Reato tentato: i profili della disciplina

Reato tentato: i profili della disciplina

Normalmente un reato si realizza mediante lo svolgimento di un iter criminis che comprende la fase di ideazione (nei reati dolosi) la quale consiste nella nascita del proposito criminoso in capo ad un soggetto che decide di commettere un reato; a questa segue la fase esecutiva che coincide con il realizzare la condotta vietata dall’ordinamento; infine, si realizza la consumazione ossia la verificazione dell’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma penale. Nei reati di pura condotta la fase esecutiva e di consumazione coincidono, nei reati di evento la consumazione si ha nel momento in cui avviene l’evento. È importante sottolineare come Mantovani e parte della dottrina differenzino dalla consumazione il perfezionamento del reato. Il secondo si ha quando la fattispecie criminosa è realizzata nel suo contenuto minimo necessario per la propria esistenza, la consumazione con il raggiungimento del massimo della gravità. I due momenti possono coincidere come nell’omicidio, ma possono essere scissi come nel caso di una lesione cagionata da più colpi: con il primo colpo il reato si perfeziona, con l’ultimo si consuma. L’individuazione del momento consumativo assume una particolare rilevanza per l’individuazione della legge applicabile in caso di successione di leggi penali nel tempo; per la determinazione della competenza; per vedere se sia applicabile la legge italiana o meno al caso di specie e, infine, per la decorrenza della prescrizione.

Passando ad analizzare il tentativo di reato non ci si può esimere dal definirlo un minus rispetto alla consumazione. Un soggetto decide di commettere un reato, si attiva per compierlo ma non riesce nel suo intento. Questo giustifica, sotto il profilo sanzionatorio, un trattamento meno severo. La disciplina è dettata dall’art. 56 c.p. ove si esplica che il tentativo, sotto il piano normativo, è un titolo autonomo rispetto al reato consumato. L’incompiutezza, che è la caratteristica principale del tentativo, può concretizzarsi o nel fatto che la condotta non sia stata portata a termine (il codice parla di azione che non si compie), come nel caso del ladro, che sorpreso, si dà alla fuga, o nella mancata realizzazione dell’evento (il codice parla di evento che non si compie). Il delitto tentato si ricava dal combinato disposto di due norme: l’art. 56 c.p. e la norma relativa al delitto consumato.

Perché possa sussistere il tentativo devono ricorrere determinati elementi richiesti dalla norma sopra citata: deve esserci l’intenzione criminosa, incompiutezza, atti idonei e univocità degli stessi. Già il fatto che debba sussistere un intento criminoso che si manifesti all’esterno con date caratteristiche ci fa comprendere che siamo nell’ambito del dolo. La prima criticità che si deve affrontare in materia di tentativo è comprendere quando inizia l’azione penalmente rilevante ex art. 56 c.p., ossia di quanto bisogna anticipare la punibilità. Un soggetto che intende compiere un reato attua una sequela di attività e l’individuazione di quella a partire dalla quale ci troviamo nell’ambito delineato dall’art. 56 c.p. è di primaria rilevanza. La soluzione è data proprio dalla lettura dell’articolo sul tentativo che individua il momento penalmente rilevante con quello in cui il bene è effettivamente messo in pericolo. Nello specifico, si richiede che sussistano atti idonei e univocamente diretti alla commissione del delitto. L’univocità ricorre quando gli atti del soggetto possono solo portare al delitto e non più ad una attività lecita. L’idoneità è, invece, l’adeguatezza degli atti alla commissione del delitto ed è un criterio che investe gli atti e non i mezzi per commettere la violazione. L’idoneità, inoltre, può essere valutata solo in concreto: operando un giudizio di prognosi postuma e con riferimento alle circostanze conosciute dal soggetto agente nel momento in cui ha deciso di agire. Per quanto concerne l’elemento soggettivo nel tentativo, esso è punibile esclusivamente a titolo di dolo: gli atti idonei ed univoci possono essere solo dolosi secondo la tesi maggioritaria in dottrina e giurisprudenza. La dottrina si è anche interrogata sulla compatibilità del dolo eventuale con il tentativo arrivando a negare che gli atti idonei ed univoci possano rientrare in tale ipotesi. È d’uopo sottolineare che in materia di tentativo il dolo deve essere quello del reato consumato non essendo configurabile un dolo di tentativo. Per una più completa esplicazione di quanto scritto si ritiene opportuno redigere una breve disamina di quali atti possano rilevare come idonei ed univoci. In prima battuta esaminiamo gli atti di accostamento che consistono nel semplice avvicinamento al luogo del progettato delitto o alle cose che ne sono oggetto. In questo caso l’atto può condurre tanto ad una condotta illecita quanto ad una lecita, pertanto, non possono generalmente qualificarsi come univoci. Deroga a tale principio può essere rappresentata da quegli atti di accostamento che contengono in sé un principio di univoca esecuzione: accostarsi ad un edificio che si vuole far esplodere con della dinamite; l’accostamento di briganti armati sino ai denti che circondano il perimetro di una casa per entrarci e depredarla. Come secondo atto analizziamo l’agguato che la giurisprudenza identifica quale atto meramente preparatorio salvo i casi in cui sia accompagnato da un inizio di esecuzione come nel caso di chi armato aspetta la vittima in casa, dopo aver fatto irruzione, per ucciderla. Esaminiamo, poi, gli atti destinati ad eliminare eventuali ostacoli che neutralizzano le difese a determinati beni: uccidere il cane da guardia o addormentarlo per rubare in casa. Questi atti saranno punibili se compiuti quando ha inizio l’esecuzione del delitto a titolo di tentativo dello stesso. Infine, occupiamoci degli atti che precedono lo sparo, i quali se compiuti in stretta connessione con l’esecuzione del delitto rientreranno nella sfera d’azione dell’art. 56 c.p. Il tentativo è inammissibile nelle contravvenzioni in quanto l’art. 56 c.p. parla espressamente di delitti, nei delitti abituali in quanto non compatibile con la reiterazione delle condotte, nei delitti condizionati solo nei casi in cui la condizione può verificarsi quando il reato è in itinere, nei delitti colposi mancando l’intenzione criminosa, nei reati omissivi propri in quanto fintanto che il termine per compiere l’atto non è scaduto il soggetto ha sempre tempo per farlo ma nel momento in cui scade si consuma immediatamente la fattispecie omissiva propria, nei delitti di attentato in quanto la soglia di punibilità è già anticipata per l’integrazione della fattispecie medesima. Il tentativo viene considerato ammissibile nei reati omissivi impropri, nei delitti aggravati dall’evento e nei reati di pericolo e nel reato continuato ove sussistano più tentativi rivolti a produrre il medesimo evento. Il tentativo si ritiene, poi, compatibile con la materia delle circostanze del reato. Quando le circostanze riguardano direttamente il tentativo si parla di tentativo circostanziato di delitto e in questo caso gli aumenti o le diminuzioni si operano sulla pena base prevista per il delitto tentato. Quando le circostanze attengono al momento consumativo e, pertanto, non si sono realizzate pur essendo entrate nel proposito criminoso dell’agente il quale ha compiuto atti idonei e univoci alla commissione di un delitto circostanziato, si parla di tentativo di delitto circostanziato che è ammesso solo da parte della dottrina. Infine, pare unanime il pensiero dottrinale che non ritiene compatibili con il tentativo le circostanze estrinseche, le quali consistono in comportamenti successivi alla consumazione del delitto richiedendone, quindi, la realizzazione.

L’art. 56 c.p. nei commi successivi al primo parla anche della desistenza, la quale consiste nell’interruzione dell’attività criminosa dopo averla iniziata. Il comma 3 afferma che, se la desistenza è volontaria, il colpevole verrà punito solo per gli atti posti in essere se essi consistono in autonomi titoli di reato. Di regola la desistenza importa l’impunità, escludendo ab estriseco l’antigiuridicità del fatto. È lapalissiano che la desistenza non potrà configurarsi per quei reati per cui non è ammesso il tentativo. Nel caso di concorso di persone nel reato la giurisprudenza si è domandata se basti che uno solo desista volontariamente o se debba realizzare delle condotte di impedimento per gli altri concorrenti. Secondo la Cassazione in questa ipotesi sarebbe richiesto un quid pluris consistente nell’annullamento del contributo dato alla realizzazione collettiva.

L’ultimo comma dell’art. 56 c.p. riporta che, se volontariamente il colpevole impedisce l’evento, la pena inflittagli sarà quella prevista per il tentativo diminuita da un terzo alla metà. Siamo nell’ambito del recesso attivo o pentimento operoso. Il colpevole ha già attuato la sua condotta criminosa ma desidera evitare che si verifichi l’evento lesivo o pericoloso e si attiva per impedirlo. Il recesso ha carattere positivo sempre, rileva solo se volontario ed è configurabile nei delitti in cui tra condotta ed evento intercorre un certo lasso temporale. Il recesso attivo non va confuso con il ravvedimento post delictum di cui all’art. 62, n. 6 c.p. che ricorre comunque dopo il verificarsi dell’evento.


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