Responsabilità del primario. Cassazione, IV Sezione Penale, Sent. n. 18334/18

Responsabilità del primario. Cassazione, IV Sezione Penale, Sent. n. 18334/18

Pianto antico 

«L’albero a cui tendevi
 la pargoletta mano, 
il verde melograno
 da’ bei vermigli fior, 
nel muto orto solingo 
rinverdì tutto or ora
 e giugno lo ristora
 di luce e di calor.
 Tu fior della mia pianta 
percossa e inaridita, 
tu dell’inutil vita
 estremo unico fior,
 sei ne la terra fredda,
 sei ne la terra negra; 
né il sol più ti rallegra 
né ti risveglia amor».

Giosuè Carducci, Rime Nuove

La voce nuda è un sussulto del cuore. E’ un suono limpido, scandito dall’aria, che cresce forte.

A fronte del profluvio di sentenze sulla responsabilità medica, spesso tutte uguali, si avverte un senso di appiattimento, di insoddisfazione si ha quasi sempre l’impressione di girare attorno ai soliti principi di diritto senza riuscire a cogliere nel segno e a stabilire un collegamento fruttuoso.

La sentenza 18334/2018 della IV Sezione penale della Corte di Cassazione impone: “allorchè il medico apicale abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo e, ciononostante, si verifichi un evento infausto causato da un medico della propria struttura, di detto evento dovrà rispondere eventualmente unicamente il medico o i medici subordinati” .

Il tema oggetto di indagine non è quello della colpa medica nell’attività di equipe, in cui ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro risponde dell’evento illecito, non solo per non aver osservato le regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma altresì per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali al suo specifico intervento (Cfr. Cass., sez. 4, 11 ottobre 2007, n. 41317, Rv 237891).

Nel caso di specie deve, invece, più propriamente affrontarsi il tema della cooperazione colposa tra le condotte dei sanitari.

Trattandosi di più sanitari che hanno, in successione, visitato la piccola vittima, la fattispecie è da sussumersi, appunto, nell’ipotesi della cooperazione colposa, configurabile quando l’agente è consapevole del fatto che della salute di quel paziente altri medici si occuperanno o si sono occupati.

Viene quindi in rilievo, ribadisce la Suprema Corte, il cd. principio di affidamento, richiamato espressamente da parte dei ricorrenti e ricordato anche dalla sentenza impugnata.

Concentrati sulla stesura della motivazione della sentenza emessa dalla Corte di Appello, non condividendone il giudizio, i Giudici di Piazza Cavour aprono e chiudono i passaggi percorribili in funzione di parametri applicativi direttamente osservabili,  ribaltando un convincimento per affermare  che il cd. principio di affidamento comunque non è invocabile allorché l’altra condotta colposa abbia la sua origine nell’omesso rispetto di norme cautelari, specifiche o comuni, da parte di chi invoca tale principio.

Quando il soggetto su cui grava l’obbligo di garanzia abbia posto in essere una condotta colposa, con efficienza causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa di chi sia intervenuto successivamente, persiste la responsabilità del primo soggetto, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che tuttavia deve avere avuto caratteristiche di eccezionalità tali da far venir meno la situazione di pericolo originariamente provocata o tali da modificare la pregressa situazione, a tal punto da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata.

Ci sono segni inequivocabili che consentono di misurare i parametri da adottare.

In altri termini, per escludere la continuità delle posizioni di garanzia, è necessario che il garante sopravvenuto abbia posto nel nulla le situazioni di pericolo create dal predecessore, o eliminandole o modificandole in modo tale da non poter essere più attribuite al precedente garante. Tale impostazione non può comunque prescindere dalla verifica in concreto del nesso causale, tanto più che la stessa sentenza impugnata evidenzia in particolare la “spiccata complessità” della vicenda, sottolineata “dal fronteggiarsi delle opinioni più disparate da parte degli esperti”.

Ciò che si coglie in via immediata, in tema di responsabilità medica, è che è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o posticipato (Cass., Sez. 4, n. 43459 del 410-2012, Rv. 255008).

I magistrati della Suprema Corte riflettono, inoltre, su un chiarimento e una integrazione necessaria della posizione apparentemente rimasta nel cono d’ombra degli altri medici: la responsabilità del primario.

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Il caso. “ La Corte territoriale così procedeva alla ricostruzione degli eventi : la sera del 12 febbraio 2007 a seguito di vomito incoercibile i genitori portano il bambino al Pronto Soccorso pediatrico del Policlinico di Messina dove viene visitato dalla dott.ssa V., la quale riscontra una rinofaringite consigliando soltanto lavaggi nasali, aerosol e soluzione idratante.

Da ciò l’imputazione anche nei confronti della stessa assolta dal Tribunale e per la quale la parte civile ha proposto appello.

Durante la giornata del 13 febbraio il vomito persiste, con uno stato soporoso e alle prime ore del mattino del 14 febbraio in via d’urgenza, il bambino viene nuovamente portato al Policlinico e ricoverato presso il Reparto di Pediatria con la valutazione di “vomito incoercibile, calo ponderale ed astenia”. Il calo ponderale è consistente, la cute è pallida, la fontanella anteriore depressa, vi è dolore addominale persistente con meteorismo intestinale ed alveo chiuso dal 12 febbraio.

Cuore del primo rilievo mosso ai sanitari del reparto di Pediatria che si succedono da quel momento nella cura del paziente (C.G., L. C., LA M. A. C. R.) e del primario D. L. F. è costituito dalla circostanza pacifica che solo alle ore 10 del 15 febbraio, trenta ore dopo il ricovero, si procedeva ad una ecografia addominale che rivelava un quadro di grave sofferenza con “liquido libero in tutti gli ambiti addominali e marcata dilatazione delle anse intestinali” che faceva immediatamente pensare ad una occlusione da probabile invaginazione. Strumento primo di verifica era il clisma opaco eseguito subito dopo che accertava l’arresto del transito al livello del terzo prossimale del colon discendente con diagnosi di probabile invaginazione colo-colica alla fessura splenica.

Una consulenza chirurgico – pediatrica veniva quindi effettuata il 15 febbraio alle ore 11,45: il chirurgo pediatra (T., assolto dal Tribunale per il quale non vi è impugnazione) confermava la diagnosi e decideva di effettuare un altro clisma opaco, inserendo una sonda rettale tra sigma e discendente per risolvere l’invaginazione con introduzione retrograda di mezzo di contrasto e soluzione fisiologica; tale secondo clisma opaco, che confermava la presenza di invaginazione a partire dal colon discendente (flessura splenica), non riusciva a “deinvaginare” e il piccolo F. veniva quindi trasferito (alle ore 14 del 15 febbraio presso l’ U.O.C. di Chirurgia Pediatrica Neonatale ove veniva sottoposto ad intervento chirurgico. All’esame obiettivo il piccolo F. presentava condizioni generali scadute, cute pallida, sensorio soporoso, addome globoso, cicatrice ombelicale estroflessa, evidenti reticoli venosi Superficiali vivo dolore alla palpazione su tutti i quadranti dell’addome e ipertimpanismo alla percussione. L’intervento durava due ore (laparotomia pararettale destra allargata): all’apertura del peritoneo veniva descritto abbondante liquido libero di natura enterica – ileale (circa 200 ml) che veniva aspirato, nonchè dilatazione delle anse intestinali, sicché veniva effettuata enterotomia decompressiva sul terzo distale dell’ileo ( in sostanza una incisione per decomprimere le anse dilatate); il colon veniva esplorato in senso anterogrado fino a raggiungere l’invaginazione alla flessura splenica, descritta come una retrograda del colon discendente nel colon trasverso; veniva quindi per un tratto significativo di circa 5 cm risolta manualmente; la parte del colon invaginata conteneva anche omento e si rilevavano due linfonodi ingrossati; l’omento invaginato veniva rimosso e veniva revisionata la cavità peritoneale. Dato rilevante è che, nell’occasione, non venivano descritte dai chirurghi operatori perforazioni a nessun livello dell’intestino. Inoltre non venivano lasciati drenaggi in cavità peritoneale.

Dopo l’intervento il piccolo F. veniva trasferito presso l’unità di Terapia Intensiva Neonatale UTIN. Da quel momento in poi le condizioni generali del bambino non miglioravano, anzi si aggravavano a tal punto che in data 17 febbraio si faceva ancora più evidente la distensione addominale: dapprima una radiografa del torace poneva il sospetto di pneumotorace sinistro, poi una TAC eseguita alle ore 7,40 evidenziava una ernia diaframmatica addirittura con presenza di visceri in torace sinistro.

Seguiva di nuovo la corsa in sala operatoria, ove un secondo intervento chirurgico (iniziato alle ore 11,30 e terminato alle ore 13,30 del 17 febbraio) portava ad una riapertura della precedente ferita chirurgica ed una esteriorizzazione delle anse intestinali ; veniva quindi raggiunto il diaframma di sinistra e rinvenuta una breccia postero- laterale di 4 cm di diametro nell’ emidiaframma sinistro, attraverso la quale lo stomaco era risalito in torace; i chirurghi operatori procedevano quindi al riposizionamento in addome dello stomaco ed alla sutura diretta di chiusura della breccia, alla – revisione delle anse intestinali ed alla sutura di una piccola perforazione nel tratto colico precedentemente invaginato.

Ritrasferito nel reparto di terapia intensiva le condizioni restavano gravissime e sopravveniva un arresto cardiaco, poi momentaneamente superato, la necessità di un drenaggio prima pleurico, poi addominale e la progressiva compromissione della funzione renale finché in data 22 febbraio il decesso con causa mortis per “peritonite, CID, acidosi respiratoria e metabolica, shock settico.

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La sentenza impugnata, premesso che l’invaginazione rappresenta una delle cause più frequenti di addome acuto nella prima infanzia e che in caso di diagnosi precoce si può ridurre l’invaginato con metodiche non cruente, nonché il ritardo con cui era stata effettuata la diagnosi, richiamava la giurisprudenza della Suprema Corte in tema di colpa medica nell’attività di equipe, ritenendo, quanto ai sanitari nei cui confronti era confermata l’affermazione di penale responsabilità, che agli stessi era imputabile il ritardo nei tempi dell’intervento dovuto alla mancata esecuzione dell’indagine ecografica.

Quanto alla posizione del primario D. L., dopo aver respinto l’eccezione di difetto di correlazione tra accusa e sentenza in ordine al variare dei profili di colpa considerati dal giudice di I grado in sentenza, la Corte territoriale riteneva che allo stesso fosse addebitabile la mancata verifica dell’appropriatezza della diagnosi e delle terapie, condotta cui era tenuto per la sua posizione apicale e direttiva.

Si precisava in sentenza  che i possibili profili di colpa in cui il medico in posizione apicale può incorrere sono quindi di vario genere, ma riconducibili a due macrocategorie: 1) la c.d. culpa in eligendo; 2) la c.d. culpa in vigilando.

In caso di evento infausto, dovuto alla condotta colposa del medico affidatario, secondo i Giudici della Corte di Appello, incorrerà in responsabilità anche il medico in posizione apicale, avendo concausato colposamente l’evento infausto attraverso l’inadeguata divisione del lavoro (culpa in eligendo) con la violazione di regole prudenziali che operano in un momento precedente all’inizio dell’attività pericolosa, nel senso che orientano la scelta del soggetto al quale è possibile affidare lo svolgimento» di una determinata attività. Ove, invece, viene violata la regola di diligenza volta a disciplinare la condotta altrui, si ha un’ipotesi di culpa in vigilando.

La sentenza impugnata, a riguardo, sembra quasi concepire una sorta di responsabilità «di gruppo», nel senso che l’esito infausto derivante dal trattamento medico-chirurgico non conforme alle leges artis, dovrebbe essere ascritto all’intero gruppo di sanitari che ha in concreto agito.

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Chiari gli interventi correttivi della Suprema Corte che impongono la riformulazione dei concetti espressi nella motivazione impugnata.

Si sottolinea: “La stessa Corte territoriale sul punto sottolinea, in generale, come il primario non abbia l’obbligo di dover valutare tutti i casi che entrano in reparto, a meno che non gli venga segnalata la portata anomala di qualcuno di essi ed in particolare come egli non abbia mai visitato il bambino né sia stato coinvolto nella gestione del caso dagli altri medici. Tuttavia egli sarebbe comunque responsabile, sostanzialmente, per essere venuto meno agli obblighi di vigilanza connessi alla sua posizione”.

L’irruzione della sentenza di legittimità rompe sul punto la sequenza del pensiero della Corte territoriale che perde così il contatto con il tracciato segnato in motivazione.

Dalla stretta di emozioni, tra lo smarrimento degli interventi consumati nei reparti,   la Suprema Corte sceglie un’unica risposta osservando quanto segue.

Nella specie la culpa in eligendo è comunque estranea al thema decidendum, essendo appunto stata addebitata al primario la violazione dell’obbligo di vigilanza.

Deve quindi escludersi che il medico di vertice abbia effettivamente in carico la cura di tutti i malati ricoverati nel proprio reparto.

L’organizzazione del lavoro attraverso l’assegnazione dei pazienti (anche) ad altri medici assolve ad una funzione di razionalizzazione dell’erogazione del servizio sanitario: con lo strumento dell’assegnazione, il primario suddivide con precisione ruoli e competenze all’interno del reparto.

Il che, peraltro, risponde anche ad esigenze di carattere prettamente cautelare, essendo dei tutto evidente che il singolo paziente potrà ricevere cure più efficaci ed efficienti se ha a disposizione medici specificamente incaricati di seguirne il decorso patologico e diagnostico- terapeutico.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte il medico in posizione apicale con l’assegnazione dei pazienti opera una vera e propria «delega di funzioni impeditive dell’evento» in capo al medico in posizione subalterna[1].

Ovviamente anche attraverso detta delega il medico apicale “delegante” non si libera completamente della propria originaria posizione di garanzia, conservando una posizione di vigilanza, indirizzo e controllo sull’operato dei delegati. Obbligo di garanzia che si traduce, in definitiva, nella verifica del corretto espletamento delle funzioni delegate e nella facoltà di esercitare il residuale potere di avocazione alla propria diretta responsabilità di uno specifico caso clinico. l’obbligo di verificare il corretto espletamento dell’incarico pur delegato a persona competente.

Proprio in questo genere di ipotesi si innesta il limite all’operatività del principio di affidamento.

Chi abbia istituzionalmente un obbligo di controllo dell’altrui operato non potrebbe confidare nella sua correttezza, assurgendo questa proprio ad oggetto della propria vigilanza. Inteso in termini, il dovere di controllo segna un limite apparentemente invalicabile all’applicazione del principio di affidamento. Questo principio esclude di regola la configurabilità di obblighi di diligenza aventi ad oggetto la condotta altrui; e non dovrebbe, logicamente, operare nei casi in cui i doveri cautelari incombenti sul soggetto considerato contemplino proprio la vigilanza sulla correttezza del comportamento di coloro con cui si trovi a cooperare.

Il problema che si pone in questi casi consiste nel comprendere se la presenza di obblighi di controllo sull’operato altrui escluda completamente la possibilità di fare affidamento sulla altrui diligenza, con conseguente configurabilità di una cooperazione colposa in caso di evento infausto derivante dall’altrui condotta inosservante non percepita né emendata. Tuttavia ipotizzare un obbligo di controllo tanto pervasivo da non consentire alcun margine di affidamento sulla correttezza dell’operato altrui significa esporre a responsabilità penale il medico in posizione apicale per ogni evento lesivo possa occorrere nel reparto affidato alla sua direzione ciò, a prescindere da fattori quali le dimensioni della struttura, il numero di pazienti ricoverati, l’assegnazione degli stessi a medici di livello funzionale inferiore ma comunque dotati per legge di un’autonomia professionale il cui rispetto è imposto alla stessa figura apicale.

Pertanto, deve ritenersi che allorchè il medico apicale abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo e, ciononostante, si verifichi un evento infausto causato da un medico della propria struttura, di detto evento debba rispondere eventualmente unicamente il medico o i medici subordinati. Ravvisare infatti una responsabilità penale del medico in posizione apicale anche in questi casi significa accettare una ipotesi di responsabilità per posizione, in quanto non può pretendersi che il vertice di un reparto possa controllare costantemente tutte le attività che ivi vengono svolte, anche per la ragione, del tutto ovvia, che anch’egli svolge attività tecnico- professionale.

In tal caso, appare evidente il rischio di contrasto col principio di responsabilità penale personale, ex art. 27, comma I Cost. Nel caso in esame dalle stesse indicazioni contenute nella sentenza impugnata emerge che i fatti si svolsero in un ambito temporale ristretto, che il D. L. non ebbe modo di visitare direttamente il paziente, che nulla a riguardo gli fu segnalato dai medici della struttura. La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio nei confronti dei D.L. per non aver commesso il fatto”.

Ricomposto   il citato  disorientamento,  la Cassazione si adopera così per fare in modo che l’ argomentare dei Giudici territoriali non si smarrisca perdendo il filo logico nei punti in cui la sentenza impugnata, a riguardo, sembra, quasi concepire una sorta di responsabilità «di gruppo».Questa impostazione, precisa la Cassazione, sconta la sua matrice prettamente civilistica, permettendo al danneggiato di avere comunque un referente sotto il profilo della domanda risarcitoria,   ma appare improponibile nel momento in cui venga calata in una prospettiva penalistica, ponendosi in frontale contrasto col principio di personalità della responsabilità penale scolpito a chiare lettere nel primo comma dell’art. 27 Cost.

Ipotizzare una responsabilità di gruppo, della struttura in cui l’intervento medico è avvenuto equivale ad introdurre nel nostro ordinamento forme di responsabilità per fatto altrui – e quindi di responsabilità oggettiva – nella misura in cui il soggetto osservante le misure cautelati che caratterizzano il suo ruolo nell’ambito della struttura sanitaria in cui ha operato sia chiamato a rispondere per un fatto colposo riconducibile alla sfera di responsabilità altrui.


[1] Cass. Sez. IV, 28 giugno 2007, n. 39609, Rv. 237832, in cui si legge che gli obblighi di garanzia connessi all’esercizio della organizzazione ospedaliera consentono al medico in posizione apicale di trasferire al medico subordinato funzioni mediche di alta specializzazione o la direzione di intere strutture semplici (con riferimento al medico in posizione intermedia) oppure la cura di singoli pazienti ricoverati nella struttura (con riferimento al medico in posizione iniziale).


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