Recidiva e prescrizione: si applica la disciplina prevista dall’art. 2 c.p.?

Recidiva e prescrizione: si applica la disciplina prevista dall’art. 2 c.p.?

La disciplina della successione delle leggi penali nel tempo è contenuta nell’art. 2 c.p., norma che individua i limiti temporali di efficacia della legge penale, dettando disposizioni aventi copertura costituzionale.

Il comma 1 dell’art. 2 c.p. sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene, ribadendo il disposto dell’art. 25 c.2 Cost. L’introduzione di nuove incriminazioni, secondo la previsione degli artt. 2 c.1 c.p. e 25 c.2 Cost., non può avere valenza retroattiva, attesa la necessità di garantire all’agente libere scelte d’azione. Il privato infatti non potrebbe scegliere liberamente se delinquere o se astenersi dal farlo qualora non sapesse se una certa condotta è o meno penalmente rilevante. La necessità di assicurare la possibilità di autodeterminarsi è d’altro canto imposta dal principio costituzionale di colpevolezza ex art. 27 c.1 e c.3 Cost.: il principio della personalità della responsabilità penale intesa come responsabilità per fatto proprio colpevole (alla luce dell’interpretazione resa dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 364 e 1085 del 1988) richiede infatti che non possa essere posto a carico dell’agente un fatto a lui non rimproverabile. E tale è il fatto che, al tempo della sua commissione, non costituiva reato.

L’art. 2 c.2 c.p. contempla invece l’ipotesi, speculare a quella appena analizzata, dell’abolitio criminis: è il caso in cui sia stata abolita la fattispecie astratta di reato in cui ricade un fatto che, al momento della sua commissione, era penalmente illecito. Secondo la norma in commento, l’abolizione del reato ha effetti retroattivi, con la conseguenza che la sentenza di condanna già pronunciata, anche se passata in giudicato, dovrà essere revocata ai sensi dell’art. 673 c.p.p.

A differenza dell’art. 2 c.1 c.p., il disposto dell’art. 2 c.2 c.p. non pare avere un preciso referente costituzionale. La giurisprudenza ha però statuito che il principio di retroattività della norma abolitiva deriva dal principio di uguaglianza-ragionevolezza sancito dall’art 3 Cost. ed enunciato altresì dall’art. 7 CEDU. Subirebbe infatti un trattamento discriminatorio colui il quale, diversamente da un altro soggetto che realizza il fatto nel momento in cui non è più reato, venisse invece punito per lo stesso fatto tipico poiché questo, al tempo della sua perpetrazione, costituiva reato.

Il comma 4 dell’art. 2 c.p. prevede due fattispecie tra loro opposte: da una parte la modifica in melius del trattamento sanzionatorio a seguito dell’entrata in vigore di una nuova legge; dall’altra, la modifica in pejus del suddetto trattamento avvenuta sempre in forza di una nuova normativa. Rispetto a tali due ipotesi si parla di mutatio legis (in senso migliorativo o peggiorativo).

Siffatto fenomeno differisce da quelli disciplinati dai commi 1 e 2 dell’art. 2 c.p. poiché nella mutatio legis la novità legislativa non riguarda la configurazione del fatto tipico, bensì la sua disciplina sanzionatoria. Ciò avviene, ad esempio, quando viene abrogata una circostanza (aggravante o attenuante) o viene rideterminata la misura della pena. In conformità a quanto previsto all’art. 2 c.1 e 2 c.p., la modifica delle disposizioni sanzionatorie in bonam partem è retroattiva (art. 3 Cost.), mentre la modifica in malam partem, in forza del divieto di irretroattività della legge penale più sfavorevole, vale solo per il futuro (art. 25 c.2 Cost.). Va tuttavia precisato che la retroattività della modifica migliorativa incontra il limite della irrevocabilità della sentenza di condanna (come espressamente previsto dall’art. 2 c.4 c.p.), mentre l’art. 2 c.2 c.p. nulla dice in proposito rispetto all’ipotesi di abolizione del reato, così consentendo l’abolitio retroattiva anche nei confronti di sentenze definitive.

Merita inoltre di essere menzionata la previsione di cui all’art. 2 c.3 c.p., che rappresenta un’ipotesi peculiare di mutatio legis: si tratta del caso in cui la legge successiva stabilisca per un reato la sola pena pecuniaria, mentre l’agente è stato in precedenza condannato ad una pena detentiva. A norma dell’art. 2 c.3 c.p., la pena detentiva applicata si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria ex art. 135 c.p., anche se la decisione di condanna pronunciata è divenuta irrevocabile. Ancora una volta, l’applicazione della pena pecuniaria posteriormente introdotta in luogo della pena detentiva inizialmente inflitta trova il suo referente costituzionale nell’art. 3 Cost.

È opportuno ora accennare alla disciplina processuale in materia: la norma che viene in rilievo, come già anticipato, è l’art. 673 c.p.p. Il comma 1 dell’articolo fa riferimento all’abrogatio, espressione con cui si indica sia l’abolitio criminis sia la mutatio legis in melius. In entrambi i casi, spetta al giudice dell’esecuzione revocare la sentenza di condanna o di proscioglimento resa con formula meno favorevole rispetto all’assoluzione piena (così è per il proscioglimento per estinzione del reato o per difetto di imputabilità).

Alle predette ipotesi è equiparata la dichiarazione di illegittimità costituzionale, che comunque, differentemente dall’abolitio e dalla mutatio, non ha propriamente efficacia retroattiva, bensì fa sì che la norma dichiarata illegittima si consideri come mai esistita. L’art. 30 c.4 l. 87/1953 prevede l’idoneità della dichiarazione di incostituzionalità ad intaccare anche le sentenze passate in giudicato.

Prima di procedere all’analisi degli istituti della recidiva e della prescrizione nell’ambito della successione di leggi penali nel tempo, si segnalano due profili particolari del tema.

Innanzitutto, si presenta la questione della integrazione o meno della norma incriminatrice ad opera delle norme in essa richiamate (in via esplicita o anche implicita): infatti la modifica che interessa la norma integratrice si ripercuoterà sulla norma incriminatrice secondo le regole stabilite dall’art. 2 c.p. In dottrina e in giurisprudenza si sostiene che abbia portata integratrice la disposizione richiamata che contribuisca a determinare il disvalore del reato.

In secondo luogo, si osserva che la Corte di giustizia dell’UE ha affermato la contrarietà alla normativa europea della disciplina nazionale in tema di prescrizione dei reati tributari con particolare riferimento agli atti interruttivi (d. lgs. n. 74/2000 e artt. 160-161 c.p.), qualora tale disciplina osti in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione ovvero contempli termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato. Come noto, il diritto UE, così come interpretato dalla Cdg, è direttamente applicabile negli stati membri in virtù della sua primazia, che comporta la disapplicazione delle norme interne con esso contrastanti. Nel caso di specie, tuttavia, la normativa UE, così come interpretata dalla relativa giurisprudenza, è apparsa in contrasto con il divieto costituzionale di irretroattività della legge penale sfavorevole. Infatti, l’applicazione della summenzionata interpretazione dei giudici europei determinerebbe la violazione del principio di irretroattività ex art. 25 c.2 Cost., considerata la natura sostanziale dell’istituto della recidiva sostenuta dalla giurisprudenza (sul punto si dirà più diffusamente nel prosieguo). Per tale ragione, è stata proposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325 TFUE, come interpretato dalla Cdg , rispetto all’art. 25 c.2 Cost.; la Corte costituzionale non ha tuttavia deciso il merito della questione, effettuando il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE innanzi alla Cdg. Quest’ultima ha di recente riconosciuto che il principio di legalità e di irretroattività stabilito a livello nazionale rappresenta un valido limite all’applicazione della giurisprudenza UE sulla prescrizione in materia di reati tributari

Venendo alla trattazione degli istituti della recidiva e della prescrizione, con riferimento alla prima occorre evidenziare che l’art. 70 c.p. la qualifica come circostanza aggravante inerente la persona del colpevole, annoverandola altresì tra le circostanze di natura soggettiva. Tale inquadramento è rilevante rispetto all’art. 118 c.p., ai sensi del quale nel concorso di persone alcune tipologie di circostanze, tra cui quelle relative alla persona del colpevole (quindi anche la recidiva), sono valutate solo nei confronti del concorrente a cui si riferiscono.

La recidiva, la cui disciplina è contenuta nell’art. 99 c.p., è una circostanza ad effetto speciale poiché comporta un aumento di pena sempre superiore a un terzo. Può essere semplice, aggravata o reiterata; nello specifico, è reiterata quando l’agente, già recidivo, commette un ulteriore delitto non colposo. La recidiva è configurabile soltanto con riferimento ai delitti (non concerne dunque le contravvenzioni) di natura dolosa, essendo ontologicamente incompatibile con l’elemento soggettivo della colpa: la ragione dell’aggravamento di pena risiede infatti nella maggiore rimproverabilità del fatto in forza della maggiore colpevolezza e della più elevata capacità a delinquere del soggetto agente, insensibile all’avvertimento rappresentato dalla precedente condanna. L’aumento di pena, peraltro, è sempre facoltativo, poiché la maggiore colpevolezza dell’agente non può essere presunta dalla legge (pena la violazione dell’art. 27 Cost.), ma deve essere valutata in concreto, discrezionalmente, dal giudice.

I rapporti individuabili tra la recidiva e la successione di leggi penali sono diversi. In primis, la recidiva rientra tra gli effetti penali della condanna, destinati a venire meno in caso di abolizione del reato (artt. 2 c.2 c.p. e 673 c.p.p.). Per quel che più importa, in secundis, la modificazione della disciplina della recidiva pare in grado di determinare un miglioramento o un peggioramento del trattamento sanzionatorio, configurando un’ipotesi di mutatio legis (art. 2 c.4 c.p.). Così ritiene chi sostiene la tesi della natura sostanziale dell’istituto; viceversa, se si considera la recidiva un istituto di diritto processuale, non troverà applicazione il disposto dell’art. 2 c.p., ma opererà il differente principio del tempus regit actum, in base al quale la normativa processuale applicabile è quella in vigore al momento dell’adozione del provvedimento (in questo caso, la sentenza che infligge la condanna applicando la recidiva).

Pertanto, dalla natura processuale della recidiva discenderebbe l’irretroattività della modifica di legge in bonam partem e l’applicazione della sopravvenuta disciplina più sfavorevole a fatti commessi nel vigore del trattamento più mite. Va ricordato che un orientamento propone di distinguere tra effetti sostanziali della recidiva, rispetto a cui opererebbe l’art. 2 c.4 c.p., ed effetti processuali della stessa, governati dal principio tempus regit actum: nei primi rientrerebbero l’aumento della pena e i riflessi in tema di bilanciamento delle circostanze, nei secondi le conseguenze sul piano dell’esecuzione della pena (si vedano le norme sulle misure alternative alla detenzione e quelle riguardanti i permessi premio).

Questioni analoghe a quelle appena illustrate hanno ad oggetto la prescrizione: l’interrogativo concerne l’applicabilità dell’art. 2 c.4 c.p. qualora il legislatore regolamenti in modo difforme dalla legge anteriore il decorso del tempo necessario per l’estinzione del reato.

Il codice penale ricomprende la prescrizione tra le cause di estinzione del reato (art. 157 e ss. c.p.), istituti che attengono alla categoria della punibilità (che per taluni è il quarto elemento del reato, ma per i più è una categoria estranea alla struttura del reato).

Allorquando la mutatio in pejus data dalla modifica peggiorativa delle norme sulla prescrizione si verifichi una volta già decorsa la prescrizione del reato, si reputa unanimemente che la modifica non incida su tale fattispecie. Questa soluzione è imposta da ragioni di certezza del diritto.

In ordine alla suscettibilità, invece, da parte del reato non ancora prescritto, di subire le modifiche in pejus dei termini prescrizionali, mentre in giurisprudenza l’opinione è unanime, in dottrina si registrano orientamenti di segno opposto.

Per una prima tesi (quella non accolta dalla giurisprudenza), l’esigenza di assicurare al soggetto agente la possibilità di compiere libere scelte d’azione, alla base del principio di irretroattività della legge penale, non si pone con riguardo alla prescrizione. Infatti, si argomenta, un soggetto deve poter agire sapendo se una certa condotta è reato oppure no, non sapendo se il reato commesso si estinguerà presto o tardi per prescrizione. In altre parole, l’estinzione del reato per decorso del termine prescrizionale non rientra tra i fattori che influenzano la decisione dell’agente di realizzare una condotta illecita o di astenersi dal realizzarla. Si segnala che la l. 251/2005 è intervenuta sulla disciplina della prescrizione aumentando i tempi di prescrizione delle contravvenzioni, con ciò determinando una modifica peggiorativa ai sensi dell’art. 2 c.4 c.p. All’art. 10, il testo in esame dispone che le modifiche introdotte non valgono per i procedimenti e i processi in corso: secondo la suesposta opinione, la diversa opzione nel senso della retroattività della nuova disciplina sarebbe stata comunque legittima, per i motivi illustrati.

Un secondo, più condiviso, indirizzo, afferma invece il carattere sostanziale dell’istituto di cui all’art. 157 c.p. Da tale presupposto consegue, nei casi in cui al momento dell’entrata in vigore della nuova legge il fatto-reato non risulti ancora prescritto, l’irretroattività delle nuove norme peggiorative e la retroattività di quelle più favorevoli (artt. 25 c.2 e 3 Cost.).

Va peraltro sottolineato che il dibattito si incentra perlopiù sulla mutatio in pejus: rispetto alla modifica in senso più sfavorevole, infatti, è maggiormente avvertita l’esigenza di tutela dell’autore dell’illecito.

In conclusione, si osserva che la disciplina contenuta nell’art. 2 c.p., lungi dall’essere completa ed esaustiva, solleva molteplici dubbi interpretativi: in particolare, come si è visto da ultimo, risulta discussa l’applicabilità delle regole dettate dall’art. 2 c.p. ad importanti istituti “di confine” tra diritto sostanziale e diritto processuale, quali la recidiva e la prescrizione.


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