Revenge porn: il sistema di contrasto e la tutela dei minori
Sommario: 1. Premessa – 2. Lo sviluppo della persona nella realtà telematica: sexting e revenge porn – 3. L’art. 612-ter c.p.: critiche alla positivizzazione del fenomeno – 4. La questione della responsabilità dei “secondi distributori” – 5. L’intervento della Corte di Cassazione in tema di minori. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Quando un selfie intimo, destinato a rimanere privato, viene diffuso per mano di terzi, senza il consenso di chi lo ha prodotto, qual è la tutela apprestata dall’ordinamento? Nell’ancor più delicato caso in cui il soggetto raffigurato sia un minore vedranno applicazione le norme in materia di pedopornografia o l’art. 612-ter c.p.? Condotte di tal sorta, a prescindere dal movente, sono in grado di determinare severe conseguenze sulla vittima, tanto in prospettiva psicologica, quanto in chiave concreta. A titolo esemplificativo, si pensi alla possibile perdita della posizione lavorativa o alla modifica definitiva di conduzione della vita del soggetto raffigurato che ne potrebbe discendere.
La presente disamina ha come scopo la rappresentazione dell’attuale scenario relativo alla diffusione di materiale pornografico senza il consenso della vittima. Il contributo trae spunto da una recente pronuncia della Corte di Cassazione[1] che, operando un’apprezzabile inversione di tendenza rispetto al precedente orientamento[2], ha stabilito che ai fini dell’incriminazione del comma 4 dell’art. 600-ter c.p. non rilevi, nel caso di cessione delle immagini pornografiche di minore da parte di terzi, l’auto o l’eteroproduzione del materiale successivamente divulgato. Nel caso di specie la Corte d’Appello di Salerno, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato uno studente universitario ex art. 600-ter, comma 4, c.p.. Il giovane, durante una gita, dopo aver preso possesso del cellulare di un’amica, all’insaputa di questa, accedeva alla galleria fotografica dell’apparecchio e ne rinveniva dei selfie pornografici. Dopo averli fotografati, prima di restituire il cellulare all’ignara minore, li inviava ad un amico il quale, a sua volta, li divulgava successivamente. In ragione degli irreversibili effetti che una simile diffusione è in grado di determinare, diventa fondamentale individuare l’esatto perimetro di tutela offerta dal sistema. Il sempre crescente utilizzo di dispositivi elettronici da parte dei più giovani impone, poi, una rilettura di tutte le norme interessate che tenga conto delle nuove tendenze. La questione affrontata dai giudici della Suprema Corte permette di rilevare, anzitutto, l’attuale inadeguatezza della struttura normativa rispetto ai fenomeni che la nuova cultura dell’informazione consente di realizzare.
2. Lo sviluppo della persona nella realtà telematica: dal sexting al revenge porn
Non vi è motivo per dubitare che una qualche espressione della personalità soggettiva avvenga non più soltanto nei luoghi fisici ma anche in quelli virtuali. Ormai da tempo, infatti, lo sviluppo tecnologico ha modificato numerosi aspetti della società e, tra questi, anche quello relativo alla sessualità. Un graduale processo di “normalizzazione” della pornografia, unito all’evidenza di una tecnologia sempre più presente nella vita dei consociati, ha contribuito a creare nuove forme di rischio. Negli ultimi anni si è reso necessario attenzionare tutte quelle ipotesi in cui alla creazione volontaria di materiale sessualmente esplicito faccia seguito la non consensuale diffusione dello stesso. È una pratica diffusa quella del cosiddetto sexting[3], consistente nella produzione di messaggi di testo od immagini intime inoltrate, dallo stesso soggetto ritratto, attraverso mezzi informatici. In sostanza, le innovazioni della tecnica hanno intensificato l’offensività di alcune condotte. In un simile contesto la divulgazione rappresenta, per semplicità e rapidità di realizzazione, la declinazione più grave del fenomeno. Infatti, quando il sexting si verifica in un contesto di coppia in cui, al fine di vendicarsi per la conclusione del rapporto, una delle parti senza il consenso dell’altra, divulghi il materiale sessuale ricevuto, il fenomeno viene indicato con l’espressione revenge porn[4]. Tuttavia, nel linguaggio comune a tale espressione è stato dato un significato più ampio, finendo così per ricomprendere ogni forma di diffusione non consensuale di materiale intimo a prescindere tanto dal fine, quanto dal contesto in cui ciò si sia verificato.
Oltre alla viralità di cui il fatto è capace grazie ai mezzi adoperati, ciò che caratterizza la fattispecie è la dimensione del danno sofferto dalla vittima. L’impatto sulla vita di quest’ultima è talmente severo da potersi considerare irrimediabile[5]. La potenziale dimensione pubblica del caso viene resa ancora più inflessibile dal fatto che, una volta online, i dati immessi difficilmente potranno conoscere un reale oblio. A venire in gioco sono una pluralità di beni attinenti alla persona che trovano protezione nell’art. 2 Cost.: dal diritto alla riservatezza, alla reputazione, all’immagine, all’onore, all’inviolabilità della corrispondenza. Le conseguenze sul piano psicologico, poi, possono essere gravi e vivono un peggioramento dal momento che, in genere, il vendicatore o chi divulga il materiale, non si limita alla semplice messa a disposizione delle immagini o dei video. Il più delle volte, infatti, i dati sono supportati da indicazioni ulteriori sulla persona raffigurata come nome, cognome o recapiti (c.d. doxing). La marcata dimensione offensiva del fenomeno ha reso necessaria una risposta penale dedicata. Allo scopo di realizzare il necessario ammodernamento del sistema, l’art. 10 della Legge 19 luglio 2019, n. 69, ha introdotto l’art. 612-ter c.p., in materia di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti.
Invero, prima dell’introduzione dell’art. 612-ter c.p. la giurisprudenza ha tentato di superare il vuoto normativo sussumendo tale fattispecie in altre già presenti. Infatti, nonostante la norma non consenta di cogliere il proprium della pornografia non consensuale, la condotta è stata qualificata, dapprima, ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p.. Non può non notarsi come, nelle ipotesi di revenge porn, l’offesa non si limita alla reputazione ma comprende anche la riservatezza oltre che la capacità di autodeterminarsi in ambito sessuale. È stato, poi, utilizzato l’illecito trattamento dei dati personali ex art. 167 D. Lgs. 196/2003. Anche tale disposizione è risultata inadatta perché incentrata sulla protezione di uno solo dei molteplici beni giuridici lesi in caso di diffusione di materiale pornografico non consensuale. Si è tentato un inquadramento anche rispetto a due reati “sociologicamente” più simili all’ipotesi in commento. Ci si riferisce agli artt. 612-bis e 610 c.p.. Le due discipline richiedono minaccia, violenza o condotte reiterate che non caratterizzano il contenuto tipico del fatto. Nel caso del revenge porn si tratta, sempre più spesso, di ipotesi che prescindono da un pregresso rapporto personale tra vittima e divulgatore. L’inidoneità di tali discipline a recepire le peculiarità della fattispecie ha reso indispensabile l’accennato intervento legislativo.
3. L’art. 612-ter c.p.: critiche alla positivizzazione del fenomeno
La diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti si configura come reato plurioffensivo inserito nel contesto di un intervento diretto a contrastare la violenza di genere in tutte le sue possibili manifestazioni. La disposizione prevede l’incriminazione di due fattispecie. Segnatamente, il primo comma punisce “chiunque dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica, diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate”. Il successivo comma, impartendo la medesima pena, fornisce protezione nei confronti di chi “avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”. I due dettati, in sostanza, coincidono per condotta ed oggetto materiale della stessa e differiscono per presupposto e fine.
In particolare, il primo comma fa riferimento alla condotta della sottrazione. Sul punto, oltre a far intendere una illegittimità dell’acquisizione del materiale, tale condotta sarebbe compatibile tanto con le ipotesi in cui la vittima abbia prestato consenso alla rappresentazione, quanto con quelle in cui la ripresa sia avvenuta a sua insaputa. In questo caso, però, si configurerebbe anche il reato di interferenza illecita nella vita privata (art. 615 c.p.).
Con riguardo al fine, l’art. 612-ter, comma 1, c.p. è un reato a dolo generico in quanto, per tali circostanze, il legislatore ha ritenuto di non attribuire alcuna rilevanza allo scopo perseguito dal soggetto. Nel caso del secondo comma, come si evince in modo chiaro dalla lettera della norma, si tratta invece di una fattispecie a dolo specifico. Una simile decisione sembrerebbe attribuire all’ipotesi un’applicazione più ristretta. Tuttavia, la norma si rivolge a colui che abbia in qualunque modo acquisito il materiale così ricomprendendo tanto modalità legittime, quanto illegittime. Tale elemento consente di attribuire anche all’ipotesi di cui al secondo comma il corretto grado di disvalore. Per alcuni autori la differenza riguarderebbe i rapporti con la vittima. I fatti di cui al primo comma farebbero intendere la sussistenza di un precedente rapporto fra le parti mentre, nell’ipotesi di cui al secondo comma potrebbe trattarsi di un soggetto entrato in possesso delle immagini o dei video a prescindere da una relazione con la vittima. Nondimeno, per nessuna delle due fattispecie la disposizione richiede l’esistenza di una pregressa relazione tra le parti.
La norma disciplina ai successivi commi tre ipotesi aggravate di cui una ad effetto speciale. Specificatamente, il terzo comma prevede un aumento di pena nei casi in cui il divulgatore sia un coniuge, separato o divorziato, o una persona che è stata legata alla vittima da una relazione affettiva. La previsione è del tutto coerente con la ratio della norma. Sul punto, pur in assenza di esplicito richiamo alle unioni civili, si ritiene applicabile l’ipotesi aggravata anche a tali rapporti in ragione di una interpretazione coerente con il sistema che ha, da tempo, previsto una piena parificazione rispetto alle due realtà (Legge 20 maggio 2016, n. 76). Rappresenta un’ipotesi aggravata anche l’aver commesso il fatto “attraverso strumenti informatici o telematici”. Infine, la pena è aumentata da un terzo alla metà laddove il fatto sia commesso ai danni di persone che versano in condizioni di gravità psichica o fisica oltre che nei confronti di donne in stato di gravidanza.
Avverso la previsione di una norma specifica finalizzata a contrastare il fenomeno in commento la scienza penalistica, nazionale ed internazionale, ha mosso alcune critiche. Un primo orientamento trasla il rimprovero dall’autore della divulgazione alla vittima. Secondo una simile ricostruzione la produzione e la condivisione di materiali sessuali equivalgono ad accettare il rischio di una successiva divulgazione[6]. Secondo una lettura diversa l’ordinamento, incriminando una siffatta condotta, realizzerebbe quello che viene definito “paternalismo normativo”. Si tratta, nella declinazione soft del fenomeno, di prevedere risposte penali al fine di proteggere i consociati da scelte potenzialmente auto-dannose, ancorché involontarie. L’elemento reggente la ratio della norma è rappresentato dal consenso ed una definizione dei confini da attribuire a tale dato permette di fornire una soluzione chiara. Il consenso della vittima investe esclusivamente il momento della produzione del materiale. Si estende, poi, al momento dell’inoltro dei dati ma con una volontà che non consente letture di altro segno. La vittima, infatti, consegna tali dati con l’intento di farli rimanere privati. In sede applicativa un problema concernente il consenso potrebbe invece riguardare quei casi in cui la condotta si realizzi sull’erronea convinzione della sussistenza del consenso od ancora nel caso di consenso dapprima concesso e successivamente revocato.
Le due fattispecie contenute nell’art. 612-ter, commi 1 e 2, c.p. sono poi accumunate dall’oggetto materiale della condotta fissato dal legislatore come “immagini o video a contenuto sessualmente esplicito”. È importante in chiave applicativa, delineare la portata del concetto. L’uso del termine “esplicito” esclude la possibilità di un’interpretazione estensiva tale da considerare incluse immagini di mero nudo. Il dato letterale è supportato da un dato sistematico. La Suprema Corte in tema di pornografia minorile ha considerato configurabile tale delitto allorché, il materiale pornografico ritragga il minore in una condotta “sessualmente esplicita” quale può essere l’esibizione lasciva dei genitali. L’interpretazione è poi confortata dal fatto che le immagini o i video debbano avere la caratteristica di essere “destinati a restare privati”.
4. La questione della responsabilità dei “secondi distributori”
Nel passaggio dalla esclusiva disponibilità delle parti alla successiva diffusione pubblica del materiale sessualmente esplicito subentrano, generalmente, soggetti terzi che permettono con successive condivisioni l’estensione del fenomeno. La responsabilità di questi “secondi distributori” è chiara nel caso in cui la condotta sia realizzata al fine di recare nocumento alle persone rappresentate (art. 612-ter c.p.). Resterebbero, invece, escluse tutte quelle ipotesi in cui il soggetto ignori la non consensualità della primigenia divulgazione.
Considerato che la diffusione delle immagini o dei video intimi avviene solitamente attraverso grandi portali che consentono la condivisione su larga scala diventa importante regolare anche la responsabilità dei cosiddetti “intermediari”. Ritenendosi inesigibile un controllo preventivo della totalità di materiali inseriti sugli Internet providers, si pone il problema nel caso in cui l’inserimento di un contenuto non autorizzato sia stato segnalato ma non tempestivamente rimosso.
Con la Legge 29 maggio 2017, n. 71, in tema di cyberbullismo, il legislatore consente ai minori di chiedere l’oscuramento, il blocco o la rimozione di materiale diffuso per via telematica. Segnalato il sopruso con istanza diretta al titolare del trattamento od al gestore del sito internet, il contenuto deve essere rimosso entro quarantotto ore. Nella stessa direzione volgono lo sguardo le soluzioni previste in tema di cyber-terrorismo. Il decreto legge n. 7 del 2015, convertito con legge n. 43 del 2015, oltre ad aver previsto la creazione di una black list dei siti usati per la commissione di reati terroristici, impone ai providers l’obbligo di rimozione ed oscuramento dei siti e dei contenuti illeciti. Sul punto, la legge n. 69/2019 non ha previsto alcun coordinamento della fattispecie di cui all’art. 612-ter c.p. con le leggi appena ricordate. Eppure, prevedere una forma di rimprovero per l’intermediario inottemperante ovvero definire il ruolo degli intermediari nella eliminazione dei dati immessi in rete senza il consenso, renderebbe effettiva la protezione dei beni giuridici tutelati.
5. L’intervento della Corte di Cassazione in tema di minori. Considerazioni conclusive.
L’art. 612 bis c.p. non dedica, in modo espresso, tutela anche alle vittime minorenni. Dunque, nel caso in cui il reato sia perpetrato ai danni di un minore si pongono dei dubbi applicativi non trascurabili.
Il concetto di pornografica minorile, introdotto all’ultimo comma dell’art. 600-ter c.p., è da intendersi come ogni rappresentazione di un minore, realizzata con qualunque mezzo, che sia coinvolto in attività sessualmente esplicite, reali o simulate, rientrandovi del pari qualsiasi rappresentazione degli organi sessuali per scopi sessuali[7]. Inoltre, l’art. 20 della Convenzione di Lanzarote include nella definizione di pedopornografia il fenomeno del sexting[8].
Per lungo tempo, nell’ipotesi di diffusione non consensuale di materiale sessualmente esplicito prodotto dal minore, la giurisprudenza ha escluso l’applicazione del reato di pornografia minorile disciplinato all’art. 600-ter c.p.. La Suprema Corte[9] aveva stabilito che l’applicazione di detta norma al caso avrebbe costituito un’inammissibile analogia in malam partem[10]. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 600-ter c.p. è necessario che il materiale pornografico sia prodotto da persona diversa dal minore ivi rappresentato. L’espressione “utilizzazione” riferita al minore ed il rinvio dei successivi commi dell’art. 600-ter c.p. al “materiale pornografico di cui al comma 1”, rappresentano per la Corte elementi insuperabili. Inoltre, essendo inferiore la pena prevista dall’art. 600-ter, comma 3, c.p. il reato di diffusione di materiale pornografico minorile non può trovare applicazione neanche attraverso la clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-ter c.p.. Considerata l’inadeguatezza delle attuali norme a tutela del minore, la cessione a terzi di immagini realizzate autonomamente dal soggetto in esse raffigurato troverebbe punibilità ex art. 612-ter c.p.. Eppure, l’ordinamento considera, a giusta ragione, con disvalore maggiorato qualsiasi condotta offensiva quando questa coinvolga un minore. In questo caso si vedrebbe attribuire pari pena tanto nel caso in cui il reato sia commesso nei confronti della vittima maggiorenne, quanto nel caso della vittima minorenne. In sostanza, gli obiettivi che hanno definito l’introduzione dei delitti di pedopornografia si vedrebbero traditi. Il sempre crescente utilizzo che i minori fanno degli smartphone e delle piattaforme sociali online, rende il problema tutt’altro che teorico.
Di recente, infatti, con un generale ripensamento dell’orientamento sul tema, la Corte Suprema[11] ha stabilito che ai fini dell’incriminazione del fatto tipizzato all’art. 600-ter, comma 4, c.p., non rileva la modalità della produzione. I giudici precisano che un’interpretazione rigorosa del testo della norma, non sarebbe coerente con il sistema. Nello specifico, l’art. 600-ter c.p. soffrirebbe di una debolezza nella tecnica redazionale a causa dei numerosi rimaneggiamenti che, nel tempo, hanno condotto alle difficoltà applicative ed ermeneutiche di cui si sta discorrendo. Il rimando effettuato dai commi successivi al primo comma sarebbe da riferire esclusivamente all’oggetto della condotta delittuosa e non anche alla modalità di produzione del materiale[12]. In sostanza, il requisito dell’eteroproduzione, per talune delle condotte delittuose previste all’art. 600-ter c.p., non è determinante. Che si tratti di auto o di etero produzione, la norma vedrà applicazione anche nell’ipotesi in cui un soggetto, entrato abusivamente nella disponibilità di materiale pornografico prodotto dal minore in esso ritratto, lo ceda successivamente a terzi senza il consenso. Nonostante il rischio di un overruling in malam partem[13], non può negarsi che, una tale interpretazione della norma sia più coerente con un sistema in cui la tutela della dignità personale del minore è posta al massimo livello tanto in sede nazionale, quanto in sede sovranazionale.
Data la complessità nonché la delicatezza dei valori in campo, l’intervento può considerarsi valido e necessario. Per le medesime ragioni, però, al fine di escludere un vuoto di tutela, una compressione del diritto di difesa od impegnative interpretazioni giurisprudenziali, sarebbe opportuno integrare il sistema con un intervento legislativo che consenta definitivamente di uscire dall’impasse.
[1] Cass. Pen. Sez. III, sentenza n.5522, 12 febbraio 2020.
[2] Cass. Pen. Sez. III, sentenza n. 11675, 18 febbraio 2016, Rv. 266319. Con tale intervento la Corte aveva stabilito che, ai fini della configurabilità dell’art. 600 ter c.p., il materiale pornografico divulgato doveva necessariamente essere stato prodotto da un soggetto altro rispetto al minore ritratto. Secondo i giudici della terza sezione, infatti, nel caso della autoproduzione sarebbe venuto meno l’elemento costitutivo dell’uso del minore per mano altrui come facilmente evincibile dalla lettera della norma.
[3] Il neologismo inglese ha conosciuto sviluppo a metà degli anni 2000. Pur dovendosi evidenziare un importante vuoto normativo ancora oggi esistente in Italia, occorre rilevare che la materia continua ad essere attenzionata a livello sovranazionale. Specificatamente, il Comitato di Lanzarote del Consiglio d’Europa, ha da tempo programmato uno specifico lavoro sul sexting. Tuttavia, le attività, avviate nel maggio 2015, risultano essere ancora in corso.
[4] Sulla definizione di revenge porn, Misure per il contrasto della diffusione non autorizzata di materiale sessualmente esplicito, nota breve n. 57, in Servizio Studi del Senato, marzo 2019.
[5] Nella più forte ed irreparabile delle conseguenze, si pensi alla tragica determinazione volta a spegnere la propria vita a cui, nel settembre del 2016, è giunta la trentunenne napoletana Tiziana Cantone dopo aver subito la diffusione virale di alcuni video nei quali è ritratta mentre compie atti sessuali volontari. Ripercorre anche la vicenda processuale della vittima, G.M. Caletti, “Revenge porn” e tutela penale. Prime riflessioni sulla pornografia non consensuale alla luce delle esperienze angloamericane, in Diritto penale contemporaneo Riv. Trim., 2018, n. 3, p. 65 ss.
[6] Il fenomeno viene indicato con l’espressione angloamericana victim blaming letteralmente traducibile in “dare colpa alla vittima”.
[7] La definizione è stata introdotta con l’art. 4 lett. h), della L. 1 ottobre 2012, n. 172.
[8] Nel comunicato stampa del 2 luglio 2019, il Comitato di Lanzarote del Consiglio D’Europa, ha emesso un parere in cui si chiarisce che l’auto-produzione e condivisione di immagini o video a sfondo sessuale attraverso la tecnologia mobile non costituisce una condotta connessa alla “pedopornografia”, quando è destinato esclusivamente all’uso privato dei minori. Il discorso cambia nel caso di successive diffusioni delle quali il soggetto ritratto è inconsapevole. Lo Stato italiano, con la Legge 1 ottobre 2012, n. 172, ha ratificato la Convenzione di Lanzarote, entrata in vigore il 1° luglio 2010, che rappresenta il primo strumento internazionale per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale.
[9] Cass. Pen. Sez. III, sentenza, n. 116755, 21 marzo 2016, Rv. 266319.
[10] M. Bianchi, Il “Sexting minorile” non è più reato?, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2016, p. 140.
[11] Cass. Pen. Sez. III, sentenza n.5522, 12 febbraio 2020.
[12] Ibidem, pag. 15.
[13] Ibidem, pag. 17. I giudici, tuttavia, considerano scongiurato il pericolo di un overruling in malam partem, in quanto, l’orientamento espresso nelle sole due sentenze 2016 e 2017, non può ritenersi consolidato.
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Laura Zimmaro
Consegue la laurea in Giurisprudenza, con lode, presso l’Università degli studi di Roma Tor vergata presentando una tesi in Procedura Penale dal titolo “L’utilizzo del captatore informatico nel procedimento penale”. Ha svolto tirocinio formativo presso la Corte d’Appello di Roma, Prima sezione penale. Nel Marzo 2021 ha conseguito il master di II livello in «Strategie Organizzative e di Innovazione nella P.A.». Da ottobre 2021 è abilitata all'esercizio della professione forense.
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