Reati culturalmente orientati: luci ed ombre del multiculturalismo
Sommario: 1. Il caso – 2. Spunti di riflessione
1. Il caso
La sentenza n 29613/18 della Corte di Cassazione esaminata si allinea al tema del rapporto tra multiculturalismo e diritto (penale), ormai affrontato in più di una occasione dalla giurisprudenza nazionale.
Cosa succede se un consociato di una cultura-etnica diversa dalla comunità accogliente nella quale si è stabilito non rispetta i precetti e i principi tipici della tradizione di questa, così commettendo un comportamento considerato illecito dall’ordinamento giuridico del Paese ospitante?
La recente sentenza della Corte di Cassazione in commento fa il punto sul quesito de quo avallando i principi già espressi dalla giurisprudenza di legittimità.
Nel caso di specie, i giudici di merito non hanno ritenuto penalmente rilevante le condotta di violenza sessuale ai sensi dell’art. 609-bis c.p. aggravata perché posta in essere dal padre nei confronti del figlio che non ha compiuto gli anni 10 ai sensi dell’art.609-ter, ultimo comma e il reato di minaccia posta in essere dalla madre nei confronti degli educatori del figlio ai sensi dell’art. 612 c.p. per mancanza delle condizioni di procedibilità, ovvero non era stata esposta querela da parte del minore parte offesa.
I genitori del minore quindi sono stati tratti in giudizio per essersi ritenuti responsabili del reato di violenza sessuale nei confronti del minore e di minaccia verso terzi.
In punto di fatto, è stato accertato che il padre ha compiuto nei confronti del minore violenze sessuali, abusando della sua autorità di padre e delle condizioni delle “condizioni immaturità del figlio minore”, che si sono tradotti praticamente “nell’abbassamento dei pantaloni per palpeggiamenti nelle parti intime e per compiere rapporti orali”.
La madre del minore parte offesa, invece, è stata ritenuta reo di non aver impedito la perpetrazione del reato posto in esse dal marito, nonostante l’obbligo giuridico di impedimento dell’evento del reato di violenza sessuale e, in continuazione, del reato di minaccia commesso nei confronti delle insegnanti del figlio, che avevano segnalato gli abusi, profferendo la frase:“ Hai rovinato la mia famiglia…Ti devo vedere sotto terra a te e all’altra”
Il Tribunale di Reggio Emilia ha assolto gli imputati perché il “fatto non costituisce reato” sul rilievo della sola insussistenza della colpevolezza, ovvero del difetto dell’elemento psicologico.
Il giudice di prime cure non ha escluso, quindi, l’elemento materiale del reato che “ senza alcun dubbio può esistere” in virtù degli elementi probatori forniti in giudizio, costituiti dalle intercettazioni ambientali e dalle acquisizioni istruttorie dibattimentali.
Secondo il Tribunale di merito nessun dubbio è nato in ordine alla qualificazione giuridica dell’atto contestato come “sessuale”. Sicché, in assenza di una nozione tipizzata dalla legge di atto sessuale, la giurisprudenza ha orientato gli interpreti riconducendo nella stessa tutti gli atti diretti a compromettere la libera autodeterminazione della sessualità della vittima, ovvero quelli che implicano il coinvolgimento del corpo o tutte quelle zone del corpo della vittima non consenziente che sono a livello psico-socio-antropologico connesse all’istinto sessuale[1].
Detto in altri termini, ai fini della sussistenza dell’elemento materiale della violenza sessuale è necessario accertare gli effetti che derivano dalla condotta illecita, ovvero la lesione all’autodeterminazione sessuale della vittima anche se l’atto non è indirizzato verso zone del corpo erogene, tenendo conto di tutte le circostanze di fatto, del contesto in cui l’atto si è realizzato e delle dinamiche intersoggettive.
Tanto più se, come è avvenuto nel caso di specie, l’atto sessuale si è concretizzato nel “…contatto con l’organo genitale maschile…o ancor più l’inserimento in bocca del pene”.
Tuttavia, come si è detto, il giudice di primo grado ha ritenuto non sussistente l’elemento soggettivo del reato in esame. Invero, si legge testualmente, dalla sentenza di primo grado che il fattore culturale “… può influire sia sulla coscienza dell’antigiuridicità della condotta, sia sulla comprensione dell’elemento della fattispecie che presenta specifiche caratteristiche culturali, sia in definitiva sull’ignoranza inevitabile del precetto penale…”.
Il Tribunale ha aderito a quell’orientamento che pone in evidenza, ai fini dell’esclusione del dolo, della componente “culturale”, ovvero dell’appartenenza del reo ad una etnia diversa da quella italiana.
La condotta dell’imputato, secondo il giudice, non è stata supportata dalla coscienza del carattere oggettivamente sessuale secondo la nostra tradizione, come può essere il “succhiotto sul pene del bambino anche quando effettuato dal genitore”.
Non è stato ritenuto soddisfatto il requisito della “finalità” della condotta, quale la soddisfazione della concupiscenza del reo, che, secondo una parte della giurisprudenza, è un requisito necessario per la sussistenza del reato in oggetto.
La Corte d’appello di Bologna invece, pur allineandosi alla pronuncia di assoluzione del Tribunale, si discosta sotto il profilo delle argomentazioni poste alla base della stessa.
Per i giudici d’appello infatti non sussisterebbe nel caso in esame l’elemento soggettivo, ma neanche l’elemento oggettivo, giacché l’atto, a giudizio della Corte di appello, per “avere una connotazione sessuale deve possedere un intrinseco significato sessuale e una attitudine offensiva dell’altrui sfera sessuale”.
La condotta dell’imputato è stata valutata dalla Corte di appello come atti di “affetto e orgoglio paterno nei confronti del figlio minore…” conformi alle tradizioni rurali dell’Albania, Paese di provenienza dell’imputato.
Sostanzialmente per i giudici di secondo grado la condotta posta in essere dall’imputato non è altro che il frutto di una attività ludica, affettiva tipica della comunità di appartenenza.
Ciò posto, il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bologna ha chiaramente, a mio avviso, proposto ricorso per cassazione, avverso la sentenza del giudice di secondo grado chiedendone l’annullamento, articolato in 5 motivi.
In primis, la Corte di appello ha eccepito il vizio di motivazione della sentenza nella parte in cui ha ritenuto insussistente l’atto di violenza sessuale sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, perché se avesse valutato correttamente le dichiarazioni rese dagli insegnanti del bambino, testimoni entrambe delle confidenze fatte da quest’ultimo in ordine alla condotta illecita in esame, non avrebbe escluso la sussistenza degli atti sessuali.
Il PM pertanto rimarca, come secondo motivo del ricorso, la violazione della legge in relazione agli artt. 609-bis, 609 ter c.p., per aver erroneamente valutato l’insussistenza del dolo generico nel caso di specie.
Invero, l’elemento psicologico che sorregge la condotta in esame si traduce nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della vittima non consenziente, secondo alcuni, indipendentemente dalla finalità della condotta se atta a soddisfare desideri sessuali, gioco o umiliazione morale.
Il P.M., nel caso di specie, ha rilevato che il giudice d’appello non ha tenuto conto della giurisprudenza prevalente che ritiene sussistente il dolo generico quando si accerta la consapevolezza di porre in essere un gesto invasivo nei confronti della libertà sessuale e dello sviluppo psico-fisico della vittima.
In più, il Procuratore generale ha illustrato la contraddittorietà della sentenza impugnata nella parte in cui, da un lato, ha riconosciuto implicitamente la maturità del bambino descrivendolo “…autonomo, socievole, sereno e tranquillo…”, dall’altro invece non ha ritenuto rilevante le sue dichiarazioni in merito alla sussistenza degli atti sessuali, data la sua età.
Il fulcro del ricorso per cassazione è dato, ad avviso dello scrivente, dalla dedotta violazione della legge in relazione all’art. 5 c.p. in cui sarebbe incorsa la Corte di appello. Sicché, come si è detto, i giudici hanno escluso il dolo del reato in ragione della provenienza culturale dell’imputato.
Gli atti posti in essere dall’imputata, a giudizio dei giudici, sarebbero “tollerati” dal contesto di provenienza, secondo quanto è stato dichiarato dai parenti dello stesso e desunto da una lettera inviata dal Prefetto della località albanese cui si è rilevato che in realtà dalla stessa di sarebbe potuto al più dedurre che solo in alcune zone rurali dell’Albania è tradizione “accarezzare il figlio maschio nelle parti intime, come augurio di prosperità”.
La Corte di appello, ha precisato il Pm, non ha tenuto proprio in considerazione la dedotta violazione dell’art. 5 c.p. da parte dei requirenti nei gradi precedenti che hanno precisato l’esclusione in concreto dell’ignoranza della legge penale da parte dell’imputato, sul rilievo invece della consapevolezza dell’illiceità dell’atto sessuale, dato che questo viveva da anni in Italia.
In ultimo, è stato impugnato dal PM anche il capo di assoluzione dal reato di minacce realizzato dalla madre del minore nei confronti degli educatori, sul rilievo dell’assenza di gravità delle minacce.
L’organo requirente ha ben evidenziato, a mio avviso, che il reato di minaccia è integrato tutte le volte in cui la condotta è potenzialmente idonea ad ingenerare paura nella vittima a tal punto da compromettere la libertà morale di questa. E’ proprio quello che è accaduto nel caso di specie, perché la parte offesa aveva dichiarato di aver avuto timore “…di poter incontrare nuovamente l’imputata insieme ad altre persone…”.
Gli imputati, di converso, hanno contestato i motivi del ricorso del PM, perché entrambe le sentenze sarebbero state logicamente motivate sulla base della perizia psicologia e dell’incidente probatorio effettuato.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della Procura Generale annullando la sentenza del giudice di appello e rinviando ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna.
Il Supremo Consesso, innanzitutto, ha premesso che il caso in esame rievoca il tema dei c.d. “reati culturalmente orientati” causato dall’elevato flusso migratorio che sta determinando la globalizzazione in questo momento storico il nostro Paese e che sta inducendo indirettamente la giurisprudenza ad ammettere una interpretazione elastica delle norme penali che si adatti ai mutamenti del costume e del sentire sociale in “continuo divenire”.
Le decisioni, hanno puntualizzato gli ermellini, devono essere il frutto di “una interpretazione contestualizzata in relazione al momento storico…”, ma che tengono conto del fine ultimo del diritto penale che è quello di offrire una rete solida di tutela per i diritti inviolabili della persona e punire condotte che li offendono. Sicché si è detto che i diritti fondamentali della persona rappresentano uno “sbarramento invalicabile” contro l’accoglimento “…di diritto e di fatto, nella società civile, di consuetudini, prassi, costumi, che tali diritti inviolabili…pongono in pericolo o danneggiano”.
La legge infatti ha concretizzato, in alcune occasioni, il giusto bilanciamento tra tutela dello straniero e beni di rilevanza costituzionale, come la salute e l’integrità fisica, non ammettendo condotte lesive di tali beni, benché queste sono il frutto di credenze religiose e sociali (ad. es. L.9/01/ 2006, n. 7, art. 6, co. 1 che ha introdotto il reato di infibulazione ex art. 583-bis c.p.).
La chiave di lettura è, pertanto, sempre il bilanciamento dei beni giuridici che emergono nel caso concreto, ovvero il diritto dell’emigrato al riconoscimento delle proprie radici e gli altri diritti inviolabili della persona, tenendo conto della natura della regola culturale rispettata dal soggetto appartenente alla minoranza, perché solo nel caso in cui questa si identifica come una norma positiva e vincolante si potrà valutare “l’incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza” del reo.
La Corte di Cassazione ha riconosciuto rilevanza, ai fini della valutazione della rilevanza del fattore culturale sull’elemento soggettivo del reato, anche al livello di inserimento nel Paese ospitante e quello di adesione alla cultura di origine.
Traslando nel caso di specie i principi sin qui esposti il giudice della legittimità ha aderito alla tesi dell’appellante in merito alla presunta ignoranza della legge penale dell’imputato sulla valenza penale degli atti sessuali, sicché, a dire della difesa dello stesso, questi erano conformi alla tradizione propiziatoria della cultura albanese di provenienza dell’imputato, così come indicato dal Prefetto del paese di provenienza di questo di cui è stata contestata l’ufficialità dal PM.
In verità, si è evidenziato dalla Procura Generale che questa presunta tradizione era stata esclusa dal ctu del PM, anche sulla base di accertamenti “sommari in letteratura” e, soprattutto, la condotta di fellationes effettuate da parte dell’imputato era confermata da filmati, dichiarazioni delle insegnanti che non erano stati considerati dai giudici di merito.
Sotto il profilo dell’errore in cui è incorso il giudice di appello in ordine all’assenza della consapevolezza, la S.C. fa proprie le argomentazioni del PM che ha sottolineato che la presunta tradizione a cui si fa riferimento è altresì vietata dal codice penale del Paese di provenienza dell’imputato rispetto alla quale non può ammettersi quindi l’assenza di consapevolezza dell’illeceità dell’atto dell’imputato che, tra l’altro, era residente anche da anni in Italia. I genitori, quindi, non potevano “ignorarne la legge”.
L’ignoranza della legge penale non è scusata, benché trattasi di diversità della legge italiana rispetto a quella del Paese di provenienza dell’imputato[2], salvo le ipotesi di tradizioni di “sicura e comprovata esistenza…(come la circoncisione del neonato)…e tenendo conto …del raffronto tra dati oggettivi, che possono aver determinato nell’agente l’ignoratia legis circa l’illiceità del suo comportamento, e dati soggettivi attinenti alle conoscenze dell’agente….”[3]
Nel caso di specie, pertanto, non può essere riconosciuto rilevanza di scusante da parte degli imputati della norme penali in esame, sicché gli stessi sono risultati ben integrati nel “tessuto sociale” italiano e, tra l’altro, l’ignoranza che hanno invocata al loro discolpa è stata ritenuta irrilevante anche dal codice penale Paese di origine.
L’atto sessuale, hanno ribadito i giudici della legittimità, è integrato tutte le volte in cui l’atto è diretto ad offendere la libera autodeterminazione sessuale della vittima attraverso modalità subdole e di abuso di condizioni di inferiorità psico-fisica del soggetto passivo e senza il suo consenso. Tra questi rientrano “…i toccamenti, i palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime della vittima, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo…”indipendentemente dal conseguimento del piacere erotico da parte del reo, ai fini della consumazione del reato, soprattutto se la vittima è un minore.
In tal caso la tutela penale è prestata al libero sviluppo della personalità della vittima ed è ancor più rafforzata e il reato in commento si configura anche in assenza di costrizioni in caso di legami di parentela con il minore.
Quindi, ai fini dell’integrazione del reato di violenza sessuale, non è necessaria la finalità sessuale[4].
In ultimo, la S.C. ha ammesso anche la configurabilità del reato di minacce grave ex art. 612, c. II c.p., sicché ai fini dell’integrazione del reato è rilevante l’effetto che produce la minaccia, ovvero il turbamento psichico grave alla persona offesa.
2. Spunti di riflessione
La sentenza esaminata rievoca il tema della globalizzazione e dei sui prodotti sociali.
La globalizzazione non è altro che l’insieme di fenomeni integrati e collegati alla crescita sociale, economica e, quindi, culturale di varie arie del globo[5].
La complessità di questo sistema ha portato con sé il pregio della conoscenza e dell’integrazione reciproca di culture e tradizioni diverse tra loro in una determina realtà sociale.
Il pregio di cui si parla non è altro che il fenomeno del multiculturalismo, figlia della globalizzazione, che rappresenta il frutto di una politica funzionale a preservare l’uguaglianza tra le diverse etnie e la valorizzazione dello scambio culturale tra varie comunità sociali.
La compresenza di molteplici comunità localizzate in un determinato Paese è ormai uno dei tema moderni affrontato da qualsiasi classe sociale per un motivo molto semplice, benché rappresenta la conseguenza di politiche espansionistiche di vecchio conio.
Al fenomeno in esame si deve riconoscere sicuramente il rilievo della finalità di garantire la tutela del “diverso” e della minoranza linguistica per promuovere lo sviluppo culturale, economico e assaporare l’enorme varietà e ricchezza che c’è nel mondo.
Tuttavia, l’incontro del diverso produce inevitabilmente l’amarezza dello scontro, del conflitto tra la cultura emigrata e quella interna determinando quello che gli antropologi definiscono etnocentrismo[6] per via della diversità di abitudini socio-culturali di cui sono portatori i consociati.
Gli Stati Nazionali, per conciliare i due estremi della medaglia, attuano politiche di integrazione e fusione entro però i limiti che sono dati dai valori e principi costituzionali del Paese interno.
Ecco allora che la politica di integrazione si scontra, ancora una volta, con la politica criminale attuata dal governo della comunità sociale ospitante che può attuare una politica “formale” di uguaglianza e di neutralità dello Stato difronte alle differenze detta “assimilazionista”[7], nonché una di tipo“sostanziale”, che si fonda sulla valorizzazione delle minoranze e accettate nei limiti anche se diverse da quelle dominanti, detta “multiculturalista”.
E’ evidente la differenza tra le due linee politiche, come rileva qualche voce in dottrina[8].
Sicché si è detto che la politica “assimilazionista”, più rigida, non pone rilevanza alla differenza culturale in ordine al trattamento penale da riservare, diversamente dal modello “multiculturale”, rigido o flessibile, che risulta essere più benevole e rispettoso verso la diversità e riserva un politica normativa-giurisprudenziale al fine di accorciare le distanze tra le stesse.
E’ proprio questo il tema sul quale si batte la giurisprudenza di legittimità, nel caso dei c.d. “reati culturalmente orientati” e sul quale si interroga la dottrina per comprendere a quale dei modelli politici su esposti si identica il sistema italiano.
Il “mezzo è la cosa migliore” avrebbe detto Aristotele.
Invero, non è possibile attribuire la valenza di valore assoluto ad un modello rispetto ad un altro, sicché il sistema di politica criminale varia al variare dei movimenti di pensiero che illuminano lo Stato di democrazia pluralista in determinato momento storico.
Di certo l’obiettivo finale cui deve tendere la politica criminale è quello di riconoscere rilevanza allo status multiculturale in ordine all’accertamento del reato, ma senza mai perdere di vista i principi, i valori espressi letteralmente e implicitamente dalla nostra Costituzione.
Ebbene, la giurisprudenza italiana, in particolar modo quella di legittimità, si è fatta carico di questa situazione e ha trovato il giusto compromesso tra valori costituzionalmente garantiti, come del resto è accaduto anche nel caso di specie.
E’ necessario, quindi, preservare il cd. sistema di “tutela multilivello” che rappresenta un baluardo per il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, cercando di “non giudicare sbagliato ciò che non conosci,…(ma) prendi l’occasione per comprendere”[9] , per riscoprire il sapore della diversità come unicità, inteso come valore aggiunto per la formazione culturale e sociale dell’uomo e della comunità sociale ospitante.
[1] cfr. Diritto penale , parte speciale parte Volume II, Domenico Piccininno, ed. Primiceri, pag. 226 ss.
[2] C.Cass., sez. III, n. 3114 del 7/12/1993
[3] Come ad es. rileva la S.C. il caso dell’africano che, migrato in Italia, ha difficoltà ad integrarsi nella società occidentale tale da indurlo in una oggettiva condizione di difficoltà a recepire i precetti sociali della comunità ospitante occidentali.
[4] Cass., sez. III, n. 39710 del 21/09/2011
[5] cfr http://www.treccani.it/enciclopedia/globalizzazione/
[6] http://www.treccani.it/enciclopedia/multiculturalismo_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/
[7] cfr. “A proposito dei reati culturalmente motivati”, di Ciro Grandi, in D.P:C., pag 4 ss che rinvia a “Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, 2010,Basile
[8] cfr. “A proposito dei reati culturalmente motivati”, di Ciro Grandi, in D.P:C., pag. 4
[9] P. Picasso
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Domenico Piccininno
Ha conseguito la laurea in giurisprudenza magistrale; esperto principalmente in diritto del lavoro, diritto civile, diritto penale, diritto dell'esecuzione penale, diritto penitenziario, in criminologia forense e psicologia forense e HR con un master di “Criminologia e Scienze Forensi per l’investigazione e la Sicurezza” e corsi di Alta formazione nel settore legale, criminologico e di psicologia forense.
Ha collaborato, in qualità di legal counsel and legal assistance, per vari studi legali di indirizzo civile e penale e, in qualità di consulente criminologo investigativo- forense e docente di criminologia forense, collabora per l’Istituto di Scienze Forensi (ISF) s.r.l.s. e ISF College Corporate University e collabora per l’Università popolare UNISED di Milano, in qualità di Prof. Aggiunto di diritto penale e procedura penale al primo anno del Corso biennale di Specializzazione in Criminologia forense presso il Dipartimento di Criminologia dell’Università popolare UNISED (MI).
Collabora per vari istituti di formazioni accreditati in qualità di docente di diritto e criminologia forense.
Ha collaborato, altresì, presso la Procura della Repubblica di Bari e presso l’ufficio economato dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro e offre servizi di consulenza tecnica forense per aziende, per istituti di credito, per privati, alle Procure delle Repubbliche per conto dell'ISF s.r.ls., in qualità di Vice coordinatore e Responsabile ISF s.r.l.s. PUGLIA, in tema di imputabilità, capacità a testimoniare, valutazione di personalità, stalking, violenze e abusi sessuali, valutazioni bio-psico-sociali connessi ai reati, coadiuvato dall'equipe specializzato dell'ISF s.r.l.s.
È saggista per alcune riviste di indirizzo legale e di scienze forense e autore e co-autore di alcuni manuali di indirizzo forense, quali i "Compendi di diritto penale parte speciale"in 3 Volumi, ed. Primiceri e "L'indagini Investigativa. Manuale teorico-pratico", ed. Primiceri.
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