Responsabilità dirigenziale nell’ambito del benessere organizzativo
Abstract: si delineano le fattispecie che minano il clima interno degli Enti, evidenziando le competenze e le responsabilità dirigenziali.
Il D.Lgs. 165/2001 all’art. 7 comma 1, rubricato “Gestione delle risorse umane”, dispone espressamente che le pubbliche amministrazioni garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne e l’assenza di ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, nella formazione professionale, nelle promozioni e nella sicurezza sul lavoro, garantendo un ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo e impegnandosi a rilevare, contrastare ed eliminare ogni forma di violenza morale o psichica al proprio interno. I principali attori degli adempimenti indicati sono i Dirigenti, i quali sono dotati dei poteri direttivi e organizzativi e delle connesse responsabilità per l’organizzazione degli uffici, l’ottimale distribuzione delle risorse per il perseguimento degli obiettivi assegnati, garantendo un clima interno improntato alla collaborazione e alla fiducia in funzione dell’efficienza e dell’efficacia dell’attività amministrativa; tali principi sono stati ribaditi anche dal D.P.R. 62/2013 Codice di comportamento nazionale dei dipendenti pubblici, che all’art. 13 comma 5 prescrive che “Il dirigente cura, compatibilmente con le risorse disponibili, il benessere organizzativo nella struttura a cui è preposto, favorendo l’instaurarsi di rapporti cordiali e rispettosi tra i collaboratori, assume iniziative finalizzate alla circolazione delle informazioni, alla formazione e all’aggiornamento del personale, all’inclusione e alla valorizzazione delle differenze di genere, di età e di condizioni personali”.
Posta in luce, pertanto, l’attenzione che le norme riservano alla tutela psico – fisica dei lavoratori, diritto fondamentale di rilievo costituzionale, non si può non dare conto del ricorrere di due tipologie di problematiche che si manifestano nei luoghi di lavoro: il mobbing (che ingloba le molestie morali sul lavoro, e si manifesta attraverso comportamenti ripetitivi e vessatori che mirano a isolare e danneggiare psicologicamente il lavoratore) e lo straining (forma attenuata di mobbing, consistente nella creazione, anche solo per mera negligenza del datore di lavoro, di un ambiente di lavoro che genera stress, e quindi un danno alla salute del lavoratore dipendente imputabile al superiore gerarchico, ovvero di comportamenti in sé non illegittimi ma tali da poter generare disagi e/o stress, isolati o collegati ad altri comportamenti inadempienti, che incidono sulla salute del lavoratore).
Data la rilevanza che tale tipologia di problematiche assume, la giurisprudenza è stata investita di ricorsi in merito, dettando principi chiari.
La Corte di Cassazione Sezione Lavoro se ne occupa nell’Ordinanza del 12 febbraio 2024 n. 3822, nel ricorso intentato contro il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dalla ricorrente che impugna la sentenza, con la quale la Corte d’Appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado del Tribunale di Monza, rigetta la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni da lei subiti a causa di comportamenti vessatori posti in essere nei suoi confronti da personale del MIUR durante il periodo di servizio prestato quale assistente amministrativa. Il Tribunale di Monza aveva ravvisato gli estremi di un’ipotesi di mobbing verticale e riconosciuto alla ricorrente il diritto al risarcimento dei danni alla salute e non patrimoniali diversi dal biologico, liquidati in complessivi € 16.000,00; la Corte d’Appello, invece, aveva sconfessato che vi fossero “elementi in base ai quali ritenere la sussistenza di singole condotte vessatorie…, né tantomeno per ritenere di essere in presenza di un’ipotesi di mobbing“.
Il ricorso per Cassazione viene articolato in tre motivi, ma peculiarmente la ricorrente ravvisa nella motivazione della sentenza impugnata “una incomprensibile atomizzazione degli eventi“, invocandone una rivalutazione nel loro significato complessivo. La Cassazione ritiene il ricorso fondato, perché nella sentenza si riscontra una valutazione meramente atomistica dei singoli comportamenti indicati dalla ricorrente come rivelatori del mobbing, mancando una valutazione complessiva del quadro risultante dall’insieme di quei comportamenti e risultando escluso un esame sulla condotta tenuta dal datore di lavoro, il quale, pur risultando non avere tenuto un impugnata comportamento attivo integrante il mobbing, potrebbe essere imputabile per responsabilità da inadempimento inattivo dell’obbligo di “adottare … tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale” della lavoratrice. Il giudice di primo grado ha ravvisato gli estremi per ritenere integrato il mobbing: il trasferimento all’ufficio archivi al rientro da un periodo di malattia; le condizioni fatiscenti dell’archivio; la rimozione della porta e delle veneziane dalle finestre dell’archivio; l’assegnazione a mansioni differenti e “piuttosto elementari e ripetitive”; le modalità di controllo dell’orario lavorativo; il diffuso modo di fare aggressivo e denigratorio della dirigente scolastica e della dirigente dei servizi generali e amministrativi. A tale elenco segue poi un esame analitico di ogni singolo comportamento, che tende ad escludere una illiceità individuale, ma manca la necessaria valutazione complessiva al fine di trarne un giudizio motivato sulla prospettata finalizzazione, sistematica e protratta nel tempo, alla persecuzione e all’isolamento della lavoratrice. L’illegittimità dei comportamenti non è nemmeno del tutto esclusa, ma soltanto minimizzata, evidenziando la breve durata della prestazione lavorativa resa in un ambiente inadeguato, i modi bruschi percepiti come atteggiamenti aggressivi a causa della particolare emotività. La Suprema Corte ribadisce che, nell’accertamento del mobbing, “l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto…; a tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata” (Cass. n. 26684/2017). Come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l’intento vessatorio. Il giudice del merito non può escludere la sussistenza del mobbing con enunciati meramente assertivi, pervenendo a conclusioni disancorate dalle risultanze istruttorie costituite dalle prove dichiarative e dalla consulenza medico – legale acquisite in primo grado, con motivazione meramente figurativa e apparente (Cass. n. 16247/2018); egli può e deve apprezzare in modo critico le valutazioni del c.t.u. e può anche disattenderne motivatamente le conclusioni (solitamente sulla scorta di osservazioni di un c.t.p., ritenute più convincenti), ma non può prescindere totalmente dall’esame della consulenza e affidarsi a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche. Anche nel caso in cui dovesse essere non confermato il ricorrere del mobbing, occorre valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute della ricorrente. Infatti, “è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori…, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 cod. civiltà“. (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016). La Cassazione, pertanto, ritiene il ricorso fondato, cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, per decidere, attenendosi al seguente principio di diritto: “ai fini dell’accertamento dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve procedere alla valutazione complessiva, e non meramente atomistica, dei fatti allegati a sostegno della domanda, al fine di verificare la sussistenza sia dell’elemento oggettivo (pluralità continuata di comportamenti dannosi), che dell’elemento soggettivo (intendimento persecutorio nei confronti della vittima); in caso di accertata insussistenza del mobbing, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; Nell’apprezzare la sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro, il giudice non può prescindere da un esame critico delle risultanze della svolta C.T.U. MEDICO LEGALE per affidarsi esclusivamente a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche“.
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’Ordinanza del 4 gennaio 2025, n. 123 si occupa della diversa fattispecie dello straining, quale illecito che legittimi la pretesa risarcitoria ex art. 2097 c.c., a nulla rilevando l’assenza del disegno persecutorio unitario e delle condotte lesive caratteri questi ultimi che sono riconducibili al mobbing.
Con sentenza del 03/12/2019 la Corte d’Appello di Trento sezione distaccata di Bolzano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha accertato che la ricorrente aveva subito un danno pari ad € 12.523,00, ma ha rigettato le domande relative ad accertamento della illegittimità della procedura di individuazione degli obiettivi ai fini del riconoscimento dell’indennità di risultato dirigenziale per gli anni 2013 e 2014 e ha confermato la sentenza di primo grado quanto alla domanda volta ad accertare il mobbing lavorativo asseritamente subito dall’avvocatessa. La Corte ha rilevato che sin dagli anni 2008 e 2009 il Direttore Generale della Asl aveva l’intenzione di attuare un progetto di riorganizzazione della sede amministrativa centrale dell’ente che avrebbe comportato la eliminazione dell’ufficio legale diretto dall’avvocatessa ricorrente e la trasformazione in avvocatura non dirigenziale in staff alla direzione generale; erano seguite controversie con l’avvocatessa, sfociate anche in denunce alla procura della Repubblica. La Corte di Appello ha condiviso la valutazione del giudice di prime cure, secondo la quale la scelta organizzativa non era irragionevole, non era mossa da intento persecutorio ma era coerente e derivante da vari motivi di varia natura, non solo economico finanziari, volti alla soppressione dell’ufficio legale; la Corte ha ritenuto però che la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio avrebbe imposto al datore di lavoro di adottare misure opportune per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, non escluso il ricorso al potere disciplinare. Secondo la sentenza, l’Amministrazione può essere responsabile di strained quale forma attenuata di mobbing per comportamenti stressogeni, e ciò anche se manca la pluralità di azioni vessatorie, ma si producono effetti dannosi rispetto all’interessato. La Corte ha ravvisato che la condotta del Direttore Generale sia stata connotata da “azioni di disturbo da compiere in via immediata”, con iniziative provocatorie in replica a quelle altrettanto provocatorie della lavoratrice, anziché dalla ricerca di ristabilire l’ordine; ha, altresì, riconosciuto che talune richieste del Direttore fossero pretestuose e sorrette dalla volontà di far sentire sotto pressione e sotto controllo l’avvocatessa, imponendole un inutile sovraccarico di lavoro. La Corte ha, tuttavia, escluso che la valutazione di professionalità della ricorrente fosse stata viziata, ritenendo assenti nella valutazione illogicità macroscopiche rispetto ai parametri di riferimento, con conseguente esclusione di sindacato giurisdizionale; la Corte ha altresì escluso l’evidenza di situazioni di estromissione dell’avvocatessa dalla trattazione degli affari dell’ufficio legale e dalla partecipazione alle riunioni di coordinamento, smentendo il preteso svuotamento di mansioni; ha riconosciuto solo il 5% di danno biologico da straining e riconosciuto solo parzialmente l’inabilità temporanea sofferta; ha escluso la prova del danno alla professionalità, non risultando un progressivo impoverimento della capacità professionale acquisita dalla dipendente.
La Suprema Corte conferma la sentenza impugnata che aveva ritenuto ricorrere una situazione stressogena, in relazione a tutti i fatti specificamente ed analiticamente dettagliati, richiamando il proprio orientamento (Sez. L -, Ordinanza n. 3692 del 07/02/2023), secondo il quale, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing” per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi; sulla scorte di più recenti pronunce (Cass. n. 15957 del 07/06/2024; Cass. n. 3822 del 12/02/2024; n. 4664 del 21/02/2024) ricorda che un ambiente lavorativo stressogeno è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c., a protezione dei lavoratori in ogni caso, e in particolare verso quelli più deboli, sicché la maggiore fragilità del lavoratore incrementa e non attenua gli obblighi datoriali di protezione da fattori morbigeni o stressogeni dell’ambiente lavorativo.
Sulla stessa linea si pone la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza dell’11 dicembre 2024, n. 31912, laddove richiama “l’orientamento di recente invalso nella giurisprudenza di questa Corte, che attribuisce valenza meramente sociologica alle nozioni di mobbing e di straining sancendone lo loro irrilevanza ai fini giuridici in relazione ai quali ciò che conta è il configurarsi di una condotta datoriale che si riveli illegittima, anche soltanto a titolo di colpa, in quanto atta a consentire il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, in contrasto con l’art. 2087 c.c., inteso quale obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato, derivandone la necessità di porre attenzione a tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi ma tali da poter indurre disagio o stress che si manifestano isolatamente o invece si connettono ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprire gli effetti e la gravità del pregiudizio (cfr. Cass. 7.2.2023 n. 3692)”.
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Ornella Rossi
Segretario Comunale in Toscana, OIV presso Enti Locali e ASL, privacy officer, interessata alla formazione in ogni settore degli Enti Locali