnforschung für das Strafrecht, a cura di K.J. GRÜN, M. FRIEDMAN, G. ROTH, Göttingen, 2008, pagg. 65 ss.; G. MERKEL, Hirnforschung, Sprache und Recht, in AA.VV., Festschrift Herzberg, a cura di B. HARDTUNG, Tübingen, 2008, pagg. 21 ss.) e infine quella più estrema di Markowitsch (H. MARKOWITSCH, W. SIEFER, Tatort Gehirn, Frankfurt-New York, 2007, pagg. 227 ss.).
[3] COLLICA M.T., La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, in Diritto penale contemporaneo, 19 novembre 2012, pag. 21.
[4] GRANDI C., op. cit., pagg. 248-250.
[5] AGOSTA S., SARTORI G., The autobiographical IAT: a review, in Frontiers in psychology, 4,519, 2013.
[6] BIN R., PETRUZZELLA G., Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2018, pagg. 450 ss.
[7] Si pensi alla sentenza n. 30 del 1962 con la quale Consulta ha affermato che la garanzia di cui all’articolo 13 cost. non è da intendersi soltanto in rapporto alla coercizione fisica della persona, ma anche alla violazione della libertà morale. L’opinione è stata ripresa nella sentenza n. 419 del 1994 in cui si è affermato che una lesione della libertà personale integra una degradazione giuridica in capo all’individuo, la quale, strettamente connessa con lesioni alla dignità, può aversi tanto per mezzo di coercizioni fisiche quanto morali.
[8] BIN R., PETRUZZELLA G., op. cit., Giappichelli, Torino, 2018, pagg. 450 ss.
[9] PIZZETTI F.G., Neuroscienze forensi e diritti fondamentali: spunti costituzionali, Giappichelli, Torino, 2012, pag. 86.
[10] BONOMI A., Libertà morale e accertamenti neuroscientifici: profili costituzionali, in Rivista di BioDiritto, 3, 2017, pag. 143.
[11] LISELLA G., PARENTE F., Persona fisica, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, ESI, 2012, pagg. 403-412.
[12] FERRANTE M.L., A proposito del principio di inviolabilità della libertà personale, in Archivio penale, 2, 2012, pag. 593.
[13] AMIRANTE C., Le libertà, i diritti inviolabili e i doveri inderogabili, in AMIRANTE C., (a cura di), Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2011, pag. 194.
[14] FERRANTE M.L., op. cit., pag. 594.
[15] BIN R., PETRUZZELLA G., op. cit., alla luce della già citata sentenza n. 419 del 1994 della Corte costituzionale.
[16] LISELLA G., PARENTE F., op. cit., pag. 24.
[17] Ovviamente nell’espletamento delle tecniche sarà pur sempre necessario tutelare altri diritti e libertà fondamentali, quali il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla salute psico-fisica e alla libertà morale, PIZZETTI F.G., op. cit., Torino, Giappichelli, 2012, pag. 74.
[18] Si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 54 del 1986 in cui si sanciva le legittimità costituzionale dei prelievi ematici disposti dal giudice al di fuori di un perimetro legalmente predeterminato, PIZZETTI F.G., Ivi, pag. 75.
[19] Questi interventi limitativi del favor libertatis erano giustificati dalla crescente preoccupazione verso il moltiplicarsi degli attentati terroristici, soprattutto in Europa. Con il decreto-legge n. 144 del 2005, poi convertito in legge n. 155 del 2005, veniva infatti introdotto il comma 2-bis all’articolo 349 in forza del quale la polizia giudiziaria ha il potere di procedere ad identificazione attraverso prelievo di capelli o saliva, anche senza il consenso dell’interessato e attraverso una generica autorizzazione del pubblico ministero, da rilasciare senza particolari formalità, il tutto nel rispetto della dignità della persona da identificare, Ivi, pag. 77.
[20] Nello specifico, reati non colposi, consumati o tentati, per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni. Ma anche i reati previsti dagli articoli 589-bis e 590-bis del Codice penale e tutti gli altri espressamente individuati dalla legge.
[21] PIZZETTI F.G., op. cit., pag. 81.
[22] Ivi, pagg. 97 ss.
[23] Rilevante è anche l’articolo 64, che ha lo stesso contenuto ma è declinato all’ambito delle indagini. Ma bisogna accennare anche alle tante norme di diritto internazionale che sanciscono e tutelano l’autodeterminazione e gli altri diritti dell’uomo. Si pensi innanzitutto alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e della libertà fondamentali, i cui articoli 3 (proibizione della tortura), 5 (diritto alla libertà) e 6 (principio del giusto processo) sembrano essere una barriera insormontabile all’ingresso di talune tecniche nei processi.
[24] TONINI P., Manuale di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2018, pag. 286.
[25] Si afferma che «la persona riveste interesse probatorio non per ciò che dice ma per ciò che è», Ivi, pag. 287.
[26] Si badi che qualora le tecniche di neuroimaging venissero utilizzare a mo’ di lie e memory detection (il che è possibile in base ai più recenti approdi dell’indagine neuroscientifica) il discorso cambia radicalmente, PIZZETTI F.G., op. cit., pagg. 89-90.
[27] Tra l’altro la sottoposizione a questa tecnica è direttamente lesiva dell’articolo 32 della Costituzione in quanto la somministrazione del barbiturico potrebbe comportare danni rilevanti alla salute del presunto colpevole.
[28] SAMMICHELI L., FORZA A., DE CATALDO NEUBURGER L., Libertà morale e ricerca processuale della verità: metodiche neuroscientifiche, in BIANCHI A., GULOTTA G., SARTORI G., (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè, Milano, 2009, pag. 246.
[29] Applicabile anche alle tecniche di neuroimaging volte ad accertare la veridicità delle dichiarazioni.
[30] PIZZETTI F.G., op. cit., pag. 92.
[31] TONINI P., op. cit., pag. 1133.
[32] ALGERI L., Neuroscienze e testimonianza della persona offesa, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), 3, 2012, pagg. 904-920.
[33] THE ROYAL SOCIETY, Specific challenges facing the application of neuroscience to some key legal issues in Brain Waves Module 4: Neuroscience and the law, dicembre 2011.
[34] TONINI P., op. cit., pag. 314.
[35] DI CHIARA G., Il canto delle sirene. Processo penale e modernità scientifico-tecnologica: prova dichiarativa e diagnostica della verità, in AA.VV., Criminalia. Annuario di scienze penalistiche, Edizioni ETS, Pisa, 2007, pag. 37.
[36] Ebbe una grande risonanza una pronuncia della Corte di Assise di Appello di Roma risalente agli anni ’50. Gli imputati avevano chiesto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e di sottoporsi al poligrafo al fine di dimostrare la propria innocenza.
[37] CARNELUTTI F., Diritto dell’imputato agli esperimenti sul suo corpo, in Rivista di diritto processuale penale, 1957, pag. 273. Per ovviare a questa problematica parte della dottrina ha anche proposto di attribuire agli accertamenti neuroscientifici potenzialmente ed eventualmente lesivi della libertà morale la stessa disciplina prevista per gli accertamenti lesivi della libertà fisica. Per cui taluni accertamenti neuroscientifici, seppur lesivi della libertà morale, sarebbero consentiti solo se “coperti” da riserva di legge e da riserva di giurisdizione, BONOMI A., op. cit., pag. 152.
[38] CORDERO F., Tre studi sulle prove penali, Giuffrè, Milano, 1963, pagg. 63 ss.
[39] Ivi, pagg. 66-67.
[40] Ivi, pag. 69.
[41] Ibidem.

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Gennaro Calimà

Laureato in Giurisprudenza presso l'Università della Calabria discutendo una tesi dal titolo "Le nuove frontiere delle neuroscienze nel processo penale".

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