Retroattività favorevole e giudicato penale
In realtà i rapporti di tensione che riguardano il principio di giudicato attengono anche ad altri principi (non solo a quello di retroattività favorevole), tra cui quello di legalità della pena e il principio di colpevolezza e di finalismo orientativo della pena.
Il principio di intangibilità del giudicato è il principio in forza del quale, intervenuta la sentenza penale di condanna non più rimediabile con gli strumenti ordinari o straordinari di impugnazione, la res iudicanda non è più modificabile. Tale principio risponde all’ esigenza di certezza e anche ad un’esigenza di stabilità del rapporto penale una volta definita con la sentenza penale passata in giudicata. Queste esigenze sottese al principio di intangibilità del giudicato entrano in collisione con altri principi, tra cui quello di retroattività favorevole ma anche con quello di legalità della pena e di orientamento finalistico della pena.
In primis ci sono delle deroghe, a dimostrazione che si tratti di un principio derogabile; ci sono alcuni dati normativi puntuali; ad esempio il principio di intangibilità del giudicato trova un primo limite nell’art. 2 c.p. nel caso cioè di abolitio criminis (e relativa applicazione dell’art. 673 c.p.p.). Sottesa a questa previsione normativa, ovvero del combinato disposto degli artt. 2 c.p. e 673 c.p.p., c’è, da un lato la ritenuta prevalenza del principio di retroattività favorevole della norma abolitiva, ma c’è anche l’esigenza del legislatore di vedere “travolto” il giudicato, allorquando vi sia un’abolizione del reato che fa venire meno la pena stessa; sicché anche in omaggio al principio di legalità della pena, l’art. 2 co. 2 c.p. prevede che la norma abolitiva debba travolgere il giudicato. Si può dire anche che una base costituzionale a quella previsione di retroazione (norma abolitiva) sia quella del principio di responsabilità personale e del principio di orientamento finalistico della pena. Perché è difficile pensare che possa svolgere una funziona educativa quella pena che il legislatore ha abolito perché il fatto – sulla base di una scelta di politica criminale – non è più ritenuto riprovevole.
Il principio di intangibilità del giudicato trova ulteriore limite nel caso dell’art. 2 co. 3 c.p. che disciplina il caso in cui a succedere sia una norma non abolitiva del reato, ma introduttiva di una norma che prevede come lo stesso fatto sia punibile con una pena diversa da quella detentiva. Quindi in questo caso il giudice deve applicare i parametri dell’art. 135 c.p. e convertire la pena.
Ulteriore caso che dimostra come il principio di intangibilità del giudicato non sia assoluto è una terza ipotesi, sempre prevista dell’art. 673 c.p.p., che stabilisce come il giudice debba dichiarare cessati gli effetti penali della condanna non solo nel caso di abolitio criminis, ma anche nel caso di sopravvenuta incostituzionalità della norma incriminatrice applicata con il giudicato penale di condanna.
Ancora, in tema di continuazione l’art. 671 c.p.p. prevede che quando la medesimezza del disegno criminoso è riconosciuta tra il reato coperto dal giudicato e reato successivo il giudice debba rideterminare la pena inflitta con il giudicato applicando il beneficio promesso dalla continuazione in combinato col reato diverso ma al primo legato dal medesimo disegno criminoso.
Passando invece al versante giurisprudenziale e in merito al valore dell’intangibilità del giudicato, la Cassazione e la Corte Edu hanno avuto modo di chiarire che v’è necessità di rivedere il giudicato allorché risulti che nel procedimento penale conclusosi con il giudicato siano violate le garanzie del giusto processo ex art. 16 CEDU.
Senonché, un nuovo fronte dei rapporti tra giudicato e altri principio, si è aperto in riferimento ai casi in cui, intervenuto il giudicato, ad essere colpita da incostituzionalità sia non la norma incriminatrice, ma una norma di tipo sanzionatorio o una norma con la quale il giudice definisca il trattamento sanzionatorio (Gatto SS UU 2014 ; disciplina stupefacenti dopo Corte Cost 32/2014).
Molto spesso accade che avvenuto il giudicato di condanna, sia dichiarata incostituzionale una norma applicata nel giudicato ma non incriminatrice, ma destinata a definire il trattamento sanzionatorio (come una aggravante o comunque idonea a definire le modalità di calcolo; può succedere ancora che intervenuto giudicato penale di condanna in tema di stupefacenti, quando ancora la legge equipara il trattamento penale tra droghe leggeri e pesanti, intervenga la Corte Costituzionale, facendo poi rivivere il doppio binario di punibilità e trattamento sanzionatorio).
Quando cioè ci sia incostituzionalità dichiarata di una norma aggravante o di altra norma mirata a definire il trattamento sanzionatorio, qual è la sorte del giudicato?
Perché ci si è chiesti questo, perché l’art. 673 c.p.p. prevede sì che in caso di declaratoria di incostituzionalità il giudice deve dichiarare la cessazione degli effetti penali del giudicato di condanna, ma lo prevede testualmente nel caso in cui ad essere dichiarata incostituzionale sia una norma incriminatrice, tant’è vero che l’ art. 673 c.p.p. cita di un fatto “non più previsto dalla legge come reato”.
Ma in questi casi la norma incriminatrice rimane, il reato è in piedi. Ora, l’orientamento giurisprudenziale emerso in questi anni (SS UU Ercolano 18821/ 14; SS UU Gatti 42858/14;) ha ritenuto che il giudice in tutte queste ipotesi debba sempre dare prevalenza dell’applicazione – al rapporto esecutivo in corso – della declaratoria di incostituzionalità ritenendo prevalente tali ragioni a quelle dell’intangibilità del giudicato.
Argomenti a favore:
innanzitutto sul livello costituzionale è vero che al principio d’ intangibilità del giudicato sono sottese quelle esigenze valoriali quali sono quelle di certezza e stabilità, ma è vero anche che in tutti i casi che abbiamo indicato, alle ragioni di stabilità se ne contrappongono altre cardinali dell’ordinamento penale (ossia il principio di legalità della pena, di finalismo della pena, etc.). Tali principi verrebbero violati se la pena ( o la frazione di pena) fosse applicata in virtù di una norma dichiarata incostituzionale ( e quindi contraria al quadro normativo); si applicherebbe cioè una pena illegale, una pena prescindente dal principio di responsabilità personale, contraria al principio del finalismo rieducativo della pena.
Non è possibile addure come tesi contraria all’applicazione di tali sentenze prima citate al casi di giudicato il principio dei c.d. rapporti esauriti, secondo cui una volta intervenuto il giudicato è esaurito e la sentenza della Corte Cost non può retroagire. Sostiene la Cassazione che il rapporto finché la pena è in esecuzione non può dirsi esaurito. L’esaurimento del rapporto non si ha con il giudicato MA SOLO CON L’ESECUZIONE DELL’ULTIMO FRAMMENTO DI PENA; finchè è IN CORSO L’ESECUZIONE DELLA PENA NON c’è OSTACOLO ALL’APPLICAZIONE DELLA PRONUNCIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE.
Soprattutto nel caso Gatti, la Cassazione distingue tra il fenomeno successorio o abolitivo/abrogativo ed il fenomeno della dichiarazione di incostituzionalità, in particolare questo è il passaggio importante sostenuto dalla Cassazione: mentre quando vi è un fenomeno successorio abolitivo è il legislatore a modificare la propria opzione circa il disvalore del fatto e si verifica non un fenomeno di invalidazione della norma, ma un fenomeno di riperimetrazione dell’efficacia nel tempo della norma, sicché con l’abolizione non si ha un meccanismo per cui la norma è invalida ab origine, ma un caso in cui la norma perde efficacia a partire dall’abolizione; cosicché ben si può capire perché il legislatore ha voluto discernere il caso in cui la norma successiva sia una norma davvero abolitiva ed ha previsto il travolgimento del giudicato, dal caso in cui la norma non sia abolitiva ma sia solo più favorevole e allora in questo caso la retroattività è subvalente rispetto all’intangibilità del giudicato; nel caso in cui v’è dichiarazione di incostituzionalità v’è invalidità ab origine della norma! Sicché è più difficile sostenere – come invece nell’ipotesi di successione, nella quale c’è un’ipotesi di travolgimento del giudicato e un’ipotesi di rispetto del giudicato – il rispetto del giudicato. QUANDO C’E’ INCOSTITUZIONALITA’ SIA CHE LA NORMA SIA INCRIMINATRICE, SIA CHE ATTENGA AL CONTEGGIO DELLA PENA, LA NORMA E’ INVALIDA FIN DAL MOMENTO IN CUI E’ NATA E L’INCOSTITUZIONALITA’ DEVE SEMPRE APPLICARSI, FINCHE’ E’ IN PIEDI IL RAPPORTO ESECUTIVO.
Queste sono le tre ragioni fondamentali che la giurisprudenza sta sviluppando per sostenere che anche di fronte ad una dichiarazione di incostituzionalità diversa dalla norma incriminatrice deve rideterminarsi la pena.
Il dubbio è, sulla base di quale meccanismo processuale deve applicarsi tale rideterminazione?
Non è possibile applicare l’ art 673 c.p.p. che prevede altra cosa; parte della dottrina voleva applicare le norme in tema di revisione del processo: ma qui non c’è un processo da rivedere, c’è solo da rideterminare la pena.
C’è da applicare allora l’art. 30 della L. 87/1953 che prevede che ogni qual volta la Corte dichiara l’illegittimità delle norme penali tutte (e non solo incriminatrici) il giudice deve rideterminare la pena.
La legge in questione, quindi, ha una valenza maggiore dell’art. 673 c.p.p. perché riguarda tutte le norme penali e non solo quelle incriminatrici.
Ci si è, infine, chiesti se tutta questa questione valga quando vi sia stata applicazione della pena patteggiata. Questione su cui le SS UU sono intervenute affermando che anche in questo caso la dichiarazione di illegittimità travolge il giudicato frutto del patteggiamento.
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Giuseppe Mainas
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