Regime intertemporale delle norme penali: distinzione tra ‘abolitio’ e ‘mutatio criminis’
Il regime intertemporale delle norme penali si basa sul principio di irretroattività delle norme incriminatrici e sul principio di retroattività della legge più favorevole (lex mitior).
Essi hanno diverso fondamento e differente portata: il principio di irretroattività della norma incriminatrice, in particolare, trova copertura costituzionale nell’art. 25, comma 2 Cost. e risponde all’esigenza di garantire la libertà di autodeterminazione degli individui nonché di assicurare la calcolabilità e prevedibilità del rischio penale, il che ne giustifica il carattere assoluto e inderogabile.
Quanto, invece, al principio di retroattività della legge più mite, esso, pur non trovando espresso riconoscimento in alcuna norma della Costituzione, viene ricondotto dalla giurisprudenza costituzionale all’art. 3 Cost., ossia al principio di uguaglianza: il giudice delle leggi evidenzia infatti che sarebbe ingiusto sottoporre eventi analoghi ad un trattamento differenziato per una mera ragione temporale, ossia per il solo fatto che uno si sia verificato prima e l’altro dopo il sopraggiungere della lex mitior. Allo stesso tempo, tuttavia, la Corte Costituzionale ritiene che in tal caso ci si trovi di fronte ad un principio derogabile, tale cioè da consentire, in alcune ipotesi, l’introduzione di una disparità di trattamento, a condizione, però, che la deroga risponda al principio di ragionevolezza. Si evidenzia, a riguardo, che in origine la giurisprudenza riteneva sufficiente, a tal fine, che la deroga in questione apparisse non manifestamente irragionevole, mentre ad oggi si pretende il riscontro di una positiva ragionevolezza a fondamento della stessa, nel senso che essa deve essere finalizzata alla tutela di interessi a loro volta costituzionalmente rilevanti. Tale evoluzione della giurisprudenza costituzionale si deve all’intervenuta affermazione del principio di retroattività della lex mitior ad opera di fonti comunitarie ed internazionali, quali la Carta di Nizza, il Patto sui diritti civili e politici di New York nonché la Cedu: proprio in relazione a quest’ultima, grande rilevanza ha avuto la sentenza Scoppola, in occasione della quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto il principio di retroattività della legge più mite desumibile dall’art. 7 Cedu. In ragione di quanto esposto, dunque, la Corte Costituzionale ha riconosciuto al principio in esame una maggiore rilevanza costituzionale, ammettendone la deroga in base a criteri più stringenti, ma continuando in ogni caso ad escluderne una portata assoluta e inderogabile. Non può del resto ravvisarsi, in relazione ad esso, un fondamento analogo a quello che sorregge il principio di irretroattività della norma incriminatrice, non venendo in rilievo in alcun modo, in tal caso, la tutela dell’autodeterminazione individuale: l’individuo che abbia commesso un fatto penalmente rilevante prima dell’entrata in vigore della lex mitior, infatti, non può di certo aver fatto affidamento su di esso nel valutare il rischio penale a cui andava incontro.
Per quanto concerne poi l’enunciazione legislativa del regime intertemporale delle norme penali, la disciplina generale è contenuta negli artt. 1 e 2 c.p.: in particolare l’art. 1 nonché il primo comma dell’art. 2 c.p., sancendo i principi di legalità e di irretroattività delle norme incriminatrici, riproducono il contenuto dell’art. 25, comma 2 Cost.
L’affermazione del principio di retroattività della legge più mite, invece, si ravvisa nei commi successivi dell’art. 2, ove lo stesso risulta declinato nelle sue diverse varianti di intensità: è in particolar modo il raffronto tra il secondo e il quarto comma di tale norma che consente di prendere atto della distinzione sussistente tra abolitio criminis e mutatio criminis, la quale si rivela di notevole importanza in ragione delle conseguenze che ne scaturiscono, specialmente in termini di libertà personale. Si osserva infatti che ogniqualvolta si verifichi abolitio criminis (comma 2), ossia venga eliminata dall’ordinamento una determinata fattispecie penale, nessuno potrà più essere incriminato sulla base della norma abolita e risulteranno travolti anche i giudicati già intervenuti in forza di essa: questi ultimi, pertanto, dovranno essere oggetto di revoca.
Laddove, invece, si verifichi mutatio criminis (comma 4), colui che ha commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della modifica dovrà vedersi applicata la previsione a lui più favorevole: ciò significa, pertanto, che qualora risulti più mite la norma successiva, essa si applicherà retroattivamente, incontrando tuttavia il limite del giudicato, il quale rimarrà fermo. L’unica ipotesi nella quale è eccezionalmente consentito l’intervento sul giudicato, a fronte di una mera mutatio, è disciplinata dal comma 3 dell’art. 2 c.p., introdotto con L. 85/2006: si tratta del caso in cui la legge sopravvenuta sostituisce, in relazione ad un determinato reato, la pena detentiva con la pena esclusivamente pecuniaria, ragione per cui la pena stabilita con il giudicato si converte in pecuniaria.
Paiono quindi piuttosto chiare ed evidenti le conseguenze che scaturiscono da ciascuno dei fenomeni analizzati.
Ciò che risulta talvolta problematico è invece comprendere se ci si trovi di fronte ad un fenomeno di abolitio criminis oppure di mutatio criminis, e questo ogniqualvolta il legislatore non si limiti a modificare il trattamento sanzionatorio relativo ad una fattispecie penale: in quest’ultima ipotesi, infatti, sarebbe pacifica la configurazione di una mutatio criminis.
Il riferimento è, piuttosto, alle ipotesi di riformulazione della fattispecie penale nonché di c.d. abrogazione “secca”.
Per riformulazione della fattispecie penale si intendono i casi in cui il legislatore rimodella la fisionomia del reato e quindi modifica il precetto penale, dando vita, di fatto, ad una nuova norma: è quanto accaduto, ad esempio, con la riformulazione del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) nonché con la fattispecie del falso in bilancio (artt. 2621 e 2622 c.c.). Per comprendere quanto si riveli importante, in ipotesi siffatte, la distinzione tra il configurarsi di una abolitio o di una mutatio, basti pensare che, nel primo caso, la riformulazione determinerebbe l’abolizione del reato precedentemente punito e la contestuale introduzione di una nuova incriminazione. La precedente previsione normativa, in conseguenza di ciò, risulterebbe espunta dall’ordinamento e dunque non più applicabile ad alcuno, comportando altresì la caducazione dei giudicati di condanna intervenuti sulla base di essa, mentre la nuova incriminazione, proprio in quanto tale, di certo non potrebbe essere applicata retroattivamente a chi ha commesso il fatto prima della sua introduzione. Viceversa, nell’ipotesi di mutatio, la riformulazione si collocherebbe in un solco di continuità normativa e dunque la nuova norma ben potrebbe essere applicata retroattivamente, ove più mite rispetto alla previsione precedente, anche se con il limite del giudicato.
Al fine di individuare il verificarsi di una abolitio o di una mera mutatio, pertanto, sono stati elaborati diversi criteri, di seguito analizzati.
Il dibattito, inizialmente, è stato caratterizzato dalla contrapposizione di due orientamenti, uno dei quali sosteneva la necessità di guardare esclusivamente al fatto concreto, al fine di verificare se lo stesso risultasse o meno punibile sia in base alla norma precedente che in base alla successiva (c.d. criterio della doppia punibilità in concreto), mentre un diverso orientamento sosteneva la necessità di procedere ad un raffronto tra le fattispecie astratte. A seguito del prevalere di quest’ultimo indirizzo, è venuta delineandosi un’ulteriore distinzione nell’ambito del medesimo, precisamente tra coloro che ritenevano che tale raffronto tra norme dovesse essere compiuto impiegando dei criteri sostanziali-valutativi (c.d. criterio della continuità normativa del tipo di illecito) e coloro che invece propendevano per l’utilizzo di criteri logico-formali (c.d. criterio della relazione strutturale tra fattispecie astratte). Proprio la soluzione da ultimo prospettata ha finito con l’essere prescelta e ciò in quanto, come sottolineato dalla Corte di Cassazione, il formalismo è garanzia di prevedibilità: a riguardo non va dimenticato che il nostro ordinamento è incentrato sulla calcolabilità del rischio penale, la quale può risultare garantita solo a condizione che la distinzione tra abolitio e mutatio avvenga sulla base di un criterio netto, oggettivo e non opinabile. Tale finalità di certo non risulterebbe soddisfatta ove fossero utilizzati criteri sostanziali, i quali guardano, ad esempio, al bene protetto nonché alle modalità di offesa di quest’ultimo, rivelandosi pertanto opinabili e quindi in larga misura rimessi alla discrezionalità del giudice.
Ebbene, le S.U., a partire dalla sentenza Giordano del 2003, sostengono che, al fine di verificare se la riformulazione della norma penale abbia dato luogo ad una abolitio criminis oppure ad una mutatio criminis, sia fondamentale confrontare preliminarmente le fattispecie astratte sulla base di un criterio logico-formale: si tratta, per l’esattezza, di accertare la sussistenza o meno, tra di esse, di un rapporto di continenza formale, ossia di specialità. Occorre chiarire, a tal proposito, che una norma può dirsi speciale rispetto ad un’altra qualora contenga tutti gli elementi della norma generale nonché un elemento ulteriore, potendo quest’ultimo essere specificativo o aggiuntivo: nel primo caso si parlerà di specialità per specificazione, mentre nel secondo caso di specialità per aggiunta. Si arriva così ad affermare che, qualora tra le norme non sussista un rapporto di continenza formale, ossia di specialità, vada ravvisata discontinuità tra le stesse e quindi abolitio criminis, con tutto ciò che ne consegue, nei termini sopra analizzati. Laddove, invece, dovesse essere riscontrato tra le norme un rapporto di questo tipo, potrebbe esserci continuità tra le previsioni normative, non essendo tuttavia ancora possibile trarre una tale conclusione in via definitiva. A riguardo si evidenzia infatti che, in ipotesi siffatte, diventa fondamentale estendere l’analisi al caso concreto al fine di verificare la punibilità di questo sia in base alla norma per come originariamente formulata, sia in base alla nuova elaborazione normativa: solo in caso di risposta affermativa potrebbe definitivamente ravvisarsi piena continuità tra le disposizioni normative e quindi concludere che sia intervenuta mutatio.
Se così non dovesse essere, invece, ci si troverebbe di fronte ad una ipotesi caratterizzata da un doppio fenomeno, ossia quello di una limitata continuità (mutatio), accompagnata anche da una parziale abolitio: ciò, a ben guardare, accade ogniqualvolta la nuova norma abbia una portata applicativa minore rispetto alla precedente, ossia abbia l’effetto di restringere l’area del penalmente rilevante.
Venendo ora all’ulteriore ipotesi che presenta profili problematici, ossia quella concernente la c.d. abrogazione “secca”, è in particolare essa che merita un’approfondita analisi: con tale espressione si fa riferimento ai casi in cui il legislatore si limita esclusivamente ad eliminare una norma penale dall’ordinamento giuridico, manifestando così una mera volontà negativa. Si osserva, tuttavia, che non sempre e non necessariamente l’eliminazione di una fattispecie di reato da parte del legislatore corrisponde al venir meno della rilevanza penale della corrispondente condotta. Proprio in ragione di ciò, si è soliti parlare di abrogatio cum abolitio e di abrogatio sine abolitio, al fine di distinguere le ipotesi nelle quali all’abrogazione consegue il venir meno della rilevanza penale della condotta, rispetto ai casi in cui, nonostante l’eliminazione della fattispecie penale dall’ordinamento, il fatto concreto continua ad essere punibile in forza di una diversa previsione normativa. A riguardo occorre altresì precisare che la problematica attinente alle ipotesi di c.d. abrogazione “secca” si pone solo qualora la norma che viene abrogata si trovi in rapporto di specialità con altra disposizione dell’ordinamento, di carattere generale, tale per cui all’eliminazione della norma speciale fa seguito la riespansione della norma generale. E’ agevole comprendere che, in casi siffatti, ci si trova di fronte ad un’ipotesi particolare di successione delle norme penali, anche detta successione impropria, in quanto la norma che si riespande a seguito dell’abrogazione “secca” è in realtà preesistente nell’ordinamento globalmente inteso: essa, a ben guardare, può definirsi “nuova” solo nello specifico settore ordinamentale lasciato libero dalla norma speciale abrogata e prima occupato da quest’ultima. A quanto detto si aggiunge inoltre il rilievo in forza del quale, trattandosi di norma già vigente nel momento in cui il fatto è stato commesso, nulla osterebbe, anche ove si ravvisasse abolitio, alla sussunzione del fatto concreto nell’ambito di operatività della norma generale, non potendosi obiettare un’applicazione retroattiva della medesima. La distinzione tra abolitio e mutatio, pertanto, avrebbe in questi casi una rilevanza particolare, limitata, cioè, al solo giudizio di esecuzione, mentre finirebbe per essere posta nel nulla in relazione al giudizio di cognizione. Ciò si spiega in ragione del fatto che il giudice dell’esecuzione si limita a conoscere del giudicato, dovendo disporne la revoca o meno a seconda che si trovi a concludere, rispettivamente, per l’intervenuta abolitio o mutatio in conseguenza dell’abrogazione “secca”: al di là di ciò, tuttavia, il giudice dell’esecuzione non può andare, non essendo dotato dei poteri necessari per un’eventuale riqualificazione del fatto concreto. Diversamente, invece, deve concludersi quanto al giudice della cognizione: quest’ultimo, infatti, ben potrebbe, anche a fronte di una constatata abolitio, ritenere il fatto concreto sussumibile nell’ambito di applicazione della norma incriminatrice di carattere generale, la quale, come visto, si riespande a seguito dell’abrogazione della norma speciale. In tal caso, in effetti, non si potrebbe obiettare, come già accennato, un’applicazione retroattiva di nuova norma incriminatrice, appunto perché in realtà la norma di carattere generale non è affatto nuova nell’ordinamento, bensì preesistente e già in vigore al momento della commissione del fatto: essa, semplicemente, in precedenza non aveva applicazione nel limitato settore dell’ordinamento occupato dalla norma speciale, ora abrogata.
Ecco, quindi, che si viene a creare una situazione tale per cui coloro che, in forza della norma abrogata, sono stati già condannati con sentenza definitiva, si vedranno revocato il giudicato, senza che la loro condotta possa essere sussunta nell’ambito di applicazione di altra norma incriminatrice, non avendo il giudice dell’esecuzione poteri idonei a consentirlo.
Viceversa, invece, coloro i quali non sono stati ancora condannati in via definitiva per il fatto punito dalla norma abrogata, potranno vedersi applicata la diversa norma incriminatrice avente carattere generale e oggetto di riespansione, ben potendo il giudice della cognizione operare una riqualificazione del fatto in questione.
Si segnala, altresì, che nelle ipotesi di abrogazione “secca” il criterio logico-formale, di regola impiegato al fine di distinguere tra le ipotesi di abolitio criminis e di mutatio criminis, pur continuando a costituire la base da cui partire per condurre la disamina, si rivela tuttavia insufficiente allo scopo. Tale conclusione emerge con evidenza da diverse pronunce della Corte di Cassazione nelle quali, al fine di concludere nel senso di ritenere che l’abrogazione “secca” abbia dato luogo o meno ad una abolitio, essa richiama in gioco i criteri sostanziali-valutativi. Ciò, del resto, appare inevitabile: nelle ipotesi in esame, infatti, il legislatore si limita a manifestare una volontà negativa, non accompagnata da alcuna espressa volizione di contenuto positivo, il che, conseguentemente, rende necessaria la ricostruzione del suo reale intento. Tale obiettivo, invero, risulta conseguibile solo tramite la valorizzazione di dati sostanziali quali, ad esempio, la ratio legis sottesa alle previsioni normative che vengono in rilievo nel caso in questione nonché l’individuazione del bene che deve ritenersi protetto da ciascuna di esse. Si tratta di indagini che la Suprema Corte mostra di compiere in diverse pronunce aventi ad oggetto ipotesi di abrogazione “secca” di norme incriminatrici: si pensi, ad esempio, all’eliminazione del reato di oltraggio, a seguito della quale si pose un problema di rapporto con la fattispecie penale dell’ingiuria aggravata. Ebbene, in tale circostanza la Corte di Cassazione ravvisò un’abolitio criminis, nonostante tra le norme in esame sussistesse un evidente rapporto di specialità (essendo l’oltraggio nient’altro che un’offesa avente dei connotati di specialità, in quanto arrecata ad un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni): a tale conclusione la Suprema Corte giunse valorizzando la diversità dei beni giuridici protetti, laddove l’ingiuria tutela la dignità, la reputazione e l’onore dell’individuo in quanto tale, mentre l’oltraggio è volto alla tutela del prestigio della Pubblica Amministrazione.
Altro esempio è costituito dalla sentenza Rizzo, resa dalle S.U. nel 2009, in occasione della quale la Corte di Cassazione si pronunciò sull’intervenuta abrogazione della procedura concorsuale dell’amministrazione controllata nonché sul conseguente venir meno del relativo reato di bancarotta in amministrazione controllata, interrogandosi altresì sui rapporti intercorrenti tra questa fattispecie penale e il reato di appropriazione indebita. A riguardo la Suprema Corte escluse che tra le norme in esame potesse essere ravvisato un vero e proprio rapporto di continenza formale: le previsioni normative, infatti, contenevano degli elementi specializzanti reciproci, richiedendo l’appropriazione indebita il dolo specifico, a fronte della qualifica soggettiva necessaria invece per la configurazione del reato di bancarotta in amministrazione controllata. Ebbene, pur concludendo nel senso di ravvisare discontinuità e quindi abolitio, con conseguente revoca dei giudicati, la Corte di Cassazione proseguì in ogni caso l’analisi, estendendola ai dati sostanziali: sul punto, essa ravvisò la diversità dei beni protetti, dovendosi ritenere l’appropriazione indebita finalizzata alla tutela dell’inviolabilità del diritto di proprietà nonché dell’integrità del patrimonio in quanto tale, ed essendo invece riconducibile al reato di bancarotta la salvaguardia del patrimonio nella sua funzione di garanzia per i creditori.
La necessità di richiamare in gioco i criteri sostanziali-valutativi, del resto, si spiega alla luce del fatto che, a ben guardare e come sopra già evidenziato, il fenomeno di abrogazione “secca” si rivela di difficile interpretazione esclusivamente nelle ipotesi in cui la norma abrogata si ponga in rapporto di specialità, e quindi di continenza formale, con un’altra previsione normativa, preesistente nell’ordinamento, la quale si riespande a seguito dell’abrogazione. Risulta quindi evidente che se ci basasse sul solo criterio logico-formale al fine di stabilire se l’abrogazione abbia dato luogo o meno ad un’abolitio criminis, si finirebbe sempre per escluderla, mentre, come visto, la Corte di Cassazione è giunta diverse volte a ravvisarla, proprio valorizzando i sopra menzionati dati sostanziali. E’ bene in ogni caso ricordare che questa conclusione, in tali ipotesi, conserva la sua valenza concreta sul solo piano del giudizio di esecuzione, nulla ostando, per le ragioni sopra esposte, ad una riqualificazione del fatto concreto da parte del giudice della cognizione.
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Serena Fiorentini
Laureata presso La Sapienza, Università di Roma, voto 110/110 e lode, con tesi in Procedura penale, dal titolo "La prova decisiva" (Relatore Prof. Alfredo Gaito).
Successivamente ha svolto con esito positivo il tirocinio presso gli uffici giudiziari (marzo 2016- settembre 2017) presso il Tribunale di Civitavecchia, sezione penale.
Ha frequentato i corsi di alta formazione giuridica "Lexfor" (2016-2017) e "Jusforyou" (2017-2018).
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