Responsabilità precontrattuale P.A. a seguito di revoca vincolata di contributi indebiti

Responsabilità precontrattuale P.A. a seguito di revoca vincolata di contributi indebiti

Sommario1. Fondamento del principio di responsabilità della Pubblica Amministrazione ed evoluzione del concetto nel tempo – 2. Ammissibilità della responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione – 3. Il presupposto civilistico: i doveri di correttezza e buona fede – 4. I presupposti della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: il legittimo affidamento – 5. Ulteriori presupposti necessari per la sussistenza della responsabilità precontrattuale della P.A.: danno, colpa e nesso di consequenzialità – 6. Il danno risarcibile: danno emergente e lucro cessante

La Pubblica Amministrazione, tenuta a revocare un contributo pubblico indebito, può rispondere per responsabilità precontrattuale ove abbia contribuito, con la propria condotta, ad ingenerare il legittimo affidamento del privato all’erogazione del contributo. È questo quanto ha recentemente stabilito la sezione seconda del Consiglio di Stato (Cons. di Stato, sez. II, 24/10/2019, n.7246) all’esito di un ricorso promosso dalla Regione Veneto contro la sentenza del TAR Veneto concernente la riduzione di contributi a imprese commerciali. Prima di esaminare lo specifico oggetto della controversia appare opportuno ricostruire sommariamente il fondamento giuridico della responsabilità della pubblica amministrazione con particolare riferimento alla responsabilità precontrattuale per violazione dei canoni di correttezza e buona fede ex art. 1337 c.c.

1. Fondamento del principio di responsabilità della Pubblica Amministrazione ed evoluzione del concetto nel tempo

Il principio di responsabilità della pubblica amministrazione rinviene il proprio fondamento nella Costituzione che, all’art. 28, prevede espressamente che “i funzionari e i pubblici dipendenti dello Stato sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”. Il rapporto di immedesimazione organica tra funzionari e dipendenti e pubblica amministrazione consente di riconoscere una responsabilità diretta dello Stato per gli atti da essi compiuti in violazione dei diritti, fatta eccezione per le ipotesi in cui tale nesso venga meno come nel caso di dipendenti che abbiano posto in essere condotte criminose (Cfr. Cons. St., sez. VI, ord. 29 aprile 2013 n. 2337). Oggi risulta, invece, minoritaria la tesi che farebbe gravare in capo alla pubblica amministrazione soltanto una responsabilità indiretta per fatto altrui ex art. 2049 c.c., l’interpretazione prevalente dell’art. 28 Cost. postula una doppia responsabilità diretta ed in solido sia in capo ai funzionari e ai dipendenti sia in capo allo Stato (fatta salva la possibilità per la P.A. di rivalersi sul proprio dipendente) seppure con una diversa previsione del grado di colpevolezza ritenuto necessario dall’ordinamento per ammettere la risarcibilità del danno (lieve per lo Stato, almeno colpa grave per i suoi dipendenti).

Nonostante la previsione costituzionale della responsabilità diretta ed aggiuntiva dello Stato prevista dal succitato art. 28 Cost., l’affermazione del principio di responsabilità della pubblica amministrazione, nel nostro ordinamento è risultata piuttosto lenta e difficile. Se ammessa per l’attività della P.A. di diritto privato, tale responsabilità veniva invece sostanzialmente esclusa in radice nell’esercizio di poteri autoritativi, ove si ammetteva esclusivamente il rimedio caducatorio. Nessuna tutela risarcitoria era, in particolare, prevista per la violazione degli interessi legittimi. Con la storica sentenza 22 luglio 1999 n.500 la Cassazione ha, finalmente, riconosciuto la risarcibilità di qualsiasi danno che leda posizioni giuridiche soggettive alle quali l’ordinamento riconosca rilevanza e quindi anche agli interessi legittimi.

La sentenza della Corte di Cassazione del 1999 ha, inoltre, chiarito, in maniera innovativa, il carattere ed i presupposti di tale forma di responsabilità. È stata superata la concezione oggettiva della responsabilità della Pubblica Amministrazione che presupponeva un’identità tra regole di validità e di responsabilità, per cui presupposto della responsabilità della pubblica amministrazione ex art. 28 Cost. era soltanto la violazione delle regole di validità del provvedimento amministrativo. Attraverso una ricostruzione di matrice civilistica, la Cassazione ha inquadrato la responsabilità della pubblica amministrazione nei termini della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. in base al principio del neminem laedere, indirizzo quest’ultimo che, nonostante le stimolanti critiche dottrinarie e giurisprudenziali, risulta a tutt’oggi essere quello prevalente, anche in forza del suo recepimento nel nuovo codice del processo amministrativo. Sulla base di tale inquadramento, la Corte di Cassazione ha subordinato il riconoscimento della responsabilità della P.A. alla sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità: sia quelli oggettivi del danno ingiusto e del nesso di causalità tra condotta lesiva ed evento dannoso, sia l’elemento soggettivo della colpa. La pubblica amministrazione potrà pertanto porre in essere attività amministrativa illegittima ma non colposa, in quanto incorsa in un errore scusabile, che non dà luogo a risarcimento e rispetto alla quale l’unico rimedio esperibile rimane l’annullamento dell’atto o attività illegittima e colposa, con conseguente obbligo risarcitorio. L’elemento psicologico della colpa non è da riferirsi all’agente ma alla Pubblica amministrazione “apparato” e, sempre secondo la Cassazione va valutato in relazione alla “violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”. Per la risarcibilità del danno deve inoltre risultare leso, congiuntamente all’interesse legittimo, anche l’interesse sostanziale al bene della vita cui si aspira correlato al primo, non essendo risarcibile il mero affidamento del privato nella correttezza dell’agire amministrativo.

2. Ammissibilità della responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione

Parimenti controversa in dottrina e giurisprudenza, almeno fino agli anni Sessanta, è stata l’ammissibilità della cosiddetta “culpa in contrahendo” che sembrava non potersi estendere alle pubbliche amministrazioni. A differenza di quanto avviene nelle trattative individuali tra privati, la pubblica amministrazione, quando agisce iure privatorum, deve comunque funzionalizzare la propria attività al perseguimento dell’interesse pubblico, con un vincolo affatto diverso da quello che caratterizza la piena libertà dell’autonomia negoziale privata. La fase privatistica propriamente detta è, quindi, preceduta da una procedura pubblicistica, denominata, con una fortunata espressione coniata da Massimo Severo Giannini,[1] procedura ad evidenza pubblica, nella quale la pubblica amministrazione è tenuta “a spiegare le ragioni di interesse pubblico per le quali vuole addivenire o è addivenuta a quel contratto avente quel certo contenuto in modo da dare evidenza alle ragioni di interesse pubblico per le quali si sono adottate certe condizioni ed a controllarle[2]

La presunzione di correttezza che caratterizza l’agire della pubblica amministrazione, il fine perseguito, la discrezionalità di cui gode l’autorità amministrativa con la conseguente insindacabilità delle scelte compiute nello svolgimento delle trattative da parte del giudice ed inammissibilità di un legittimo affidamento del privato sulla conclusione del contratto erano le principali ragioni giustificatrici della tesi giurisprudenziale che escludeva l’estensibilità della responsabilità precontrattuale in capo alla pubblica amministrazione.

Tale preclusione è stata definitivamente superata quando si è compresa la necessità di distinguere la legittimità e convenienza dell’azione amministrativa dai doveri che gravano sulla pubblica amministrazione come comune soggetto contraente. In proposito osserva Nigro “Ciò che si chiede al giudice non è di valutare se il soggetto si sia condotto da corretto amministratore, ma se si sia condotto da corretto contraente, non di accertare se abbia bene o male apprezzato il pubblico bisogno ma se, […] si sia comportato in modo da violare il principio posto nell’art. 1337 c.c.”[3] Presupposto della responsabilità precontrattuale non è pertanto la violazione delle regole pubblicistiche che disciplinano l’agire autoritativo della Pubblica Amministrazione e, pertanto, la legittimità del provvedimento, ma la correttezza del comportamento. Si parla in proposito di culpa in contrahendo “pura” nei casi in cui la pubblica amministrazione, nella fase precontrattuale, violi i principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c., e “spuria” se deriva dall’adozione di provvedimenti illegittimi che precedono la stipulazione del contratto.

Ammessa pacificamente l’estensibilità della culpa in contrahendo alle Pubbliche Amministrazioni, più recentemente si è posto il problema di stabilire se tale responsabilità possa sorgere anche prima dell’aggiudicazione e quindi dell’individuazione in concreto del soggetto contraente (Cons. St., sez V, 15 luglio 2013, n. 3831) o solo quando il rapporto si sia personalizzato (Cons. St. sez. V, 14 aprile 2015, n. 1864). La questione è stata risolta dall’Adunanza plenaria nel senso che: “a) il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) sia configurabile in capo all’Amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva; b) tale responsabilità sia configurabile senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara.” (Cons. St., A.P., 4 maggio 2018, n.5).

3. Il presupposto civilistico: i doveri di correttezza e buona fede

Inizialmente la buona fede era considerata solamente come criterio di valutazione delle condotte, salvo assumere successivamente la funzione di strumento di integrazione delle obbligazioni contrattuali che impongono obblighi di protezione e prestazione a tutela dell’altra parte. Successivamente è maturata la tesi secondo la quale potesse considerarsi come fonte di obblighi anche nei confronti dei terzi e parallelamente è stata ritenuta come clausola finalizzata a limitare le pretese della parte creditoria che possono tradursi in abuso del diritto, ovvero quell’esercizio del diritto solo formalmente rispettoso della legge ma che comporti uno sproporzionato sacrificio dell’interesse altrui.[4]

L’Adunanza plenaria del 2018, dopo aver richiamato  “l’originario legame che il legislatore storico aveva inteso instaurare tra il dovere di correttezza e i valori della c.d. solidarietà corporativa”, ricostruisce l’interpretazione più recente e costituzionalmente orientata dei principi qui richiamati  in base alla quale “il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188).” (Cons. St., A.P., 4 maggio 2018, n.5).

L’Adunanza plenaria richiama in proposito anche la c.d. teoria del “contatto sociale qualificato” che, seppure ancora in modo minoritario, comincia ad affacciarsi in giurisprudenza anche con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione.

Scrive l’Adunanza Plenaria in proposito “Il generale dovere di solidarietà che grava reciprocamente su tutti i membri della collettività, si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente qualificati, tali da generare, unilateralmente o, talvolta, anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull’altrui condotta corretta e protettiva. La teoria del “contatto sociale qualificato” – in disparte, in questa sede, la questione ampiamente dibattuta, se ed a quali condizioni il contatto possa assurgere a fonte “atipica” di obbligazione – ha avuto il merito di avere messo bene in luce il legame esistente tra l’ambito e il contenuto dei doveri di protezione e correttezza, da un lato, e il grado di intensità del momento relazionale e del conseguente affidamento da questo ingenerato, dall’altro. Un ricorrente elemento che contribuisce a qualificare il contatto sociale come fonte di doveri puntuali di correttezza a tutela dell’altrui affidamento è certamente rappresentato dal particolare status – professionale e, talvolta, pubblicistico – rivestito dai protagonisti della vicenda “relazionale”. Da chi esercita, ad esempio, un’attività professionale “protetta” (ancor di più se essa costituisce anche un servizio pubblico o un servizio di pubblica necessità) e, a maggior ragione, da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo.” (Cons. St., A.P., 4 maggio 2018, n.5).

Nel caso specificamente preso in esame dal Consiglio di Stato da cui muove l’oggetto della presente trattazione, l’Amministrazione, dopo aver ammesso a finanziamento un’iniziativa imprenditoriale inserendola nella relativa graduatoria per la fruizione delle risorse autorizzate, a distanza di ben cinque anni, e solo in sede di rendicontazione dell’attività svolta, rilevava che la stessa attività non rientrava fra quelle ammissibili in base alla normativa europea di riferimento.  Il Consiglio di Stato, pur aderendo alla tesi che considera vincolata la revoca dell’erogazione delle risorse pubbliche non dovute, specie in violazione della normativa comunitaria, riconosce una responsabilità della pubblica amministrazione derivante dall’aver determinato con la propria condotta un legittimo affidamento del privato sull’erogazione dei contributi in proprio favore, tale da indurlo a portare avanti la propria iniziativa economica nella legittima convinzione che i costi sostenuti sarebbero stati coperti con risorse pubbliche.

4. I presupposti della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: il legittimo affidamento

Presupposto essenziale ai fini della configurazione della responsabilità precontrattuale è il legittimo affidamento del privato. Con la storica sentenza 3 maggio 1978, causa 122/77, Topfer, la Corte di Giustizia europea ha affermato che “il principio di tutela dell’affidamento fa parte dell’ordinamento giuridico comunitario” e può considerarsi pienamente recepito nel diritto interno anche in forza del rinvio operato dall’art. 1 della L. n.241 del 1990 ai principi del diritto europeo. L’affidamento tutelabile deve essere ragionevole per cui il vantaggio prospettato deve essere chiaro ed univoco (nel caso esaminato è stata ritenuta tale la pubblicazione della graduatoria con cui la ditta veniva ammessa al finanziamento), deve essere legittimo, fondato sulla plausibile convinzione di aver titolo al vantaggio senza che, ovviamente, il suddetto vantaggio sia maturato per effetto di comportamenti dolosi o colposi da parte del beneficiario. Deve, infine, essere stabile per il decorrere di un significativo lasso di tempo (nel caso esaminato ben cinque anni).

5. Ulteriori presupposti necessari per la sussistenza della responsabilità precontrattuale della P.A.: danno, colpa e nesso di consequenzialità

Come ben sintetizza l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato “affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose). Oltre alla puntuale verifica dell’esistenza dell’affidamento incolpevole, occorrono gli ulteriori seguenti presupposti: a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo. Significativo, sotto tale profilo, lo spunto offerto, ai fini di una ricostruzione sistematica della responsabilità da comportamento scorretto, dal già richiamato art. 2-bis legge n. 241 del 1990, che, nel tipizzare uno specifico caso di scorrettezza procedimentale (il ritardo), ha espressamente previsto che l’inosservanza del termine (comportamento oggettivamente scorretto) è fonte di responsabilità solo se ne risulti il carattere doloso e colposo. È evidente, in tale previsione normativa, il richiamo all’art. 2043 c.c. e al relativo regime probatorio; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione. Occorre, dunque, che dimostri che il comportamento scorretto dell’amministrazione ha rappresentato, secondo la logica civilistica del “più probabile che non”, la condicio sine qua non della scelta negoziale rivelatasi dannosa e, quindi, del pregiudizio economico di cui chiede il risarcimento. In altri termini, il privato deve fornire la prova che quelle scelte negoziali non sarebbero state compiute ove l’amministrazione si fosse comportata correttamente.” (Cons. St., A.P., 4 maggio 2018, n.5).

In merito all’elemento soggettivo della colpa della Pubblica amministrazione, in particolare, il Consiglio di Stato, nel caso in esame, rileva come “la sussistenza nella specie della colpa dell’Amministrazione nell’aver ingenerato il suindicato affidamento (che, lo si ribadisce, attiene non al carattere doveroso della successiva riduzione del contributo ed alla relativa motivazione, ma alla condotta complessiva serbata dalla Regione) discende con evidenza dai rilievi che si sono fin qui svolti: perché, se non è scusabile per le ragioni evidenziate l’obliterazione dell’art. 6 del Reg. CE n. 1685/00 da parte della Società originaria ricorrente, a maggior ragione non può esserlo l’atteggiamento dell’Amministrazione procedente che tale norma avrebbe dovuto correttamente applicare ab initio.” (Cons. di Stato, sez. II, 24/10/2019, n.7246)

6. Il danno risarcibile: danno emergente e lucro cessante

Un’ultima questione riguarda il tema del danno risarcibile in caso di responsabilità precontrattuale della P.A. per violazione dei doveri di correttezza e buona fede. Si richiamano, in proposito, ancora, le considerazioni recentemente svolte dall’Adunanza Plenaria sul tema, per la quale “il dovere di correttezza (nella sue proteiformi manifestazioni concrete) è, nella maggior parte dei casi, strumentale alla tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza.

Pertanto “ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è, infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: tant’è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).

Nel caso di specie il Consiglio di Stato ha quantificato il danno, anzitutto, sulla base delle spese sostenute dalla società in relazione alla fase procedimentale successiva alla delibera giuntale poi annullata, escludendo qualsiasi ulteriore spesa ad essa non direttamente riconducibile. In secondo luogo, ha valutato la richiesta della stessa società di riconoscere un danno derivante dalla perdita della chance di ottenere un altro finanziamento, stabilendo tuttavia che “poiché dell’an di una tale occasione non vi è alcuna certezza, in merito può essere formulato solo un giudizio prognostico ex ante in termini probabilistici e il quantum può essere liquidato in via equitativa” (Cons. di Stato, sez. II, 24/10/2019, n.7246)

 

 

  

 


[1] M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, II ed., Milano, 1988, II, 797 ss.
[2] G. PERICU , L’attività consensuale dell’amministrazione pubblica, in AA.VV., Diritto Amministrativo, Bologna, 2005.
[3] M. NIGRO, L’amministrazione tra diritto pubblico e privato: a proposito di condizioni legali, in Foro Italiano, 1961, I, p. 461.
[4] Per una disamina più approfondita si rimanda a F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto civile, 2019, pp.9-11

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Calogero Alberto Petix

Nato a Catania il 18/06/1981. Dal 2012 è funzionario amministrativo giuridico legale e contabile del MIUR presso il provveditorato di Agrigento, ove coordina la gestione giuridica del personale docente ed ATA (organici, mobilità e reclutamento) e, su incarico dell’Assessorato regionale all’Istruzione e Formazione professionale, esercita la funzione di revisore dei conti nelle Istituzioni scolastiche. Dottore di ricerca in Pensiero Politico e Istituzioni nelle società mediterranee. Laureato in Scienze Politiche e in Storia Contemporanea, con lode, ha conseguito altresì ulteriori titoli post-lauream in ambito giuridico, metodologico-didattico e della progettazione europea. Ha collaborato con il quotidiano “La Sicilia” ed è stato docente esperto esterno in numerosi progetti di arricchimento dell’offerta formativa nelle scuole, finanziati con il fondo sociale europeo. Ha pubblicato saggi scientifici sul pensiero politico del periodo rivoluzionario francese, in riviste nazionali ed internazionali.

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