Regionalismo differenziato: un’analisi
(Recensione a: Stefano Bruno Galli, “Manifesto dell’Autonomia“, Biblion Edizioni, Milano 2022, pp. 95, € 12,00).
Che viviamo in uno Stato farraginoso, macchinoso, un leviatano privo di alcuna capacità di stare al passo con le esigenze della società civile, è cosa ben nota a qualsiasi italiano. Da ogni parte politica smaltire la burocrazia e rendere attrattivo il nostro Paese sono considerate delle priorità.
Ecco che però, quando si propongono dei progetti concreti, in particolare la rivisitazione del riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni, inizia la partita di calcio: assistenzialisti contro insensibili verso i poveri, comunisti contro amici dei ricchi, eccetera.
La partita si gioca anche nella prassi estremamente semplificatoria (che, per citare un recente articolo di Michela Murgia, “rifiuta la complessità“1, questa sì!) di catalogare le tipologie di elettorato. In questo contesto si sovrappongono regionalisti, federalisti, autonomisti, in genere per ricondurli a dei secessionisti sovversivi dell’unità nazionale nonché razzisti verso il Sud.
Dietro a questi termini, tuttavia, vi sono precise e differenti (oltre che pacificamente legittime) concezioni del rapporto tra enti territoriali. Il pamphlet in commento approfondisce, in poche pagine, essenzialmente gli abusati concetti di autonomia e federalismo, ripercorrendone le principali tappe politiche e costituzionali, fornendo alcuni interessanti spunti di riflessione e abbracciando altresì altre tematiche connesse ed emerse nel dibattito pubblico.
Si può iniziare proprio da un problema che pervade, accomunandoli, tutti quelli successivamente affrontati e che si realizza anche attraverso l’approccio ideologico e radicale descritto all’inizio di questo contributo: la carenza, nella nostra classe politica, di una cultura della “manutenzione costituzionale“, ovvero dell’adattamento della Costituzione formale a quella materiale, vivente. La revisione costituzionale è una procedura lenta, non in grado di stare al passo con i tempi dei cambiamenti sociali, oltre che demandata a logiche partitiche, tramite la ricerca della maggioranza parlamentare qualificata nelle Commissioni, per poi trasferirla in Aula, o abbandonata ad esiti incerti: si pensi alla riforma del 2001, avvenuta ad esito di referendum (per il mancato conseguimento della maggioranza qualificata in Parlamento) poco partecipato e svoltosi dopo delle elezioni che avevano portato in minoranza le forze politiche proponenti.
Da questo deficit di flessibilità mentale deriva la difficoltà nel concedere legittimazione a quelle proposte sì modificative di alcune disposizioni costituzionali, ma anche utili nel cercare di superare certi impasse che, nel nostro Paese, ormai esistono da decenni. Ma non c’è modo migliore di esercitare questa elasticità se non sfatando miti.
Il saggio in commento inizia dunque dal Presidenzialismo, sostenendo che la sua coesistenza con le istanze autonomiste non sia una contraddizione in termini: il combinato disposto dei due permette, infatti, di attuare un sistema di pesi e contrappesi tra le esigenze rappresentate dai partiti e quelle di unificazione e di efficienza generale. Si sottrae la Presidenza a derive partitocratiche, a giochi di palazzo e la carica conserva legittimazione anche laddove, nel corso del mandato, muti la composizione del Governo, circostanza assai frequente nel nostro Paese, dove lo stesso ha durata alquanto breve (per usare un eufemismo).
Venendo poi nello specifico al tema dell’autonomia, il libello si premura di correggere l’equiparazione, spesso praticata, tra autonomia e federalismo: quest’ultimo si ispira ad un patto sociale che nasce dal basso, dai consociati, per gestire poche ed essenziali funzioni, in via eccezionale, in maniera accentrata, secondo un metodo riassumibile nella formula “e pluribus unum“; di contro, l’autonomia regionale nasce come processo con cui lo Stato centrale demanda dall’alto alcune funzioni, secondo la formula “ex uno plures“, come può cogliersi nell’art. 5 della Carta Costituzionale, nella parte in cui individua lo Stato quale soggetto che devolve funzioni a favore degli enti territoriali “inferiori”.
Dunque, innanzitutto, la richiesta di conferimento di più competenze alle Regioni ad oggi si colloca nel quadro del regionalismo, non del federalismo.
Tale autonomia differenziata (ovvero differente Regione per Regione) non si basa su un’ideologia anti-meridionalista, né intende abbandonare i poveri del Sud a favore dei ricchi del Nord, retorica molto in voga tra chi la osteggia. Ha, invece, un fondamento oggettivo, ovvero le diversità geografiche, linguistiche, culturali, ma anche economiche e produttive. Questa realtà è ben rappresentata dall’immagine dello scheletro di un cetaceo, ideata dal filosofo francese Proudhon, citato nel saggio, il quale, nell’approfondire la tematica del federalismo, così descrisse l’Italia: “una lunga penisola, divisa nella sua lunghezza da una catena continua di montagne, dalla quale si dipartono, su entrambi i lati e fino al mare, un gran numero di vallate separate da altrettanti crinali e perfettamente indipendenti. Si direbbe lo scheletro di un immenso cetaceo“. Ove si individuano dei parametri oggettivi legittimanti trattamenti differenziati, è doveroso attuare il principio costituzionale di uguaglianza sostanziale, sancito dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, norma che grava la Repubblica del “compito” (testuale) di rimuovere gli ostacoli sociali o economici limitanti le libertà dei cittadini, il loro pieno sviluppo e la loro partecipazione alla vita pubblica.
Chi scrive aggiunge: nulla impedisce di ritenere il riparto di competenze Stato/Regioni come qualcosa di modificabile al fine di attuare la suddetta norma costituzionale. Nel momento in cui la struttura accentrata crea disfunzioni che arrecano disagi ai cittadini e al loro godimento dei servizi pubblici, non è questo un ostacolo alla partecipazione alla vita pubblica? In questa chiave occorre ripensare il riparto di competenze Stato/Regioni: nell’ottica del garantismo sociale.
Il breve saggio in commento precisa altresì che la specialità che già caratterizza determinate Regioni, quali la Sicilia, la Sardegna e la Val d’Aosta, nasce come riconoscimento di realtà culturali preesistenti alla Costituzione, la quale, per l’appunto, “riconosce le autonomie locali” (art. 5).
Quando la Costituzione parla di riconoscimento, intende prendere atto di, e dunque legittimare, una realtà esistente prima e a prescindere dall’ordinamento positivo, quale fenomeno spontaneo della società e della sua storia.
Questa prospettiva dunque si pone come un atto di “lealtà costituzionale“, diversamente dall’ormai purtroppo radicato “regionalismo ordinario dell’uniformità“, nell’ambito del quale gli Statuti regionali finiscono per diventare meri strumenti tecnici e burocratici. Significa realizzare il disegno costituzionale, un sistema efficiente e responsabile, un banco di prova del rendimento istituzionale di ciascuna Regione.
A tal fine non aiuta, purtroppo, il riparto di competenze tra Stato e Regioni di cui all’art. 117, non essendo seguita alla riforma del Titolo V la riduzione dei conflitti sulle competenze concorrenti. Il concetto, flessibile, di leale collaborazione è poco compatibile con i confini, rigidi e costituzionalizzati, delle competenze stesse.
Anche su questo punto, il saggio in commento riporta un’interessante osservazione.
Organo deputato alla risoluzione dei suddetti conflitti è la Corte Costituzionale, tra i cui membri, però, non ve ne è uno che sia espressione delle Regioni, essendo tutti eletti da organi statali “centrali”.
Elemento in più per ripensare la Camera dei Senatori, rendendola un ramo rappresentativo proprio delle realtà regionali. In tal modo, in sede di elezione dei giudici della Consulta, si avrebbe rappresentanza sia dello Stato che delle Regioni, con un conseguente maggior equilibrio nella composizione dell’organo chiamato a dirimere i conflitti coinvolgenti proprio questi soggetti.
Quelli esposti sopra sono solo dei cenni rispetto alle riflessioni poste dal pamphlet e, più in generale, dai sostenitori di uno Stato meno centralista. Si può essere d’accordo o meno con queste posizioni, ma una cosa è certa: si impone un approccio pragmatico e concreto, scevro da quelle etichette ideologiche che non fanno altro che allontanare il cittadino dall’interesse verso la res publica: un approccio moderno.
1“I cattolici amano un dio bambino perché rifiutano la complessità“, Michela Murgia, La Stampa, 24 dicembre 2022.
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Lara Gallarati
Avvocato presso il Foro di Milano.
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