Responsabilità del Comune ex art. 2051 c.c.
Sommario: 1. Premessa – 2. L’ evoluzione normativa dell’art. 2051 c.c. – 3. Un caso particolare: strada privata a uso pubblico
1. Premessa
In questo articolò verrà esaminata la disciplina giuridica della responsabilità in capo al Comune nei casi in cui avvenga un fatto pregiudizievole in una strada pubblica; successivamente verrà trattato un caso, particolare ma molto comune, in cui tale evento negativo avvenga in una strada privata ma a uso pubblico: una signora, dopo aver fatto la spesa al centro commerciale, entra nel parcheggio esterno della struttura dove aveva parcheggiato la macchina (luogo non riservato alla clientela ma ove chiunque può accedervi), cade a causa di una buca e si rompe il femore della gamba destra.
2. L’ evoluzione normativa dell’art. 2051 c.c.
Ai sensi dell’art. 2051 del Codice Civile, la c.d. “Responsabilità del custode” si ritiene che sia presunta quando sussistono le seguenti due condizioni: l’esistenza di un rapporto di custodia, identificandosi lo stesso in una relazione tra la cosa e colui il quale ha un effettivo potere sulla stessa; il fatto che il danno lamentato sia provocato dalla cosa in custodia.
Basandosi su una relazione, per l’appunto, tra cosa e custode, la responsabilità deve prescindersi dal carattere colposo o dall’attività di quest’ultimo, nonché dalla pericolosità della cosa stessa;
Essendo di natura oggettiva, la responsabilità ex art. 2051 c.c. presuppone, per la sua configurabilità, esclusivamente l’esistenza del nesso eziologico fra cosa ed evento.
Occorre rilevare, infatti, che, in materia di sinistri avvenuti su strada o suolo pubblico, ormai da alcuni anni la giurisprudenza ha abbandonato l’orientamento secondo cui sarebbe configurabile la responsabilità del custode pubblico soltanto in presenza della c.d. “insidia” o “trabocchetto”, entrambe riconducibili all’illecito aquiliano di cui all’art. 2043, (ex plurimis, Cass. n. 366 del 2000, Cass. n. 7938 del 2001, Cass. n. 9092 del 2001, Cass. n. 11250 del 2002, Cass. n. 14993 del 2002, Cass. n. 15710 del 2002, Cass. n. 16356 del 2002, Cass. n. 17152 del 2002, Cass. n. 1571 del 2004, Cass. n. 22592 del 2004), essendo, viceversa, consolidata l’applicazione dell’art. 2051 c.c.
Allo stesso tempo la Corte ha affermato anche che la “notevole estensione del bene” e “l’uso generale e diretto” non determinano di per sé l’impossibilità da parte della pubblica amministrazione di un concreto esercizio del potere di controllo e vigilanza sul bene medesimo; la quale dunque potrebbe essere ritenuta, non già in virtù di un puro e semplice riferimento alla natura demaniale e all’estensione del bene, ma solo a seguito di un’indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità”.
Spetta al giudice dunque valutare in concreto se il custode/gestore sia oggettivamente nelle condizioni di mantenere un controllo sul bene in custodia e se, in tal caso, abbia intrapreso tutte le operazioni idonee ad evitare il verificarsi o l’insorgere del pericolo, oppure se, al contrario, non si sia adoperato con la necessaria diligenza al fine di scongiurare tale rischio.
Con la sentenza n. 15042/2008 la Corte di Cassazione ha poi affermato che peculiarità che in astratto possono rendere difficoltoso un effettivo controllo sul bene in custodia “vanno individuate non solo e non tanto nell’estensione territoriale del bene e nelle concrete possibilità di vigilanza su di esso e sul comportamento degli utenti, quanto piuttosto nella natura e nella tipologia delle cause che abbiano provocato il danno: secondo che esse siano intrinseche alla struttura del bene, sì da costituire fattori di rischio conosciuti o conoscibili a priori dal custode (quali, in materia di strade, l’usura o il dissesto del fondo stradale, la presenza di buche, la segnaletica contraddittoria o ingannevole, ecc.), o che si tratti invece di situazioni di pericolo estemporaneamente create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione. Nel primo caso è agevole individuare la responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., essendo il custode sicuramente obbligato a controllare lo stato della cosa e a mantenerla in condizioni ottimali di efficienza. Solo nel secondo caso l’emergere dell’agente dannoso può considerarsi fortuito, quanto meno finché non sia trascorso il tempo ragionevolmente sufficiente perché l’ente gestore acquisisca conoscenza del pericolo venutosi a creare e possa intervenire ad eliminarlo” (Cassazione civile sez. III 2008 n. 15042; in tal senso anche Cass. 1691/2009, Cass. 4495/2011).
Tale orientamento è stato seguito e condiviso anche nel recente passato, quando, nuovamente, la Cassazione, con sentenza n. 14856/2013, si è espressa sul punto, affermando che “la responsabilità ex articolo 2051 del c.c. sussiste in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l’insorgenza in essa dì agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito” ed ha altresì ribadito che il caso fortuito si configura solo “in relazione a quelle situazioni provocate dagli stessi utenti, ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa che, nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere”.
Tale ricostruzione è stata ribadita dalla Suprema Corte in una recentissima pronuncia in cui la stessa ha affermato che la responsabilità ex articolo 2051 c.c., per danni da cose in custodia, anche nell’ipotesi di beni demaniali in custodia della pubblica amministrazione, ha carattere oggettivo, ragion per cui si configura in concreto tutte le volte in cui sussiste nesso causale tra la cosa in custodia del danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza (Cass. 8481/2015).
…E se la strada è privata ma a uso pubblico?
3. Un caso particolare: strada privata a uso pubblico
L’insieme degli orientamenti giurisprudenziali consolidati e concordanti portano a ritenere che una strada, anche se privata, può essere gravata di un uso pubblico indipendentemente dal titolo di proprietà.
Di conseguenza, il carattere della titolarità del bene non è determinante al fine della sua qualificazione normativa, essendo necessario accertare di fatto la destinazione del bene, l’uso a cui è funzionale la strada che, per essere coerenti, va a determinare la sua natura: a servizio di un numero limitato di soggetti o una collettività indistinta (ergo transito pubblico o privato).
L’articolo 19 della Legge 12 febbraio 1958, n. 126, “Disposizioni per la classificazione e la sistemazione delle strade di uso pubblico”, pone una particolare definizione alle “strade vicinali” per ricomprendervi “tutte le altre strade non iscritte nelle precedenti categorie e soggette a pubblico transito sono vicinali”.
Ciò che caratterizza la demanialità del bene non è la sua appartenenza ad un determinato soggetto o ente (pubblico o privato) ma l’uso a cui è funzionale la strada – il transito pubblico – cioè, oltre al transito dei proprietari frontisti e di quelli in consecuzione, è necessario l’ulteriore requisito dell’uso pubblico esercitato iure servitutis.
Secondo un orientamento consolidato della Corte di Cassazione, ai fini della definizione di “strada”, ciò che rileva, ai sensi dell’articolo 2 del nuovo Codice della Strada, è la destinazione di una determinata superfice a uso pubblico e non la titolarità pubblica o privata della proprietà. È pertanto l’uso pubblico a giustificare, per evidenti ragioni di ordine e sicurezza collettiva, la soggezione delle aeree alle norme del Codice della Strada (Cass. n.14367/2018).
L’ultimo inciso del comma sesto dell’articolo 2 del Codice della Strada conferma questo orientamento giurisprudenziale, ai sensi del quale anche le “strade vicinali” sono assimilate alle strade comunali, nonostante per definizione sia di proprietà privata anche in caso di destinazione a uso pubblico (Cass. n.17350/2008).
In conclusione, si può affermare, pacificamente che la pubblica amministrazione sia la responsabile, in quanto è tenuta di fatto alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada. Ne consegue che, “nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d’una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell’amministrazione comunale, se per la destinazione dell’area o perle sue condizioni oggettive, l’amministrazione era tenuta alla sua manutenzione” (Cass. civ. n.3216), poiché se la strada è adibita alla circolazione pubblica, pertanto l’amministrazione comunale ha comunque l’obbligo di provvedere alla sua manutenzione (Cass. civ., 11 novembre 2011, n. 23562).
Sempre la Sentenza n. 3216/2017 ribadisce che “il Comune che consenta, per il pubblico transito, di passare su di un’area di proprietà privata, assume l’obbligo di verificare che la manutenzione dell’area e dei relativi manufatti sia eseguita e, conseguentemente, di provvedervi. Dunque, sorge in capo alla P.A. territoriale, benché non proprietaria della res, un dovere di sorveglianza, che costituisce un obbligo primario della P.A., per il principio del neminem laedere, integrando gli estremi della colpa e determinando la responsabilità per il danno cagionato all’utente dell’area, non rilevando che l’obbligo della manutenzione debba necessariamente incombere sul proprietario dell’area medesima”.
Si ricordi, inoltre, che l’art. 14 Codice della Strada asserisce che il bene demaniale non presenti mai per l’utente una situazione di pericolo occulto e che la pubblica amministrazione abbia il compito di controllare l’efficienza delle strade, provvedere alla manutenzione e all’apposizione della segnaletica necessaria (art. 42 C.d.S.).
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Dott. Giuseppe Marco Antonio Stimoli
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