Responsabilità amministrativa e ne bis in idem
Nell’esercizio delle sue funzioni il pubblico dipendete può essere chiamato a rispondere nei confronti della pubblica amministrazione a titolo di responsabilità amministrativa.
Questa trova la sua unitaria e fondamentale disciplina nelle leggi del 14 gennaio 1994, nn. 19 e 20, così come modificate dalla legge del 20 dicembre 1996, n. 639. Tali leggi hanno unificato le diverse norme che disciplinavano la materia a seconda dell’appartenenza dei dipendenti ad amministrazioni statali, enti locali, USL ed enti pubblici non statali.
La responsabilità amministrativa si configura allorquando il dipendente pubblico provochi un danno patrimoniale alla propria amministrazione o ad altro ente pubblico per inosservanza degli obblighi di servizio.
Giudice competente in materia di responsabilità amministrativa è la Corte dei Conti.
Occorre sottolineare l’esigenza di determinare un punto di equilibrio su quale parte del danno debba restare a carico della pubblica amministrazione e quale a carico del dipendente al fine di stimolare e non di disincentivare l’azione dei pubblici dipendenti, creando una normativa che tuteli il pubblico lavoratore ed allevi il timore di “amministrare”.
Al riguardo quindi si è ritenuto necessario ancorare questa speciale forma di responsabilità ai concetti di dolo e colpa grave. Infatti, ai sensi dell’art. 1, c.4 della l.n. 20/1994, la responsabilità dei pubblici dipendenti ed è amministratori è personale e limitata ai soli fatti e omissioni commessi con dolo o colpa grave.
Prima di ciò la Corte Costituzionale, con diverse pronunce, aveva legittimato le previsioni normative contenute in diversi testi di legge, come nel caso dell’art. 52 del testo Unico delle leggi sull’istruzione superiore, che prevedevano forme di responsabilità amministrativa per violazioni commesse solo con dolo o colpa grave.
Si riteneva che tali disposizioni determinassero una disparità di trattamento non giustificata, dato che l’ordinamento prevedeva in linea generale la responsabilità patrimoniale dei pubblici dipendenti anche per i casi di colpa lieve, richiamando al riguardo l’art. 52 del r.d. n. 1214/1934 contenente le leggi sulla Corte dei conti.
La Corte Costituzionale quindi, nel dichiarare non fondate le censure di incostituzionalità, affermava la legittimità di quelle disposizioni che limitavano la responsabilità amministrativa alle sole ipotesi di fatti ed omissioni commessi con dolo o colpa grave (si vedano al riguardo la sentenza n. 54 de 1975 e la sentenza n. 164 del 1982).
Successivamente la questione è stata posta all’attenzione della Corte Costituzionale con tre ordinanze di remissione della Corte dei Conti con cui si sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, c.1, lett. A) del d.l. n. 543/1996, convertito con modificazioni nella legge n. 639/1996.
In particolare, il giudice rimettente sosteneva il contrasto di tale disposizione con gli articoli 3, 97 e 103 della Costituzione nella parte in cui estendeva a tutti i dipendenti pubblici la limitazione di responsabilità per i soli casi di colpa grave e dolo.
La Corte Costituzionale, confermando il suo precedente orientamento, ha ritenuto infondate le questioni sollevate, ritenendo che rientri nella discrezionalità del legislatore stabilire non solo quali comportamenti possano costituire titolo di responsabilità, ma anche quale grado di colpa sia richiesto e a quali soggetti la responsabilità sia ascrivibile.
Continuava la Corte sottolineando che la finalità ispiratrice di questa norma era quella di predisporre nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non producesse rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa.
Ma qual è la natura giuridica di tale forma di responsabilità?
Secondo il filone civilistico, questa avrebbe carattere risarcitorio, reintegratorio, per cui il pubblico impiegato, che ha agito per conto della pubblica amministrazione e ha esposto la stessa ad una richiesta di risarcimento dei danni, deve a sua volta risarcire il danno alla pubblica amministrazione.
Invece, secondo il filone penalistico, la responsabilità amministrativa avrebbe una ratio afflittivo-sanzionatoria in virtù della quale il pubblico impiegato, che ha agito contravvenendo all’obbligo di svolgere con onore le funzioni pubbliche, deve essere sanzionato.
Espressione di questa problematica è la formulazione emblematica dell’art. 1 della l. n. 20/1994 sulla trasmissibilità di tale responsabilità agli eredi. Stabilisce la norma che la responsabilità amministrativa non è trasmissibile, sembrando quindi optare per una visione sanzionatoria, tuttavia prosegue affermando che l’ente può rifarsi nei confronti degli eredi nei limiti dell’illecito arricchimento del dante causa e conseguente indebito arricchimento degli eredi, sancendo così tra le righe la natura risarcitoria e non personale della responsabilità amministrativa.
Il problema della natura di tale particolare forma di responsabilità assume rilievo anche sotto il profilo di una possibile lesione del divieto di bis in idem.
Se configurassimo tale responsabilità come rimedio di natura risarcitoria, il problema di un’eventuale lesione del ne bis in idem non si porrebbe affatto, non essendovi materia penale e trovandoci quindi fuori dall’ambito di operatività del principio, ma, se diversamente affermassimo la ratio afflittivo-sanzionatoria della responsabilità amministrativa, allora sorgerebbe un problema di violazione del principio del ne bis in idem.
In particolare, il pubblico dipendente, già processato in sede penale, potrebbe opporre al magistrato contabile che vuole processarlo per responsabilità amministrativa l’esistenza di un precedente giudizio e di una precedente pronuncia per lo stesso fatto.
La questione è stata posta all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Rigolio c. Italia. Nel caso in esame, un assessore comunale, condannato in primo grado per corruzione, aveva beneficiato della prescrizione in grado di appello, con sentenza confermata dalla Cassazione penale che condannava l’imputato al risarcimento dei danni in favore del Comune, unitamente alla confisca del prezzo del reato, escludendo l’esistenza di elementi atti a dimostrarne l’innocenza ed il proscioglimento ex art. 129 c.p.p..
Convenuto dinanzi alla Corte dei Conti per danno all’immagine della pubblica amministrazio9ne, veniva condannato sulla base degli accertamenti compiuti dal giudice penale in applicazione dell’art. 651 c.p.p. in tema di autorità del giudicato della sentenza di condanna nei giudizi amministrativi e civili.
L’assessore aveva quindi proposto ricordo alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione del principio del ne bis in idem. Questa, applicando i criteri Engel e sulla base di una valutazione attinente la qualificazione amministrativa della responsabilità nascente dal pregiudizio all’immagine, la natura della violazione ed il grado di severità della sanzione inflitta, escludeva che vi fosse la cosiddetta “materia penale” e quindi violazione del principio in parola, caratterizzando quindi la responsabilità amministrativa del pubblico impiegato nei confronti dell’ente come una responsabilità di natura risarcitoria, non potendo il giudizio di responsabilità contabile, finalizzato al risarcimento dell’amministrazione danneggiata e al ristoro del pregiudizio dalla stessa subito, essere assimilato al processo penale.
Quindi, la Corte escludeva che il giudizio di responsabilità dovesse soggiacere alle garanzie del processo penale sancite dalla CEDU, nonostante l’art. 651 c.p.p., che consente l’utilizzazione del giudicato penale nei giudizi civili e amministrativi anche in caso di sentenza di patteggiamento o di proscioglimento per prescrizione, possa effettivamente ledere il principio di presunzione di innocenza di cui all’art. 6, par. 2, CEDU.
Così la Corte confermava il rapporto di reciproca autonomia tra giudizio di accertamento in sede penale e giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, anche se tali giudizi vertono sullo stesso fatto e riguardano lo stesso soggetto.
Tale orientamento è stato accolto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
In materia va ricordata la sentenza n. 35205/17 della Sesta sezione penale della Corte in cui si afferma che la giurisdizione penale e quella contabile sono reciprocamente autonome anche in caso di azione di responsabilità derivante da uno stesso fatto di reato commesso da un pubblico dipendente e si riconosce interferenza dei giudizi, con il verificarsi si una preclusione, solo se l’ente in uno dei giudizi, penale, civile o contabile che sia, abbia già ottenuto un titolo definitivo per l’integrale risarcimento di tutti i danni.
Viene pertanto confermata la natura risarcitoria della responsabilità amministrativa, venendo questa parametrata al danno subito in concreto dalla pubblica amministrazione. La Corte dei Conti infatti deve operare la cosiddetta “riduzione” del dovuto, cioè detrarre dal computo dei danni i vantaggi comunque conseguiti in virtù del fatto commesso dal pubblico dipendente.
Quindi, fatta salva l’ipotesi di integrale risarcimento dei danni, l’esistenza di un giudicato penale non preclude la possibilità di agire a titolo di responsabilità amministrativa per lo stesso fatto o omissione del pubblico dipendente, non essendo tale giudizio “materia penale” e quindi ambito di applicazione del divieto di bis in idem.
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