Reati contro la P.A.: vecchia fattispecie di millantato credito e nuovo reato di traffico di influenze illecite a confronto

Reati contro la P.A.: vecchia fattispecie di millantato credito e nuovo reato di traffico di influenze illecite a confronto

L’art. 319 c.p. è collocato all’interno del Titolo II del codice penale dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. L’obiettivo comune perseguito da tali disposizioni è quello di tutelare il buon andamento e l’imparzialità della P.A.

La norma in esame disciplina la cd. corruzione propria, ossia la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. In particolare si è voluto sanzionare il comportamento del pubblico ufficiale che accetta denaro, o la promessa di denaro o altra utilità, al fine di ritardare un atto del suo ufficio, o al fine di compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio.

È indispensabile, pertanto, affinché si configuri la fattispecie in esame, la presenza congiunta di due elementi: la qualifica di pubblico ufficiale in capo all’autore e l’atto oggetto del mercimonio deve rientrare nella sua sfera di competenza in ragione del ruolo che riveste.

Affinché l’atto possa essere qualificato come “atto d’ufficio” è necessario che sia espressione della pubblica funzione dallo stesso esercitata e, perché possa considerarsi integrato il reato, deve essere contrario ai doveri su di lui incombenti, ossia contrario a leggi, regolamenti o ordini legittimamente ricevuti.

La nozione di atto va inoltre considerata in senso ampio, comprendente non solo gli atti formali, ma anche i comportamenti riconducibili all’incarico del pubblico ufficiale.

La giurisprudenza ha pertanto qualificato il delitto di corruzione come un reato proprio funzionale, in quanto elemento necessario di tipicità del fatto è che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle competenze del soggetto corrotto. Devono dunque essere espressione diretta o indiretta della pubblica funzione esercitata da quest’ultimo.

Conseguentemente non ricorrerà il delitto di corruzione se l’intervento del pubblico ufficiale è destinato ad incidere sulle sfere di attribuzione di soggetti pubblici terzi. In tal caso si configurerà, infatti, il diverso reato di traffico di influenze illecite disciplinato ex art. 346 bis. Tale norma è stata introdotta con la legge n.190 del 2012 la quale ha dato attuazione agli obblighi assunti dall’Italia con la Convenzione di Merida del 2003 e quella di Strasburgo del 1999, che esortavano gli Stati aderenti a prevedere la punizione di condotte meramente propedeutiche alla corruzione.

La novella del 2012 ha quindi introdotto la nuova fattispecie penale la quale prevede, preliminarmente, una clausola di riserva: troverà, infatti, applicazione “fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 319 e 319 ter”. Pertanto, laddove l’accordo corruttivo si sia effettivamente realizzato anche grazie all’attività agevolatrice del mediatore, quest’ultimo risponderà a titolo di concorso nel reato proprio del pubblico agente.

Fuori da tale ipotesi, la fattispecie in esame andrà a sanzionare tutte quelle condotte preliminari e antecedenti alla corruzione, che si caratterizzano per assicurare al privato un collegamento con il pubblico ufficiale destinatario della proposta corruttiva.

La dottrina maggioritaria ha differenziato la fattispecie in esame da quella che era presente fino a qualche tempo fa nel codice di millantato credito (e che è stato formalmente abrogato con L. 9 gennaio 2019, n.3) sulla base della natura delle relazioni che l’intermediario avrebbe con il pubblico agente: nella versione originaria del  reato di traffico di influenze illecite le relazioni devono infatti essere “esistenti”, ovvero reali e non meramente vantate, come invece avveniva nell’ipotesi di millantato credito.

Proprio in ragione di ciò si comprenderebbe il motivo per cui, nelle ipotesi integranti la nuova fattispecie, il legislatore ha deciso di dover punire anche il privato compratore. Dalla effettiva esistenza delle relazioni tra il mediatore e il pubblico agente deriva infatti una maggiore offensività della condotta, in quanto si concretizza un reale pericolo di distorsione della pubblica funzione e della verificazione di fatti corruttivi.

Nel caso del millantato credito, invece, la mancata punizione del privato si giustificava in ragione del fatto che il cd. “compratore di fumo” sarebbe stato solo una vittima del millantatore, il quale si vantava di una relazione in realtà inesistente con un pubblico ufficiale. Pertanto era solo l’azione del millantatore che ledeva l’interesse tutelato dalla norma.

Da tale analisi emergerebbe anche una diversità nel bene giuridico tutelato, in quanto il millantato credito tutelava il prestigio della P.A., mentre il traffico di influenze illecite mirerebbe a tutelare il buon andamento e l’imparzialità della P.A.

Tuttavia le maggiori difficoltà a livello applicativo sono derivate dal fatto che in passato la giurisprudenza aveva ricondotto nella disciplina del millantato credito anche le ipotesi in cui la relazione con il pubblico ufficiale fosse effettivamente esistente.

Se, pertanto, individuiamo il criterio discretivo nell’esistenza reale delle relazioni con il pubblico ufficiale, dovrebbe derivarne che tali condotte prima punite ai sensi dell’art. 346 c.p., oggi rientrerebbero sotto la fattispecie del traffico di influenze.

E questa sarebbe la soluzione adottata dalla suprema Corte che, nella sentenza Milanese, dopo aver ricostruito il vecchio orientamento esistente che riconduceva entrambe le condotte prima descritte nell’ambito applicativo dell’art. 346 c.p., ha chiarito che oggi non si può non tener presente che vi è stata l’introduzione della nuova fattispecie di cui all’art. 346 bis. Ne deriva che le condotte di colui che, vantando un’influenza effettiva sul pubblico ufficiale, si fa dare denaro col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale, rientrano oggi nella nuova disciplina dell’art. 346 bis.

La sentenza in esame ha ritenuto quindi che l’introduzione dell’art. 346 bis abbia costituito un caso di successione nel tempo di leggi penali regolato dall’art. 2, comma 4, c.p.

Tale tesi è stata poi confermata anche dalla modifica normativa del 2019 che ha formalmente abrogato la fattispecie di millantato credito, ma che in realtà ha realizzato una ipotesi di “abrogatio sine abolitione”, dovendo – tale fattispecie – ritenersi oggi assorbita nella nuova formulazione dell’art. 346 bis.

A conferma di ciò, la Suprema Corte nella pronuncia n.17980 del 2019 della VI sez. penale, procedendo ad un confronto del trattamento sanzionatorio in astratto previsto dalla disposizione abrogata ed in quella riscritta, ha concluso affermando che ai fatti concreti commessi prima della novella e per i quali non vi sia stata ancora una pronuncia definitiva, debba essere applicata – in virtù dell’art. 2 comma 4 c.p. – la pena edittale prevista dal riformulato art. 346 bis c.p., in quanto più mite rispetto a quella stabilita per l’abrogato reato di millantato credito.

Il merito che si può riconoscere al legislatore, pertanto, con l’introduzione della nuova fattispecie è quello di aver unificato le varie fattispecie criminose e di aver colmato un possibile vuoto di tutela, rendendo punibile non soltanto la conclusione dell’accordo illecito ma anche le condotte preliminari che si inseriscono nel più ampio fenomeno del mercimonio delle pubbliche funzioni.


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Valentina La Spada

Ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Messina nell' A. A. 2014/2015 con tesi di Laurea su "Falsa identità digitale e delitto di sostituzione di persona". Nel 2018 si è diplomata presso la Scuola di Specializzazione per le professioni Legali dell'Università degli Studi di Messina con votazione 70/70 e Lode discutendo una tesi avente ad oggetto la "Mancata consegna di bene venduto online: tra truffa e insolvenza fraudolenta". Nell'ottobre dello stesso anno, ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense.

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