Responsabilità oggettiva per cattiva manutenzione delle strade: la P.A. è tenuta al risarcimento del danno
“La responsabilità ex art. 2051 c.c. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra il soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa, tale relazione non dispensa il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità” (Nel caso in esame veniva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno per responsabilità da cose in custodia in favore di un soggetto caduto rovinosamente a causa di una buca sul manto stradale molto sconnesso). Cassazione civile, sez. III, 29/07/2016, n. 15761
Alle origini del dibattito e l’orientamento della giurisprudenza fino al 2003.
L’art. 2051 c.c. delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva, profondamente diversa da quella dell’art. 2043. Chi ha cose in custodia, infatti, è responsabile del danno da esse provocato, salvo che provi il caso fortuito; non è richiesta alcuna culpa in custodiendo, né che la cosa abbia una sua pericolosità intrinseca.
Fino al 2003, la Cassazione aveva pacificamente stabilito che, in materia di circolazione stradale, in caso di danni causati da cattiva manutenzione delle strade, non si applicasse la severa regola dell’art. 2051 all’ Ente proprietario della strada. La rete stradale, infatti, era considerata di per sé troppo estesa per consentire un effettivo e costante controllo, ai sensi del 2051. Quindi, in caso di danno riportato da un utente a causa del cattivo stato della stessa, il danneggiato doveva dimostrare anche la condotta colposa dell’ente, ai sensi del 2043. In particolare, quale figura sintomatica di colpa, la giurisprudenza aveva individuato la figura dell’insidia e trabocchetto: stava, però, all’utente dimostrare che il difetto della strada si poteva considerare un’insidia. Alla luce di ciò non è arduo riscontrare in numerose sentenze del Giudice delle leggi la formula “Trattandosi di danni asseritamente cagionati dalla cattiva manutenzione di una strada, non può configurarsi una responsabilità della PA, per danno cagionato da cose in custodia (art. 2051) poiché l’estensione della rete stradale non consente di esercitare un controllo completo e continuo tale da dare origine alla custodia” (Trib. Milano, 29/09/1997). Siffatta impostazione fu avallata anche dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 156 del 1999 lasciando, questa, sottendere l’esistenza di una presunzione legale di impossibilità di controllare adeguatamente la rete stradale ed allentando, di fatto, non poco gli obblighi della PA, con il conseguente rischio di un livello di manutenzione perfino inferiore a quello esigibile, atteso che solo la configurazione di un’insidia poteva implicare l’applicazione dell’art. 2043. Il Codice della Strada, però, non prevede nè un trattamento così favorevole, ma anzi pone in capo all’ Ente proprietario della strada l’obbligo di mantenerla in buone condizioni, tali da non creare pericoli alla circolazione (art. 14 C.d.S.). Una tale impostazione giurisprudenziale fu inevitabilmente criticata dalla dottrina.
Il post 2003.
Nel gennaio 2003, con le pronunce della Cassazione 13 gennaio 2003, n. 298 e 15 gennaio 2003 n. 488 prendeva vita un completo revirement: entrambe le sentenze dichiaravano applicabile l’art. 2051 c.c. all’Amministrazione proprietaria della strada, rifiutando l’assioma secondo cui un controllo continuo ed efficace sarebbe aprioristicamente impossibile, imponendo che la condotta del custode fosse valutata caso per caso in base ad un’indagine concreta.
La presunzione di responsabilità
La giurisprudenza maggioritaria completò la svolta assumendo una posizione assai favorevole per il danneggiato, ben esemplificata da massime come questa: “la responsabilità prescinde dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento; la responsabilità prescinde, altresì, dall’accertamento della pericolosità della cosa e sussiste in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l’insorgenza di agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito, che può essere rappresentato – con effetto liberatorio totale o parziale – anche dal fatto del danneggiato, avente un’efficacia causale idonea a interrompere del tutto il nesso causale tra cosa ed evento dannoso o da affiancarsi come ulteriore contributo utile nella produzione del pregiudizio” (Cass. civ., 7 aprile 2010, n. 8229; Cass. civ., 19 febbraio 2008, n. 4279; Cass. civ., 5 dicembre 2008, n. 28811).
Si badi che la Cassazione accoglieva appieno la configurazione della responsabilità ex art. 2051 c.c. come responsabilità oggettiva, prescindendo, pertando, da qualunque valutazione della condotta del custode: “la responsabilità in questione non esige, per essere affermata, un’attività o una condotta colposa del custode, di talché, in definitiva, il custode negligente non risponde in modo diverso dal custode perito e prudente, se la cosa ha provocato danni a terzi” (Cass. civ., 19 febbraio 2008, n. 4279). Con la precisazione che la custodia della strada non è limitata alla sola carreggiata, ma si estende anche agli elementi accessori o pertinenze, sicchè anche la mancanza di un guard-rail o il cattivo stato della banchina possono generare responsabilità (Cass. civ., 12/05/2015, n. 9547).
Le prove liberatorie
Il caso fortuito
L’art. 2051 c.c. è molto chiaro: l’unica prova liberatoria è il caso fortuito, ossia un evento esterno che va ad incidere sul nesso causale, avente i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità; (Cass. civ., 7 luglio 2010, n. 16029; Cass. civ., 19 febbraio 2008, n. 4279; Cass. civ., 6 luglio 2006, n. 15384); viceversa, non ha alcun rilievo l’elemento psicologico dell’illecito (Cass. civ., 13 gennaio 2015, n. 295, Cass. civ., 22 febbraio 2012, n. 2562). La prova del fortuito spetta al custode: “resta a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione “iuris tantum” della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità” (Cass. civ., 13 luglio 2011, n. 15389; Cass. civ., 2 febbraio 2007, n. 2308).
La condotta imprudente del danneggiato
Il caso fortuito può anche essere integrato dal comportamento dello stesso danneggiato, che può configurare altresì un concorso causale colposo (valutabile ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c.). Ma le sentenze più rilevanti si sono concentrate sulla potenziale “scriminante” determinata dalla condotta del danneggiato, ed è stato ripetutamente affermato che “Anche se la responsabilità del custode di una strada per dissesti stradali integra un’ipotesi di responsabilità oggettiva che pone la dimostrazione del nesso eziologico tra la cosa in custodia e l’evento lesivo a carico del danneggiato e la prova dell’esistenza del caso fortuito a carico del custode, il nesso eziologico non può dirsi provato ove la cosa in custodia non mostri di possedere elementi particolari di lesività e l’evento dannoso risulti ascrivibile alla condotta negligente del danneggiato, posto che la nozione di caso fortuito va intesa in senso lato, quale fattore autonomo e imprevedibile che, interrompendo il nesso causale tra cosa e danno, libera il custode dalla responsabilità di cui all’art. 2051 c.c.” (Cass. civ., 4 ottobre 2013, n. 22684; Cass. civ., 14 giugno 2016, n. 12174; Cass. civ., 18 febbraio 2014, n. 3793). In un’ipotesi diversa, ma applicando gli stessi principi, il Tribunale di Bari, sentenza 12 dicembre 2013, ha affermato che non può essere invocata la responsabilità ex art. 2051 c.c. dell’Ente preposto alla custodia di un sito storico quando il visitatore riporta un infortunio dopo essersi inoltrato in una zona vietata, pericolosa e non illuminata.
A mitigare la responsabilità della pubblica amministrazione, rimane il criterio della oggettiva impossibilità della custodia, come statuito a suo tempo anche dalla Consulta; tale impossibilità, però, non è più presunta, come prima del 2003, ma va dimostrata caso per caso: “la configurabilità della possibilità in concreto della custodia deve essere indagata non soltanto con riguardo all’estensione della strada, ma anche alle sue caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che lo connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico appresta, in quanto tali caratteristiche acquistano rilievo condizionante anche delle aspettative degli utenti, rilevando ancora, quanto alle strade comunali, come figura sintomatica della possibilità del loro effettivo controllo, la circostanza che le stesse si trovino all’interno della perimetrazione del centro abitato” (Cass. civ., 28 settembre 2012, n. 16540).
Effettiva signoria di fatto sulla cosa
Rileva anche la prova dell’effettiva signoria di fatto sulla cosa: “La presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c. non si applica per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali qualora non sia possibile esercitare sul bene stesso la custodia intesa quale potere di fatto sulla cosa (nella specie, una strada forestale privata: Cass. civ., 8 aprile 2014, n. 8147), nonché l’effettiva possibilità del custode di intervenire per rimuovere una situazione di pericolo, obiettivamente inesigibile in determinati casi, e giustamente la Cassazione ha stabilito la necessità di distinguere tra “situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze dell’autostrada e quelle provocate dagli utenti o da una repentina ed imprevedibile alterazione dello stato della cosa in quanto, solo nella ricorrenza di queste ultime, potrà configurarsi il caso fortuito tutte le volte che l’evento dannoso si sia verificato prima che l’ente proprietario o gestore abbia potuto rimuovere, nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata al fine di garantire la tempestività dell’intervento, la straordinaria ed imprevedibile situazione di pericolo determinatasi” (Cass. civ., 24 febbraio 2011, n. 4495). Ad ogni buon conto, un principio che viene affermato oramai con chiarezza da tutte le sentenze in materia è che la valutazione di responsabilità non può mai compiersi in astratto, ma solo in relazione alle caratteristiche del caso concreto.
La sentenza in commento (Cassazione civile, sez. III, 29/07/2016, n. 15761)
La pronuncia tratta di un’ipotesi di responsabilità della P.A. per cose in custodia ex art. 2051c.c. In particolare, nel caso di specie, un soggetto adiva l’Autorità Giudiziaria Ordinaria per richiedere il risarcimento dei danni al Comune di Taranto provocati a seguito di una rovinosa caduta a causa di una buca presente in una strada pubblica. Sia in primo che in secondo grado l’Autorità Giudiziaria non riconosceva il diritto al risarcimento del danno a favore del danneggiato. Secondo la richiamata motivazione della Corte d’Appello la strada era molto sconnessa, addirittura con buche e rappezzi e, persino, un cartello che faceva divieto di transito ai mezzi pesanti per « rischio di crollo », tale per cui la condotta della parte danneggiata avrebbe interrotto il nesso causale tre la cosa e il danno. In particolare, rammenta la sentenza, l’indagine sulla responsabilità ex art. 2051 c.c., va adeguata alla natura della cosa ed alla sua pericolosità, e come afferma testualmente la sentenza, richiamando quella della Corte d’Appello: « nel senso che tanto meno essa è intrinsecamente pericolosa e quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo (costituente fattore esterno) nel dinamismo causale del danno, fino ad interrompere il nesso eziologico tra cosa e danno e ad escludere dunque la responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051 c.c. ». La sentenza della Corte d’Appello ribadisce che il danneggiato aveva la possibilità di verificare lo stato dei luoghi, essendo le sconnessioni ben evidenti. Con un unico motivo di ricorso il danneggiato contestava la suddetta ricostruzione della sentenza della Corte d’Appello in particolare affermando che la responsabilità prevista dall’art. 2051c.c. ha natura oggettiva e necessita, per la sua configurabilità, unicamente l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e il danno ed in particolare il danneggiato sarebbe onerato di provare il rapporto tra la cosa e il suo « custode », in questo caso il Comune di Taranto, per le caratteristiche intrinseche della stessa; nonché il comportamento del danneggiato non può inserirsi nel suddetto rapporto causale recidendolo. La sentenza della Corte di cassazione accoglie il motivo di ricorso e precisa quanto affermato in massima, indicando che, con specifico riferimento alla responsabilità degli enti pubblici in relazione a sinistri relativi all’assetto della sede stradale, la giurisprudenza ha affermato alcuni importanti principi. In particolare: (i) sussiste un obbligo generale di adottare, nonostante la discrezionalità della P.A., misure atte a scongiurare situazioni di obiettivo pericolo; (ii) per le strade aperte al traffico, è configurabile la responsabilità ex art. 2051 c.c., dell’ente pubblico proprietario, una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia della strada stessa, salvo che quest’ultimo non dimostri di non avere potuto far nulla per evitare il danno; (iii) infine, l’ente proprietario supera la presunzione di colpa quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest’ultima — al pari della eventuale colpa esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al verificarsi del fatto — integra il caso fortuito previsto dall’art. 2051 c.c., quale scriminante della responsabilità del custode. La sentenza quindi afferma che per gli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è in linea generale applicabile l’art. 2051 c.c., in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione (ex multis, Cass. civ., 29 marzo 2007, n. 7763; Cass. civ., 2 febbraio 2007, n. 2308; Cass. civ., 3 aprile 2009, n. 8157). Relativamente alla condotta del danneggiato la sentenza prosegue sostenendo che il custode, in questo caso il Comune di Taranto, avrebbe dovuto provare che il fatto del terzo o del danneggiato abbia i requisiti dell’autonomia, dell’eccezionalità, dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità, che sia, dunque, idoneo a produrre l’evento, escludendo fattori causali concorrenti. (cfr. Cass. civ., 14 ottobre 2011, n. 21286). Il comportamento colposo del danneggiato non è idoneo da solo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno, costituita dalla cosa in custodia, ed il danno, esso può, tuttavia, integrare un concorso colposo ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante secondo l’incidenza della colpa del danneggiato (Cass. civ., 8 maggio 2008, n. 11227; Cass. civ., 6 luglio 2006, n. 15384). In particolare la sentenza in rassegna, dopo avere richiamato i principi della giurisprudenza che si era pronunciata in casi analoghi di responsabilità, ha ribadito che quanto meno la cosa è pericolosa e quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista, tanto più incidente deve ritenersi il comportamento della vittima (Cass. civ., 7 maggio 2007, n. 10300). Applicando tale principio al caso in esame, la sentenza evidenzia che la situazione della strada era suscettibile di creare più di un pericolo per il pedone mentre con riguardo all’incidenza causale del comportamento della vittima il fatto che una strada risulti « molto sconnessa, con altre buche e rappezzi » non costituisce, di per sé, un’esimente per l’ente pubblico, anche perché un comportamento disattento dell’utente non è astrattamente ascrivibile al novero dell’imprevedibile.
Insidie e trabocchetti
La disciplina dell’art. 2051 c.c., in alcuni casi, non è applicabile. Qualche esempio lo abbiamo già visto, ma il più noto è l’impossibilità (accertata in concreto) dell’effettiva custodia sul bene demaniale. L’ente pubblico, in tal caso, risponde dei danni subiti dall’utente secondo la regola generale dell’art. 2043 c.c. Per il danneggiato l’onere probatorio cambia significativamente: deve provare tutti gli elementi dell’illecito, sia soggettivi, che oggettivi. È vero che tale norma non limita affatto la responsabilità dell’ente alle sole ipotesi di esistenza di un pericolo occulto (c.d. insidia o trabocchetto), ma è anche vero che tali figure “sintomatiche” di colpa, frutto di una lunga elaborazione giurisprudenziale, ricorrono in quasi tutte le sentenze che applicano tale norma generale.
Ovviamente, anche in questo caso, alla PA tocca l’onere della prova di fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità per l’utente di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia, o l’impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (confr. Cass. 6 luglio 2006, n. 15383; Cass. civ. n. 15384/2006).
In conclusione si può affermare che, se l’art. 2051 c.c. configura, come ritengono dottrina e giurisprudenza dominanti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, tutti gli elementi soggettivi dovrebbero esserne esclusi, se non ai fini della prova liberatoria. Quindi insidie e trabocchetti andrebbero lasciati fuori dal 2051 c.c., trattandosi di concetti ben precisi, con una ben precisa funzione (dimostrare la colpa della P.A.), del tutto estranee all’ambito della responsabilità oggettiva.
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Stefania Giannico
Si laurea, nel 2012, in Giurisprudenza presso l'Università del Salento, con tesi in diritto costituzionale e nel 2014 consegue il diploma presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni legali "V. Aymone" discutendo una tesi in diritto penal - tributario sul tema della crisi dell'imprenditore con riferimento all'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto.
Svolge la pratica forense nella città di Lecce approfondendo il diritto civile e commerciale. Nel 2013, consegue l'abilitazione al Patrocinio legale e collabora con alcuni studi legali.
E' abilitata all'esercizio della professione di amministratore condominiale e per questo ne approfondisce gli aspetti strettamente giuridici.
Dal 2016 entra a far parte della Redazione di alcune riviste specializzate (Ratio legis e Diritto & Lavoro) ed attualmente è autrice di diverse pubblicazioni scientifiche tra le quali degno di nota è un compendio di diritto tributario in corso di pubblicazione (Primiceri Editore).
Nel corso del 2016 diviene Consulente legale interno di un Patronato/Caf occupandosi prevalentemente di diritto del lavoro, tributario, previdenziale nonchè civile e condominiale.
Nel giugno del 2017 è eletta alla carica di Consigliere comunale del Comune di Castellaneta (Ta) e nell'ottobre del medesimo anno consegue abilitazione all'esercizio della professione forense.