Reati di pericolo presunto: la linea sottile tra legittimità e illegittimità costituzionale
Nella dogmatica penalistica, i reati vengono classificati per tipologie e una classificazione tipica è quella tra reati di danno e reati di pericolo: i primi caratterizzano quegli illeciti le cui condotte comportano una lesione effettiva; diversamente, i secondi descrivono quegli illeciti le cui condotte semplicemente pongono in pericolo un bene giuridico tutelato dall’ordinamento[1].
I reati di pericolo si distinguono a loro volta in due categorie: – i reati di pericolo concreto o effettivo: in questi, il pericolo rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice. In tal senso, spetterà al giudice accertarne la sussistenza, sulla base delle circostanze che gli si prospettano nel caso concreto; – i reati di pericolo presunto o astratto: in questi si presume, sulla base di una generale regola d’esperienza, che compiendo determinate azioni c’è il rischio che insorga un pericolo. In tal senso, il legislatore non inserisce il pericolo all’interno dei requisiti espliciti della fattispecie, limitandosi a descrivere una condotta che, generalmente e potenzialmente, se portata in atto, può porre in pericolo un bene giuridico. Di talché, accertata la verificazione della condotta, sarà il giudice a dover accertare che si sia verificata la messa in pericolo del bene[2].
Vi sono, a tal proposito, molti problemi di costituzionalità sugli illeciti di pericolo presunto, poiché gli stessi, talvolta, si slegano dai principi di offensività: una condotta che potenzialmente può porre in pericolo un bene giuridico non è detto che, in concreto, determini una qualche offesa che legittimi la punizione di quella condotta. Il rischio in cui si incorre, dunque, è quello di punire il mero disobbediente: di talché, il pericolo che si ripropone con questi reati è quello di cadere nel c.d. diritto penale del nemico. Il legislatore, attribuendo a molti reati questa natura, finisce, in molti casi, col disattendere il principio di necessaria lesività.
La premessa e i dubbi che si sollevano debbono necessariamente fare i conti con la caratterizzazione del nostro ordinamento, il quale conosce delle fattispecie che è ben possibile far rientrare nell’alveo dei reati di pericolo presunto e che, in assenza di espressa tipizzazione, finirebbero per non essere punite, pur costituendo un imprescindibile apporto a determinate strutture: ci si riferisce, in particolare, al reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso.
Cass., n. 27672/2019. La giurisprudenza, recentemente, è tornata a parlare della natura di tali reati, riconfermando che essi si configurano nel momento in cui un soggetto entra a far parte dell’organizzazione criminale, senza che sia necessario il compimento di alcun atto che dia un concreto apporto all’associazione stessa e questo perché, trattandosi di illecito di pericolo presunto, per integrare l’offesa all’ordine pubblico è sufficiente l’adesione al sodalizio, considerata come una sorta di “messa a disposizione” del soggetto che ne entra a far parte: tale adesione è idonea a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati, poiché accresce non solo le potenzialità operative dell’associazione, ma anche la sua capacità di intimidazione e di infiltrazione all’interno del tessuto sociale.
Necessaria individuazione dei settori. L’esempio succitato serve per corroborare la tesi della scrivente, poiché il vero problema di tali reati sta non tanto nella loro creazione legislativa, quanto nella loro applicazione pratica. È ben chiaro come in determinati settori, penetranti all’interno del tessuto sociale, sia necessario anticipare la tutela e punire condotte che siano, pure astrattamente, pericolose: in tal senso, l’aderente all’associazione mafiosa è punibile per il solo fatto di porre in pericolo un bene fondamentale tutelato dall’ordinamento, che è quello dell’ordine pubblico. In questo senso, anche la Corte Costituzione ha specificato a più riprese che i reati di pericolo presunto “non sono incompatibili in linea di principio con il dettato costituzionale”: è chiaro che la Corte lascia un ampio spazio di valutazione e discrezionalità alle scelte politico – criminali del legislatore, il quale ha la facoltà di individuare i settori in cui il ricorso a tali modelli appare utile e necessario. Tale scelta, però, non deve risultare irrazionale, arbitraria, né puramente ideologica, ma si deve fondare su rigorosi apprezzamenti[3].
In tale contesto, e senza presunzione di completezza, ci si chiede in che misura il legislatore abbia considerato di punire determinate condotte che, singolarmente considerate, non sembrano ledere o porre in pericolo beni giuridici: ci si riferisce più propriamente all’utilizzo di sostanze stupefacenti, in particolare all’utilizzo delle c.d. droghe leggere quali cannabis e altre sostanze psicotrope. Alla luce degli studi già intrapresi, sono sorte molte diatribe sul bene giuridico tutelato quando si parla dei reati ex art. 73 DPR 309/1990: parte della dottrina sostiene che il bene giuridico tutelato sia la salute pubblica, vista in una prospettiva più futura che immediata; altra parte della dottrina, invece, obietta che il bene giuridico tutelato sia, esattamente come nei reati di associazione mafiosa, l’ordine pubblico. In definitiva, parrebbe essere un reato plurioffensivo, ma le prospettazioni rese appaiono lacunose e talvolta contraddittorie: la contraddittorietà emerge in modo chiaro qualora si voglia rapportare l’utilizzo di cannabis all’utilizzo, consentito e legale, di tabacco e alcool; sulla base di numerosi e recenti studi scientifici[4], appare davvero contraddittoria la loro legalità, se davvero il bene giuridico da tutelare fosse la salute pubblica. Parimenti, ci vorrebbe uno sforzo dogmatico per giustificare la lesione del bene “ordine pubblico” qualora si voglia sposare la seconda tesi. Senza pretesa di completezza, in questa sede ci si chiede se non siano più lo stigma sociale e questioni ideologiche ad orientare il legislatore verso la penalizzazione di reati che, nella maggior parte dei casi, non offendono alcun bene. Sicuramente, il paternalismo non è solamente nazionale: a dimostrazione di ciò, sono proprio le Convenzioni ONU[5] ad orientare le legislazioni nazionali verso una criminalizzazione di siffatte condotte. Ciò che ci si chiede è se ciò abbia veramente senso: si può davvero pensare di eliminare un fenomeno così diffuso? O forse sarebbe meglio condurlo nei binari della legalità, in considerazione dell’esistenza di fenomeni ben più gravi ed allarmanti su cui porre l’attenzione?[6] L’intento di tale breve elaborato non è quello di rispondere, ma di porre il lettore nella condizione di porsi delle domande. Si spera di essere riusciti nell’intento.
[1] G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VII edizione, Zanichelli editore, p. 213
[2] Ivi, p. 215 e ss
[3] Cfr, Corte Cost., n. 333/1991
[4] A titolo esemplificativo, si veda Dirk W. Lachenmeier and Jürgen Rehm, Comparative risk assessment of alcohol, tobacco, cannabis and other illicit drugs using the margin of exposure approach, in Scientific Reports, 30.01.2015
[5] Ci si riferisce, in particolare, alla Convenzione di New York del 1961 e alla Convenzione di Vienna del 1988
[6] Cfr, Relazione all’anno 2017 della Direzione Nazionale Antimafia
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Julia Sarno
Rome, Italy
Julia Sarno nasce l'11 luglio 1995. È laureata in Giurisprudenza all'università di Bologna e attualmente svolge il tirocinio ex art. 73 d.l. 69/2013 presso gli uffici giudiziari.
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