Reati culturalmente orientati: davvero rispettato il fine rieducativo della pena?

Reati culturalmente orientati: davvero rispettato il fine rieducativo della pena?

In un sistema multiculturale quale è quello odierno, è dominante la questione circa il rapporto tra l’incriminazione di fattispecie rientranti all’interno della categoria dei reati culturalmente orientati e la funzione rieducativa della pena, principio cardine del nostro sistema penale.

I reati culturalmente orientati sono quei comportamenti ritenuti contrari all’ordinamento giuridico territorialmente competente, ma accettati, approvati o addirittura imposti, dal territorio di appartenenza del soggetto agente, facente parte di una minoranza etnica rispetto al territorio di accoglienza. Si pone, a tal proposito, una questio circa la portata soggettiva di una incriminazione di siffatti comportamenti, ritenuto che il soggetto agente spesso non riesce a coglierne il disvalore a causa della sua appartenenza a una cultura diversa che non recrimina nemmeno a volte quel tipo di comportamento posto in essere. Occorre dunque porre l’attenzione sul terzo elemento costitutivo fondamentale del reato nel nostro ordinamento, ossia la colpevolezza, intesa come parametro valutativo della relazione psicologica intercorrente tra fatto commesso e autore del reato.

Il ruolo fondamentale della colpevolezza trova riscontro nell’art. 27, comma 1 della Costituzione: la responsabilità penale è personale e potrà affermarsi tale se sussiste l’attribuzione psicologica del singolo fatto di reato alla volontà antidoverosa dell’ agente. Sempre l’art. 27, attraverso il comma 3 evidenzia la posizione centrale della colpevolezza affermando il principio del fine rieducativo della pena: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La questione qui discussa è proprio la seguente: può un soggetto, come colui che appartiene a una etnia diversa, vivere la pena inflitta dal nostro ordinamento come giusta tale da disporlo psicologicamente alla prospettiva della rieducazione? O determinerebbe l’effetto opposto sfociante in sentimenti di ostilità verso l’ordinamento giuridico?

Esaminiamo, seppur brevemente, cosa si intende per carattere rieducativo della pena. La Corte Costituzionale, con pronuncia n. 115/1964 asserisce che la pena svolge una essenziale funzione di tutela dei cittadini e dell’ordine giuridico contro la delinquenza da cui dipende l’esistenza stessa della vita sociale e che la finalità rieducativa, ove correttamente perseguita, può rappresentare un contributo ad una efficiente difesa sociale contro il delitto. La logica rieducativa, fine precipuo del dettato costituzionale, tende a soddisfare e a colmare la preoccupazione non tanto dell’escludere dal contesto sociale il reo, quanto del cambiamento interiore avvenuto nello stesso e dunque di quale soggetto rientrerà nella società una volta terminata la pena da espiare. La scelta costituzionale denota una tutela della collettività prima ancora del singolo: solo se l’autore del reato sarà davvero rieducato attraverso la pena, la società potrà dirsi immune dalla pericolosità del soggetto.

Se la pena applicata non risultasse rieducativa, questa si rivelerebbe incostituzionale sia ex art. 27 comma 3 della Costituzione, sia in riferimento all’obbligo di applicare una pensa conforme al senso di umanità. A tal proposito, la Consulta con Sentenza n. 104 del 1982 delinea l’ambito di applicazione della umanizzazione delle pene, secondo cui “il trattamento non contrario al senso di umanità deve caratterizzare oggettivamente il contenuto del singolo tipo di pena, indipendentemente dal tipo di reato per cui un certo tipo di pena viene specificatamente comminato”. La violazione o meno del principio di umanità dovrà essere valutata di caso in caso attraverso l’utilizzo di un metodo casistico in relazione alle condizioni di detenzione e a seconda delle concrete modalità di espiazione della pena.

Rieducato non è colui che, trovandosi nelle condizioni in cui ha commesso il reato, si asterrebbe dal commetterlo, ma colui che, in qualsiasi condizione si trovi, si asterrebbe dal delinquere, riconoscendo il valore della regola piú che la temibilità della sanzione.[1]

Un soggetto, per essere rieducato e accogliere il relativo processo, deve avere piena consapevolezza della propria condotta antigiuridica. Rileva, dunque, il problema coi reati culturalmente orientati. La differente cultura del soggetto agente potrebbe implicare una non immediata e addirittura impossibile conoscibilità del precetto penale. In riferimento al rapporto fra conoscenza del precetto penale e colpevolezza, la nota sentenza n. 364/88 ha dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo 5 c.p. nella parte in cui non escludeva dal principio della inescusabilità dell’ignoranza della legge penale i casi di ignoranza inevitabile e dunque scusabile. Il solo errore inevitabile esclude la colpevolezza, ossia l’errore che non era possibile evitare neppure mediante l’adempimento dei doveri strumentali di informazione. La possibilità della conoscenza della legge penale è esclusa, secondo quanto dispone la Corte, quando rilevate le caratteristiche personale del soggetto agente, ossia il suo grado di socializzazione e cultura o in riferimento al proprio ambiente di provenienza, non permettono una piena ricezione della norma.     Questo criterio soggettivo deve circoscriversi ai casi nei quali le carenze emergono in maniera corposa e incontrovertibile, al fine di non sfociare in eccessi di indulgenzialismo o rigorismo.

In adesione alla teoria della colpevolezza, il nostro ordinamento aderisce all’ammissione dell’imputazione dolosa nel caso in cui il soggetto – che si sia rappresentato e abbia voluto gli elementi del fatto – conoscesse o potesse conoscere la contrarietà della sua condotta al precetto penale. Differentemente, non sussisterà imputazione dolosa quando il soggetto, pur consapevole del disvalore sociale della propria condotta, non potesse conoscere il divieto legale; vi potrà essere imputazione dolosa, invece, quando il soggetto, conoscendo o potendo conoscere il divieto legale, abbia ciononostante considerato il proprio comportamento del tutto irrilevante dal punto di vista giuridico.

Dal punto di vista giurisprudenziale, la Corte di Cassazione, con pronuncia n. 29613/2018, asserisce come nessuna forma di rispetto per le tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino straniero, potrà mai comportare una mancata punizione delle condotte aggressive dei diritti fondamentali, quali i diritti inviolabili dell’uomo e i beni ad essi collegati. Diventano, essi stessi dunque, parametro e limite invalicabile all’attribuzione di una qualunque rilevanza giuridica a qualsiasi prassi o norma di ordinamenti stranieri rispetto ai quali si ponga di fatto la questione del rapporto, di integrazione o di disconoscimento, con quello nazionale.

La Corte di Cassazione, recentemente, con altra pronuncia n. 37315/2019, nonostante avesse ammesso che i ricorrenti agirono unicamente nella convinzione di uniformarsi a dettami di matrice etnica, e che pertanto non ritenevano di aver tenuto comportamenti antigiuridici, afferma che ai fini del reato in questione – nella fattispecie riduzione in schiavitú – risultano irrilevanti in riferimento alla rilevanza penale della condotta, le motivazioni culturali o di costume che abbiano spinto il soggetto agente a porre in essere la condotta.

In conclusione, l’ordinamento italiano risulta essere uniforme nel perseguimento di un doppio binario in ordine alla rilevanza penalistica del fattore culturale: il trattamento è di favore o di sfavore a seconda del bene oggetto di tutela. Beni primari, come quello della vita, dell’integrità fisica, della salute e della libertà personale, primeggiano sulle tradizioni culturali del soggetto agente e, anzi, le condotte poste in essere in loro violazione sono spesso punite con pene particolarmente aspre.

 


[1] A cura di Piermaria Corso, “Manuela della esecuzione penitenziaria”, sesta edizione, pag. 16.

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