Reati di pericolo, principio di offensività e onde elettromagnetiche

Reati di pericolo, principio di offensività e onde elettromagnetiche

L’ordinamento penale italiano ricollega ai diversi gradi di offesa specifiche figure di reato a seconda che questa assuma la forma di lesione, e quindi di danno, oppure di messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.

Ne deriva che nel primo caso vengono a delinearsi i reati di danno, nel secondo, invece, si è soliti parlare di reati di pericolo.

In ordine a questi ultimi possono definirsi tali quei reati nei cui confronti il legislatore anticipa la tutela reprimendo fatti che minacciano l’esistenza o il godimento di pericolo.

Si tratta di un sistema che per garantire una tutela più avanzata di determinati beni giuridici, anticipa la soglia di punibilità sanzionando comportamenti di messa in pericolo dei beni protetti.

Rilevano, di conseguenza, tutte quelle condotte da cui deriva non solo una lesione e un danno effettivo, ma anche la semplice messa in pericolo ossia un pregiudizio potenziale all’integrità del bene giuridico.

Figura generale del reato di pericolo è il tentativo ex art. 56 cp in combinato disposto con la norma incriminatrice di parte speciale che rileva di volta in volta.

Figure speciali, invece, sono i delitti contro la personalità dello Stato, contro l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica e la salute pubblica, nonché alcune contravvenzioni.

In ordine agli elementi del reato in esame, rileva soprattutto quello psicologico del dolo di pericolo la cui struttura prevede tanto l’elemento cognitivo quanto quello volitivo, cosicché, per la sua integrazione, è indispensabile che l’agente si rappresenti il pericolo concreto e decida comunque di agire.

Corollari di tale principio sono, da una parte, il rifiuto dell’equiparazione del dolo di pericolo con il dolo eventuale di danno ovvero con la colpa cosciente e, dall’altra, la configurabilità del dolo eventuale di pericolo.

Quanto al primo corollario, chiarito che anche per il dolo eventuale (di danno) è necessario un requisito volitivo, al fine di distinguerlo dalla colpa cosciente e di farlo rientrare nella sistematica del dolo, è ipotizzabile la circostanza in cui un soggetto sia consapevole di esporre a pericolo effettivo un bene giuridico e decida volontariamente di agire, senza per ciò solo accettare l’eventuale produzione del danno.

Quanto al secondo, è ammissibile nell’ordinamento la figura del dolo eventuale di pericolo secondo gli ordinari canoni di accertamento del dolo eventuale di danno. Anche nei reati di pericolo, infatti, è del tutto ammissibile la situazione in cui la creazione di un rischio effettivo dipenda da fattori, presenti o futuri, di cui l’autore non è a conoscenza.

Ben più rilevanti sono i rapporti fra pericolo e colpa in virtù di una possibile confusione fra pericolo e colpa determinata, prima facie, dal travisamento del concetto di “prevedibilità”.

Tuttavia si ritiene che se il pericolo deve essere inteso come elemento ontologicamente oggettivo della fattispecie, da ponderare con giudizio prognostico a base totale ex ante, non potrà essere confuso con la colpa, elemento soggettivo del reato, sebbene a natura fortemente normativa.

Affinché la colpa risulti integrata, infatti, è necessario che l’evento, oltre a non essere voluto, sia anche prevedibile, da parte del uomo modello di riferimento.

Inoltre, un concetto di prevedibilità presenta molti punti di contatto con il concetto di pericolosità, dal momento che fondamento normativo della colpa è pur sempre la violazione non già di qualsiasi regola, ma solamente delle regole cautelari poste a tutela di alcuni beni rispetto a determinati rischi ed eventi.

Tuttavia, la prevedibilità-pericolosità caratterizzante la colpa è cosa ben diversa rispetto al pericolo, in quanto la colpa, essendo pur sempre un criterio di imputazione soggettiva, si basa soltanto su ciò che era riconoscibile nel momento della condotta.

È dunque opportuno distinguere nettamente colpa e pericolo. La prima fonda un giudizio di prevedibilità di carattere soggettivo, da effettuarsi necessariamente partendo da una base parziale ex ante; il secondo, invece, è elemento oggettivo della fattispecie nei cui confronti sarà necessario indagare l’effettiva sussistenza o meno, secondo un giudizio di prognosi a base totale, indipendentemente dalle conoscenze effettive del soggetto agente.

Tanto considerato, tradizionalmente, all’interno dei reati di pericolo si rinviene una bipartizione tra reati di pericolo in concreto e reati di pericolo in astratto.

Per quanto concerne i primi, questi si caratterizzano per l’effettiva messa in pericolo del bene. Ne deriva che il pericolo è elemento espresso del reato e il giudice è chiamato a valutarne di volta in volta la sussistenza.

Pertanto all’interno di questa prima categoria si è soliti operare un’ulteriore distinzione tra reati di condotta pericolosa, in cui il pericolo è solo una qualificazione della condotta, e i reati di evento pericoloso, per cui il pericolo è l’evento stesso.

Conseguentemente, assume un ruolo centrale il giudizio di pericolo che il giudice deve accertare caso per caso.

A tal proposito, si rinvengono due ordini di problematiche, una inerente il momento temporale in cui operare il giudizio, il secondo riguarda il grado di pericolosità penalmente rilevante.

Circa il primo, si ritiene che il giudice debba applicare il giudizio ex ante della prognosi postuma anticipando il momento del giudizio a quando è stata posta in essere la  condotta da cui ne è scaturito un pericolo.

Quanto al grado di pericolosità è necessario richiamare le nozioni di possibilità e probabilità.

Sebbene è cosa comune utilizzare le parole “possibilità” e “probabilità” come sinonimi, in realtà ci troviamo di fronte a due concetti differenti tra loro.

Invero, ricorrendo ad un gioco di parole, esiste la possibilità che accada (o non accada) un qualsiasi evento e una certa percentuale di probabilità che accada (o non accada).

Conseguentemente, in riferimento alla prima accezione, il pericolo va inteso come possibilità rilevante che l’evento lesivo si realizzi, stando invece al concetto di probabilità, il pericolo sussiste se operando un certo calcolo matematico, che ponga a confronto l’eventualità del verificarsi dell’evento e quella contraria, risulti prevalente la prima. La probabilità consisterebbe, quindi, nella verificabilità di un evento superiore alla media.

La seconda categoria di reati di pericolo sono quelli di pericolo astratto (o presunto) ossia quei reati in cui il pericolo è insito nello stesso comportamento del soggetto agente tanto da rendere inutile la verificabilità, da parte del giudice, della sussistenza o meno del pericolo.

Rispetto a questi, qualsiasi indagine risulterebbe superflua in quanto la minaccia al bene tutelato dalla norma giuridica sarebbe realizzata nel momento in cui si considera avverata la realizzazione del fatto tipico.

La pericolosità è, dunque, presunta iure et de iure a prescindere da qualsiasi accertamento in concreto.

Tuttavia, una parte della dottrina, superando la bipartizione dei reati di pericolo, abbraccia una concezione tripartita caratterizzata da tre tipi di reati di pericolo: quello in concreto, quello astratto e quello presunto.

Quest’ultimo, invero, non può ritenersi tra quelli astratti  in quanto, mentre in quest’ultimi il pericolo è insito nella condotta stessa, nei reati di pericolo presunto non necessariamente il pericolo deve essere implicito nel comportamento poiché, nel momento in cui questo si realizza, è possibile controllare l’esistenza o meno delle condizioni per il verificarsi dell’evento lesivo.

Alla luce di questa breve premessa, si rinvengono una serie di problematiche connesse al principio di offensività, quale direttrice della politica legislativa in forza della quale è impedito al legislatore di introdurre norme penali che sanzionano comportamenti inidonei a cagionare l’offesa di un bene giuridico protetto, subordinando la sanzione penale alla lesione o alla messa in pericolo dello stesso.

Di conseguenza, unitamente a quello di materialità, il principio de quo preclude al legislatore di incriminare e al giudice di punire in concreto atteggiamenti interiori, semplici opinioni o mere condotte di vite.

Ci si chiede allora come è possibile incriminare una condotta che, sebbene fosse considerata come pericolosa in base ad una norma di esperienza, possa non rivelarsi come tale in presenza di situazioni in cui tale regola si riveli falsa. Si finirebbe, così, per incriminare una mera disobbedienza dell’agente in netto contrasto con il principio di offensività che vieta l’incriminazione della pura e semplice violazione del precetto penale.

Per tale motivo, alcuni autori hanno mosso l’iniziativa di abolire la figura dei reati di pericolo in astratto, mentre altri hanno preferito superare la bipartizione tipica dei reati di pericolo.

Muovendo da una concezione realistica del reato, per cui agli elementi essenziali del reato si deve aggiungere anche il disvalore, si è preteso che il giudice verifichi comunque se ci sia stata o meno un’offesa seppur minima.

In applicazione dell’art. 49, co.2, cp, prescindendo da un’effettiva insorgenza del pericolo, andrebbe verificata la sussistenza del pericolo con assoluzione dell’imputato, in caso di esito negativo, perché il fatto concretamente posto in essere integra gli estremi del reato impossibile per inidoneità dell’azione a provocare un evento pericoloso.

La valorizzazione del principio di offensività ha determinato nella prassi applicativa una difficoltà in ordine alla qualificazione in concreto o astratto dei reati di pericolo.

In riferimento ad alcuni reati, infatti, si registra un atteggiamento contraddittorio da parte della giurisprudenza la quale, se da un lato qualifica alcuni reati di pericolo astratto, dall’altro provvede in concreto a verificare la sussistenza o meno del pericolo finendo, conseguentemente, a qualificarli come reati di pericolo in concreto.

È necessario chiedersi, dunque, quali reati di pericolo astratto trovano ancora espressione e riconoscimento nel nostro ordinamento.

In particolare, se per ogni reato è opportuno verificare la sussistenza del pericolo, si impedirebbe al legislatore di introdurre reati di pericolo astratto e al giudice di prescindere dalla verifica in concreto della pericolosità.

Si ritiene che la legittimità costituzionale di tali reati di pericolo è circoscritta alle ipotesi in cui l’incriminazione è tesa a proteggere beni di rango elevato.

In particolare, il ricorso alla tecnica del reato di pericolo astratto non incontra alcun limite qualora l’incriminazione risultasse obbligatoria, essendo l’unica forma di protezione possibile per determinati beni giuridici.

Si tratta di beni di rango primario nei cui confronti una pericolosità in concreto e, conseguentemente, una necessaria verifica della pericolosità da parte del giudice, vanificherebbe il ruolo di un ordinamento garantista come quello italiano.

Si pensi al commercio di un farmaco o di un alimento di cui la scienza non sarebbe in grado di dimostrare la nocività pur non mancando sospetti di pericolosità.

In tali circostanze il legislatore non può esimersi dal sanzionare condotte che mettano in pericolo beni di rango così elevato come la salute collettiva o la vita.

A tal fine, non potendo subordinare la punibilità al verificarsi del pericolo, sarà necessario configurare un reato di pericolo astratto.

Altra ipotesi, per cui la previsione di un illecito come reato di pericolo astratto risulti necessaria, è quella riconducibile ai beni collettivi, ossia quei beni che per la loro dimensione non possono essere lesi da una singola condotta ma da una molteplicità di attività seriali. Esemplare è il caso di versamento di sostanze tossiche e inquinanti nelle acque di un lago da parte di un impresa la quale, attraverso tale condotta, minaccia l’integrità ambientale.

A tal proposito, il pericolo per la pubblica incolumità viene analizzato quale imprescindibile corollario atto a definire il profilo della proiezione offensiva della condotta: essa ha ad oggetto specifico un evento materiale, l’avvelenamento appunto, tale da essere di per sé qualitativamente e quantitativamente caratterizzato dalla pericolosità per gli eventuali assuntori della sostanza avvelenata.

L’incriminazione dei reati di pericolo richiede un ulteriore approfondimento per quanto concerne i reati di pericolo indiretto nei cui confronti il legislatore anticipa la soglia di punibilità, arretrandola al “pericolo di un pericolo di lesione” di un dato bene.

Tali reati possono essere suddivisi in reati di pericolo di un evento pericoloso e reati in cui il requisito del pericolo viene anticipato ad atti prodromici.

Tra i primi possono menzionarsi, a titolo esemplificativo, i reati contro la pubblica incolumità in cui, accanto ai reati di incendio ex art. 423 cp, di inondazione, frana, valanga di cui all’art. 430 cp, la legge incrimina il danneggiamento causato direttamente dal pericolo di uno di questi accadimenti.

Nella seconda categoria, invece, rientrano quei reati che svolgono una funzione cautelativa per scongiurare l’insorgere in futuro di un pericolo  che, per attuarsi, necessita di ulteriori attività. Si guardi al possesso di chiavi e grimaldelli o alla detenzione non autorizzata di stupefacenti in quanto idonea a creare il pericolo che tali sostanze vengano cedute a terzi.

Questa categoria di reati di pericolo indiretto crea maggiori problematiche in ordine al rispetto del principio di offensività considerato che, reati di pericolo di pericolo, configurerebbero, in sostanza, un non pericolo.

Tuttavia, si deve ritenere, che la legittimità dei reati appena esposti è tale solo in via di eccezione e purché ricorrano due condizioni: la prima è la sussistenza di un bene primario la cui tutela deve essere indispensabile per l’integrità della società stessa; il secondo richiede che le condotte vietate non siano troppo lontane nel tempo dall’evento lesivo.

Alla luce della presente interpretazione al principio di offensività si affianca quello di proporzionalità per cui risulterebbero illegittime quelle norme che incriminano atti preparatori di reati volti ad offendere beni di rango non sufficientemente elevato.

La crescente valorizzazione del principio di offensività nella categoria dei reati di pericolo, richiede un’ulteriore approfondimento in ordine alla violazione di provvedimenti amministrativi, di carattere tecnico, volti a individuare i limiti oltre il quale una determinata attività non è più tollerata dall’ordinamento in quanto reputata come pericolosa.

Si tratta di provvedimenti che costituiscono il prodotto di un bilanciamento tra l’esigenza di garantire l’esercizio di attività socialmente utili e la necessità di tutelare i beni minacciati dal loro esercizio.

La tecnica usata è quella della norma in bianco, ossia di una norma che, inquadrando semplicemente la condotta vietata, rimanda ad una fonte secondaria la precisa determinazione del contenuto del divieto.

Anche in tali ipotesi, si rinviene un problema di rispetto del principio di offensività in quanto, il semplice superamento dei limiti tabellari non è sufficiente ai fini della configurabilità del reato richiedendosi anche l’accertamento del concreto pericolo per il bene tutelato.

Si pensi al caso delle onde elettromagnetiche e del pericolo che dalle stesse deriverebbe per la salute pubblica e l’ambiente.

A riguardo, la scienza non offre riscontri sufficienti a far ritenere che l’esposizione a tali campi di radiofrequenza possa provocare effetti negativi sulla salute.

Premesso che sul versante sanzionatorio opera una sanzione di tipo amministrativo, la legge quadro n. 36/2001 all’art.15 predispone, tuttavia, una clausola di salvaguardia che riconduce alla disciplina penale ipotesi in cui il fatto costituisca reato, ipotizzabile qualora qualcuno non si attenga ai limiti e ai valori tabellari.

Conseguentemente ci si chiede se il travalicamento di tali limiti possa costituire un reato di pericolo concreto o astratto.

Si è innanzitutto stabilito che è giuridicamente possibile e corretta una interpretazione che riconduca il fenomeno dell’emissione e della propagazione di onde elettromagnetiche nella fattispecie dell’art. 674 cp, perché tale inquadramento costituisce il risultato di una mera interpretazione estensiva della disposizione e non di una applicazione analogica (non consentita in campo penale).

In particolare si ritiene che nulla osta a ricomprendere le energie nel termine “cosa”, già di per sé ampiamente generico ed idoneo ad esprimere una pluralità di significati.

D’altra parte, l’art. 624, comma 2, cp stabilisce che, agli effetti della legge penale, si considera “cosa mobile” anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia valore economico.

Del resto, le onde elettromagnetiche sono sicuramente suscettibili di valutazione economica, nonché di essere gettata, dal momento che il verbo “gettare”, usato dal legislatore per descrivere la materialità della condotta prevista dall’art. 674 cp, ha un significato ampio, non indicando solo l’azione di lanciare qualcosa in qualche luogo, ma anche quella del mandar fuori, emettere ed espellere.

Quindi, tenendo conto non solo del significato proprio delle singole parole, ma anche di quello derivante dalla loro connessione, deve ritenersi che l’espressione “gettare una cosa” può essere di per sé idonea ad includere anche l’azione di chi emette o propaga onde elettromagnetiche.

Pertanto, non è sufficiente il rilievo che le emissioni siano astrattamente idonee ad arrecare offesa o molestia, ma è indispensabile anche la puntuale e specifica dimostrazione oggettiva che esse superino i parametri fissati dalle norme speciali.

Il reato di cui all’art. 674 cp, dunque, non è configurabile nel caso in cui le emissioni provengano da una attività regolarmente autorizzata o da una attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali e siano contenute nei limiti previsti dalle leggi di settore o dagli specifici provvedimenti amministrativi che le riguardano, il cui rispetto implica una presunzione di legittimità del comportamento.

Conseguentemente, deve ritenersi che l’art. 674 cp preveda un reato caratterizzato da un’attività pericolosa (l’emissione) la quale, essendo socialmente utile, è disciplinata dalla legge o da un provvedimento dell’autorità e configurabile come reato quando questa non sia consentita, ossia quando siano superati i limiti previsti per la specifica attività.

Nel caso di emissione di onde elettromagnetiche, il presupposto necessario perché sia eventualmente integrato il reato di cui all’art. 674 cp è quello del superamento, da parte della singola emittente, dei limiti previsti dalle specifiche norme di settore, mentre deve invece escludersi ogni illiceità penale qualora le immissioni si siano mantenute nei limiti fissati dalla normativa vigente e qualora il soggetto si sia adeguato alle prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzativi o concessori che lo riguardano.

L’esposizione a determinati livelli di campi elettromagnetici può costituire un pericolo per le persone a prescindere dallo stato attuale della scienza.

In ordine al livello di nocività scaturente dalle stesse, si deve ritenere che la propagazione di onde elettromagnetiche vada inquadrata nella categoria dei reati di mero pericolo in quanto, esclusa la necessità che l’emissione derivante dalla propagazione provochi un effettivo nocumento, è sufficiente la sua attitudine ad offendere o a molestare beni primari come la vita e la salute pubblica.

Alla luce di quanto sin qui considerato si ritiene che, posta la violazione del principio di offensività per alcuni reati di pericolo, il dibattito sull’ammissibilità o meno della categoria dei reati di pericolo, specie presunto, si risolve con un giudizio di bilanciamento tra valori costituzionali.

È compito del legislatore operare una tutela efficace verso determinati beni, anticipando la soglia della punibilità di determinate condotte, oppure richiedere l’effettiva lesività della condotta, a danno di una più efficace forma di tutela di questi beni. La scelta tra le due opzioni non può che spettare al legislatore, il quale comunque dovrebbe creare nuove categorie di reati di pericolo solo ed esclusivamente quando questi siano necessari per proteggere beni di portata costituzionale o comunque di primo piano per la vita dell’individuo e per la collettività.

Dal punto di vista pratico si tratta di evitare di punire alcune condotte tutte le volte in cui l’azione non sia comunque idonea a determinare alcuna minaccia al bene giuridico.


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