Responsabilità medica e azione di rivalsa della struttura sanitaria
Il medico è, anzitutto, un professionista che a mette al servizio dei pazienti le proprie competenze, con l’obiettivo di migliorarne la salute. L’attività del medico ha dunque un ruolo fondamentale nell’assicurare l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, nell’interesse del singolo e della collettività.
È noto che la professione medica può essere esercitata sia privatamente che all’interno di una struttura sanitaria, pubblica o privata. Nel primo caso sarà il paziente stesso a rivolgersi al medico, mentre, nel secondo, il paziente si rivolgerà ad una struttura, che lo affiderà a uno o più professionisti. Si pensi a chi si sottopone a un ricovero presso un ospedale pubblico o una clinica privata.
Ebbene, i due casi sopra descritti presentano delle profonde differenze a livello di inquadramento giuridico e meritano di essere approfonditi e analizzati, soprattutto alla luce delle importanti modifiche legislative che sul tema si sono susseguite.
Il medico libero professionista
Il medico libero professionista, che opera privatamente, esercita una libera professione. In siffatti casi, è il paziente che si rivolge a lui, scegliendolo in base alla fiducia che ripone nella sua professionalità e trai due si instaura una vera e propria relazione contrattuale, basta sull’intuitu personae.
Chiaramente, data anche la peculiarità delle prestazioni oggetto del contratto e dei diritti in gioco, non si può parlare tout court di obbligazioni di risultato a carico del sanitario. Ciò anche a causa dell’obsolescenza della classica distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, importata dalla dottrina francese e non sempre idonea a inquadrare il contenuto delle obbligazioni nell’ambito delle professioni intellettuali. Professioni caratterizzate da un’alea nel raggiungimento del risultato richiesto dal creditore che non sempre dipende soltanto dal corretto adempimento del professionista.
Sul professionista grava anzitutto un obbligo di diligenza qualificata ex art. 1176 c.c., in forza del quale il medico è tenuto ad adempiere le proprie obbligazioni con la diligenza richiesta dalle peculiarità del caso e dagli standard professionali.
Al rapporto contrattuale tra medico libero professionista e paziente si applicano poi le regole generali in materia contrattuale. Creditore e debitore sono pertanto tenuti a cooperare nell’esecuzione del contratto e a comportarsi secondo buona fede. Ciò sia nella fase della stipula del contratto, in cui il sanitario dovrà edurre il paziente su tutte le peculiarità e modalità di intervento e del trattamento sanitario, sia nella fase dell’esecuzione contrattuale.
Anche in tema di contratto poi, alla luce dell’innovativa interpretazione che la Suprema Corte di Cassazione ha fatto dell’art. 1375 in combinato disposto con l’art. 2 Cost., la buona fede è senz’altro foriera di obbligazioni ulteriori rispetto a quelle strettamente dedotte e nominate nel contratto. Si tratta di quelle obbligazioni rese necessarie dalle peculiarità del caso concreto.
Ciò proprio in vista di un innovativo concetto del contratto, visto come “ottimo paretiano” nella composizione degli interessi tra creditore e debitore.
Con riguardo poi all’onere probatorio che grava sulle parti, devo osservarsi i principi generali ex art. 2697 c.c. in tema di contratto. Il creditore – paziente, pertanto, in caso presunto inadempimento da parte del medico, sarà tenuto ad allegarlo, mentre spetterà al medico provare di aver adempiuto correttamente e di aver impiegato la necessaria diligenza o che l’esito infausto si è verificato per causa a lui non imputabile.
Il medico dipendente di una struttura sanitaria
Con riguardo a questa seconda ipotesi, la fattispecie è quella che si configura quando il medico presta la propria attività professionale a servizio di una struttura ospedaliera, pubblica o privata.
In questo caso, la situazione giuridica che si instaura tra le parti è più complessa, poiché i soggetti coinvolti sono diversi, così come lo sono la natura dei loro rapporti.
Anzitutto, come è noto, si osserva che il rapporto contrattuale vero e proprio si instaura tra il paziente e la struttura sanitaria. Tale contratto atipico è noto come contratto di spedalità, il cui contenuto è complesso perché comprende sia la prestazione medica o chirurgica principale sia una serie di obblighi accessori, consistenti nella messa a disposizione del personale medico, ausiliario e infermieristico, dei medicinali e delle attrezzature tecniche necessarie e nelle prestazioni latu sensu alberghiere comprendenti il ricovero e la fornitura di alloggio, vitto e assistenza al paziente fino alla sua dimissione.
Al predetto rapporto tra paziente e struttura ospedaliera, si affianca il rapporto tra paziente e medico dipendente della struttura.
La giurisprudenza di legittimità, in passato, ancor prima dell’intervento del legislatore con il Decreto Balduzzi, ricostruiva la natura di tale rapporto, inquadrandolo nella categoria di vincolo contrattuale. In particolare, la fonte del rapporto tra medico e paziente, secondo la Suprema Corte di Cassazione, risiedeva non in un contratto in senso tecnico, bensì in un “contatto” (il celeberrimo “contatto sociale”), occasionato dall’accesso del paziente alla struttura ospedaliera.
Del resto, il nostro ordinamento, già prevede un sistema aperto delle fonti delle obbligazioni, specificando con l’art. 1173 c.c. che esse possono originarsi tanto dal contratto, quanto “da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento”.
Dunque anche un contatto sociale “qualificato”, intercorrente cioè fra soggetti determinati, per una ragione fondata e giuridicamente rilevante può essere fonte di obbligazioni, anche in una lettura di respiro costituzionale del sistema delle fonti e della buona fede oggettiva. A carico del medico sorgerebbero dunque dei cosiddetti “obblighi di protezione” nei confronti del paziente, originati dal contatto sociale e il cui contenuto va adattato al caso concreto, senza potersi prescindere dall’impiego di un alto grado di professionalità e delle leges artis.
L’affermarsi della teoria del contatto sociale ha determinato dunque l’inquadramento della responsabilità del medico dipendente di una struttura ospedaliera come responsabilità contrattuale, con tutto ciò che ne consegue in termini di onere della prova. Chiaramente i termini lunghi di prescrizione (10 anni) e il difficile onere probatorio a carico del medico, secondo alcuni hanno esposto i sanitari a un eccesso di responsabilizzazione e a un proliferare della medicina difensiva, al fine di evitare conseguenze pregiudizievoli.
Vi era dunque chi paventava una ricostruzione della responsabilità del medico dipendete diversa, ovvero come responsabilità da fatto illecito ex art 2043 c.c., essendo in fondo il medico un soggetto terzo rispetto ai contraenti paziente e struttura.
Il Decreto Balduzzi
Con il Decreto Legge n. 158 del 2012 (“Decreto Balduzzi”), convertito con la Legge n. 189/2912, si era fatto un primo timido tentativo di cambiare le cose, ma tra la versione in decreto e quella della legge di conversione sono state fatte delle modifiche che non hanno agevolato né i sanitari, né gli interpreti.
Si fa riferimento all’art. 3, comma 1 del decreto, che, nella sua versione originaria stabiliva che “Fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.”.
Dopo la conversione con la Legge n. 189/2012, il predetto comma è stato sostituito con il seguente: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.”
La citata conversione ha creato non pochi problemi, soprattutto in tema di colpa medica penalmente rilevante.
Se l’intervento del legislatore mirava a qualificare la natura della responsabilità del medico in termini di responsabilità aquiliana, di certo il tenore della disciplina messa in atto non poteva consentire all’interprete di muoversi in quella direzione. Tanto è vero che l’unico modo per dare una lettura costituzionalmente orientata della norma è stato quello di considerare il riferimento all’art. 2043 c.c. come un refuso: “la novella dunque si limita a indicare una particolare evoluzione del diritto penale vivente, col fine di agevolare l’utile esercizio dell’arte medica, evitando il pericolo di pretestuose azioni penali, senza modificare tuttavia la materia della responsabilità civile che segue le sue regole consolidate, non solo per la responsabilità aquiliana del medico, ma anche per la cosiddetta responsabilità contrattuale del medio e della struttura sanitaria, da contatto sociale” (Cass. Civ. n. 4030/2013).
Da un punto di vista civilistico il problema maggiore creato dalla normativa era quello di comprendere il rilievo dell’applicazione delle linee guida e buone pratiche nell’ambito della responsabilità civile.
Seguendo la lettera del dettato normativo, se l’esercente la professione sanitaria si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, egli risponde civilmente sia per colpa lieve che per colpa grave, tuttavia, nella determinazione del danno risarcire al paziente, il giudice civile deve tenere conto del fatto che il sanitario si era attenuto alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla scienza medica. Dunque, il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche è causa di esclusione della responsabilità penale per colpa lieve ed è anche un criterio per modulare la responsabilità civile, determinando una situazione abbastanza anomala. Tradizionalmente, infatti, la colpa rileva sul piano civilistico ai fine dell’an debeatur e non del quantum, ossia rileva come elemento costitutivo della responsabilità e del diritto al risarcimento dei danni, non come criterio per determinare la somma risarcibile.
La legge Gelli-Bianco
Sicuramente meno oscura nella sua formulazione rispetto alla normativa precedente, la legge n. 24 del 2017 (Gelli-Bianco) ha apportato importanti modifiche al regime di responsabilità medica. Si segnala in particolare l’art. 7, che ha confermato la natura contrattuale della responsabilità della struttura ospedaliera, precisando che la stessa risponde ex artt. 1218 e 1228 c.c. anche delle condotte dolose o colpose degli esercenti professione sanitaria dei quali si avvale, anche se scelti dal paziente, ancorchè non dipendenti della struttura stessa.
La nuova legge ha poi ridisegnato il regime di responsabilità del medico dipendente della struttura o che presso la stessa svolge attività in regime di libera professione intramuraria o nell’ambito di attività di sperimentazione e ricerca clinica, stabilendo che la natura della stessa è aquiliana, ex art. 2043 c.c.. con tutto ciò che ne consegue in termini di prescrizione e onere della prova, sicuramente più oneroso in caso di responsabilità extracontrattuale.
La legge in commento ha così determinato uno scisma tra situazioni simili a cui si applicava tutta quella giurisprudenza in tema di “contatto sociale”. Sembra dunque essersi determinato un doppio canale tra il medico dipendente della struttura che oggi risponde ex art. 2043 c.c. e altre situazioni simili come l’insegnate dipendente della struttura scolastica per le autolesioni dell’alunno a cui, invece, si applica ancora il regime del contatto sociale.
Al di la delle critiche sollevate alla legge, di cui molti punti sono stati chiariti dalla Suprema Corte con gli approdi giurisprudenziali di San Martino 2019, è opportuno soffermarsi su un’importante aspetto, ovvero quello che riguarda la rivalsa della struttura sanitaria sul medico responsabile delle condotte colpose o dolose.
La Cassazione sull’azione di rivalsa della struttura sanitaria sul medico
Interessante appare la questione su cui si è di recente soffermata la Suprema Corte e che riguarda l’azione di rivalsa della struttura sanitaria sul medico. In particolare, posto che, come esplicitato dalla legge Gelli-Bianco, la struttura sanitaria risponde ex artt. 1218 e 1228 c.c. anche per gli ausiliari medici di cui si avvale, ci si è chiesti in che termini dovessero rispondere le due parti.
Il problema si pone anche perché il legislatore ha previsto all’art. 9 della predetta legge “un’azione di rivalsa” della struttura sull’esercente la professione sanitaria, specificando che essa può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave.
Ora, a fronte di più soggetti debitori, occorre inquadrare in maniera corretta il riparto della responsabilità gravante sugli stessi. Non sempre, infatti, il rapporto tra più debitori è quello della solidarietà. Si pensi al riguardo al regime di responsabilità degli ausiliari ex art. 1228 c.c. o dei padroni e committenti ex art. 2049 c.c.
La Suprema Corte si è occupata della questione con la sentenza n. 28987 del 11.11.2019. i giudici di legittimità hanno anzitutto chiarito la differenza tra azione di regresso e azione di rivalsa, concetti simili ma giuridicamente diversi.
Infatti, mentre l’azione di regresso presuppone la nascita di una obbligazione avente il medesimo titolo e che vi siano più coobbligati solidali ed uno di questi adempia per l’intero, l’azione di rivalsa riguarda il riparto della responsabilità da inadempimento imputata al debitore e al suo ausiliario, in via solidale.
Tradizionalmente si è fatta confusione tra il regime di responsabilità ex art. 1228 c.c. (responsabilità del debitore per il fatto dell’ausiliario) ed ex art. 2049 c.c. (responsabilità dei padroni e committenti).
Nel primo caso, si ha una responsabilità diretta per fatto proprio, seppur fondata su un elemento soggettivo dell’ausiliario (dolo o colpa). Nel secondo caso, si ha una responsabilità per fatto altrui, ricondotta oggettivamente a un determinato soggetto. Si tratta di due modelli diversi, in quanto nel caso del modello ex art 1228 c.c., il fatto che il debitore si serva di terzi ausiliari per l’adempimento della propria obbligazione rientra nel programma contrattuale tra le parti. Nel secondo, l’ordinamento giuridico, facendo un bilanciamento degli interessi in gioco, fa la scelta di attribuire ad un soggetto la responsabilità per il fatto di un altro per la relazione che intercorre tra i due. L’imprenditore datore di lavoro risponde per il fatto del suo dipendente a tutela del creditore.
Nell’ipotesi ex art. 2049 c.c. non si verifica il problema di ripartire il regime delle responsabilità a seconda del contribuito causale nella causazione del danno. Ciò poiché il padrone risponde del fatto di un altro, indipendentemente dall’aver o meno dato un apporto causale. Qui il padrone potrà agire in regresso e per l’intero.
Nel caso ex art. 1228 c.c., la responsabilità del debitore che si è servito dell’ausiliario è per fatto proprio e non per fatto altrui. Di conseguenza, anche il debitore ha concorso alla causazione del danno.
La Cassazione, al riguardo, ha precisato che l’unica lettura compatibile con il nostro ordinamento nel riparto delle responsabilità è ritenere che, nel caso di malpractice medica, struttura e medico condividano la responsabilità anche nel caso di colpa esclusiva di quest’ultimo.
Chiarito dunque che la struttura sanitaria risponde anche nel caso di colpa esclusiva del sanitario dipendente, il riparto delle diverse quote di responsabilità deve regolarsi secondo le disposizioni ex artt. 1298 e 2055 c.c.. La struttura potrà, pertanto, rivalersi nei confronti del sanitario nella misura dell’apporto causale dello stesso nella causazione dell’evento e non sempre per l’intero. Si noti che ciò vale anche nel caso in cui più persone, a diverso titolo, contrattuale e non, hanno concorso nel causare l’evento.
La struttura risponde per il fatto altrui ex art. 1228 c.c. poiché, servendosi dell’attività dei sanitari, si assume il rischio per i danni che possono derivare al creditore dalla loro attività.
Varrà comunque la presunzione prevista dall’art. 2055 c.c., per cui le responsabilità di struttura e medico si presumeranno uguali, salvo dimostrare il fatto contrario. La struttura sanitaria nell’azione di rivalsa, per far ottenerne l’integrale accoglimento, dovrà dunque dimostrare la colpa esclusiva del medico, iscritta in una condotta del tutto deviata dal programma contrattuale e dalla relazione tra struttura e sanitario.
In caso contrario, non sarà prevista una graduazione della colpa e la struttura dovrà rispondere per l’intero.
Diversamente opinando, se la struttura potesse sempre e comunque rivalersi per l’intero sul sanitario, questa, nell’avvalersi del suo operato, si accollerebbe un rischio minimo e il sanitario verrebbe esposto oltre modo a pretese risarcitorie abnormi, in contraddizione con lo spirito della stessa legge Gelli-Bianco, ovvero quello di tutelare gli esercenti la professione medica.
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Laura Bellanca
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