Responsabilità medica: presupposti, consenso informato e novità normative
Sotto il profilo penalistico, assume una certa rilevanza nell’ambito dell’attività medica il consenso informato, quale presupposto necessario di liceità.
Il consenso afferisce infatti alla libertà morale, costituzionalmente tutelata dall’art. 13 Cost.; come la giurisprudenza e la dottrina dominanti hanno osservato, non esiste in via generale un diritto-dovere del medico di curare a prescindere dalla volontà dell’individuo. Quali conseguenze possono attendersi, pertanto, nei casi in cui manchi in concreto il consenso del paziente? Occorre sul punto fare una distinzione.
Se la prestazione è stata eseguita a regola d’arte, l’assenza di consenso – ad esempio in un intervento chirurgico – non permetterebbe di configurare le lesioni ex art. 582 c.p. per il solo fatto dell’alterazione anatomica, in mancanza di una malattia intesa come processo patologico in grado di incidere sulla funzionalità dell’organismo della persona. In questo caso la carenza di consenso rileverà eventualmente sotto il profilo civilistico, purché si dimostri l’entità del danno concretamente subito.
In caso di esito infausto, parte della giurisprudenza ritiene non condivisibile l’orientamento che darebbe applicazione all’art. 584 o 582 c.p., sottolineando come la malattia costituirebbe un presupposto dell’intervento medico (e non una conseguenza) e mancherebbe l’intenzionalità delle lesioni. Parte della giurisprudenza ritiene pertanto preferibile il richiamo all’art. 610 c.p. (per quanto riguarda le pratiche terapeutiche), alle lesioni colpose (in caso di intervento chirurgico) e all’art. 589 c.p. (nei casi più gravi di morte del paziente).
Ciò nonostante non sono mancate pronunce anche recenti attraverso cui si è ritenuto applicabile l’art. 584 c.p., in particolare nei casi di interventi estetici o eseguiti ai fini della ricerca.
I Giudici hanno posto chiarezza sui requisiti scriminanti del consenso/dissenso, individuando dei parametri specifici. Esso deve essere espresso, personale, consapevole, reale e attuale. Peraltro, pur in presenza del consenso da parte del paziente – in caso di esito infausto -, il medico non sarebbe comunque esente da responsabilità, trovando comunque applicazione le norme penalistiche sopra richiamate.
Su questo aspetto, assumono un certo rilievo le cosiddette linee guida; si tratta di parametri che permettono di accertare nel caso concreto se la condotta del medico sia stata conforme al criterio di diligenza, avuto sempre riguardo alle caratteristiche peculiari del caso, che ben potrebbe richiedere al professionista di discostarsene per salvaguardare la salute del paziente – soprattutto nel caso in cui esse abbiano natura prettamente economica.
La Legge Balduzzi ha poi limitato la responsabilità penale medica ai casi di colpa grave e dolo. La riforma del 2012 ha quindi escluso la responsabilità penale per colpa lieve ( ipotesi in cui resterebbe operativa la sola responsabilità ex art. 2043 c.c.) in tutti quei casi in cui il medico si sia adeguato alle linee guida e alle buone pratiche accreditate, andando invece a creare problemi interpretativi nelle ipotesi in cui l’agente si sia discostato a giusta ragione. I Giudici della Cassazione nel 2013 hanno chiarito che l’art. 3 L. 189/2012 trova applicazione ai soli casi di imperizia, con esclusione dei casi di accertata negligenza e imprudenza, dove continuerebbero a trovare applicazione i criteri di sempre con conseguente responsabilità penale del medico.
L’emendamento attualmente oggetto di discussione abrogherebbe l’esclusione della responsabilità penale per colpa lieve e introdurrebbe l’art. 590 sexies c.p.. Suddetta norma prevederebbe una responsabilità colposa per morte e lesioni del paziente, con esclusione della responsabilità penale nei soli casi di imperizia, e troverebbe applicazione per il medico che si sia attenuto alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali (come nella disciplina previgente), purché esse risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
Sotto il profilo civilistico, ferma restando la responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero, dottrina e giurisprudenza hanno per molto tempo cercato di inquadrare sotto il profilo giuridico la responsabilità medica in tutte quelle ipotesi in cui il paziente sia venuto a contatto con il professionista in via indiretta, rivolgendosi in prima battuta ad una struttura pubblica o privata.
Secondo un orientamento più risalente, in caso di evento lesivo, la responsabilità del personale medico andrebbe inquadrata nella categoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.; i medici opererebbero alla stregua di organi dell’Ente ospedaliero, in quanto tenuti ad eseguire la prestazione. In qualità di dipendenti, ogni atto lesivo andrebbe quindi imputato sotto il profilo contrattuale all’Ente stesso ex art. 1228 c.c.
Le critiche mosse a detta impostazione vertevano principalmente sulla natura della responsabilità ex art. 2043 c.c.; nello specifico, il medico – in quanto preposto alla cura della persona, sulla base di un contratto di lavoro dipendente – non andrebbe equiparato ad un terzo qualunque e avrebbe titolo per interagire con la parte lesa. La norma non riuscirebbe comunque a coprire quelle ipotesi meramente non migliorative della salute, dovute ad un’errata prestazione. Si sottolineava anche la difficoltà del paziente (soggetto debole del rapporto) nel fronteggiare l’onere probatorio, stante anche il divario di conoscenze scientifiche, per cui – in conclusione – il riferimento all’art. 2043 c.c. risultava difficilmente applicabile alla fattispecie.
Un secondo orientamento inquadrava più facilmente la responsabilità medica nel tipo contrattuale, richiamando la fattispecie del contratto a favore di terzo o più di recente da “contatto sociale”; tale contatto genererebbe una serie di obblighi a carico del professionista, giustificabili alla luce del principio della buona fede. Si tratta di una posizione che ha incontrato un certo seguito in giurisprudenza e in dottrina.
Nuovi dubbi sono emersi con l’entrata in vigore della Legge Balduzzi, che all’art. 3 ha rinviato espressamente all’art. 2043 c.c. in tema di responsabilità civile del medico.
Nuovi emendamenti sono stati poi proposti ed approvati dal Senato nel mese di ottobre 2016. I punti salienti riguardano:
la previsione espressa della responsabilità da illecito ex art. 2043 c.c., che si applicherebbe tassativamente in tutti i casi di responsabilità dei medici e della struttura sanitaria, con la sola eccezione di quelli in cui sussista invece un’obbligazione contrattuale;
l’integrazione delle tabelle del danno biologico di lieve entità;
la proposta al Governo di valutare un termine di prescrizione quinquennale per il diritto al risarcimento del danno e di un anno di decadenza per l’esercizio dell’azione di responsabilità contrattuale avverso la struttura.
L’obbiettivo perseguito risulta abbastanza evidente: fronteggiare il fenomeno della medicina difensiva sia sotto il profilo penalistico che civilistico. Il riferimento all’art. 2043 c.c. sposterà l’onere probatorio sul paziente, il quale sarà chiamato a provare:
il fatto;
il danno;
il nesso di causalità;
l’imputabilità soggettiva.
Se invece continuasse a trovare seguito la tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale, una volta dimostrato il rapporto qualificato e allegato l’inadempimento, spetterebbe poi al medico dimostrare di aver adeguatamente adempiuto la prestazione o la non imputabilità dell’inadempimento, facendo riferimento alla cartella clinica e alle linee guida.
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