Revenge porn: quando la vendetta viene servita sul web
Con il termine “revenge porn” o anche “revenge pornography” si intende un fenomeno tristemente noto e che, in questi ultimi anni, ha assunto dimensioni preoccupanti, espandendosi via via più capillarmente grazie anche alla sempre maggiore presenza dei vari social e della tecnologia nella nostra vita di tutti i giorni.
Ogni giorno, magari ogni ora, tramite il nostro smartphone accediamo ad un mondo che non conosce freni, remore e che soprattutto non si preoccupa di ledere il decoro o la dignità di un essere umano.
Come si evince dal nome tale pratica comporta l’uso e la diffusione sul web di video e di immagini private, a sfondo sessuale, senza il consenso del soggetto in essi ritratto (nella maggior parte dei casi a scopo di vendetta privata).
Possiamo quindi definire il revenge porn come la diffusione o anche la minaccia di diffusione a scopo estorsivo di materiale multimediale il cui oggetto è costituito da persone (nella maggior parte dei casi donne) riprese o fotografate in atteggiamenti intimi o sessualmente espliciti, senza che tale diffusione sia stata autorizzata dal diritto interessato/a.
A perpetrare tale condotta, nella stragrande maggioranza dei casi, sono fidanzati o ex fidanzati, mariti o ex mariti legati alla persona interessata da un rapporto sentimentale: tali soggetti agiscono per vendetta o per “punire” gli ex utilizzando le immagini o i video in loro possesso.
Il materiale riguardante la povera ed ignara vittima è il più vario, si va da selfie scattati ed inviati ingenuamente al proprio fidanzato pensando che mai potrebbe compiere un tale gesto, oppure video e fotografie scattate per immortalare momenti di intimità e di privacy; altrimenti, nei casi più estremi, di scatti e video “rubati” all’ignaro soggetto di nascosto, a sua insaputa. La condivisione, nella maggior parte dei casi impossibile da fermare una volta avviata, porta ad un risultato disastroso per la povera vittima, sostanziandosi in umiliazione e lesione della propria dignità.
Tali ferite possono essere così aberranti per la vittima da portarla, come è successo in casi di cronaca, a togliersi la vita o a tentare di farlo.
Tra i casi balzati da un giornale all’altro spiccano i nomi di Tiziana Cantone e Giulia Sarti. La prima è una giovane e bella donna napoletana, il cui video sessualmente esplicito ha cominciato a fare il giro della rete, di Whatsapp e di Facebook. La povera Tiziana, nonostante la battaglia legale, non ha saputo resistere alla pressione che tale fenomeno aveva comportato nella propria vita e si è suicidata.
Giulia Sarti, invece, ex presidente grillina della commissione Giustizia di Montecitorio, ha visto le proprie immagini private divenire virali in pochissimi istanti. Il caso, date le dimensioni assunte, ha subito preso la forma di un vero e proprio caso politico. Il Garante per la protezione dei dati personali si è visto costretto ad intervenire, accanto a numerose personalità politiche ed istituzionali che hanno voluto esprimere la propria vicinanza alla Sarti.
Considerato il dilagare del fenomeno molti Paesi hanno intrapreso vari iter legislativi per definire tale fenomeno, circoscrivendolo, per perseguirlo e contrastarlo. Ciò è avvenuto adottando delle normative ad hoc, soprattutto in Paesi come la Germania, il Regno Unito e l’Israele.
L’Italia ha fatto da chiudipista, in quanto fino al 2019 tale fattispecie non era perseguita e perseguibile penalmente. Alla vittima rimaneva solo la possibilità di fare riferimento a reati diversi, quali ad esempio diffamazione e violazione della privacy.
Ciò tuttavia appariva insufficiente, data la gravità della condotta criminosa, la quale lede e offende vari beni giuridici e diritti della personalità, ovvero i diritti soggettivi assoluti che spettano all’essere persona in quanto tale, così funzionalmente diretti ad affermare e garantire esigenze di carattere esistenziale.
Tra questi merita una menzione il diritto all’immagine, identificato come il diritto della persona a che la propria immagine non venga divulgata, esposta, o pubblicata senza il suo consenso e fuori dai casi previsti dalla legge. Il diritto all’immagine è ampiamente tutelato nel nostro ordinamento, al riguardo si pensi agli artt. 10 e 2043 del cod.civile. La lesione di tale diritto può riguardare non solo la persona direttamente interessata ma anche i soggetti che ad essa sono vicini, personalmente e lavorativamente.
In quest’ultimo caso potremmo paventare l’ipotesi di una lesione al decoro della reputazione professionale, ovvero una diminuzione della considerazione da parte dei consociati di settore con i quali la vittima collabora o comunque interagisce durante la propria attività lavorativa.
Il revenge porn, essendo una fattispecie criminosa manchevole del consenso della vittima, lede anche il diritto all’onore ed alla reputazione della persona e comporta dei danni sia a livello patrimoniale che non patrimoniale. La reputazione può essere definita come l’opinione sociale e positiva che l’individuo suscita all’interno della comunità ove vive; l’onore invece è qualificabile come il valore che il soggetto avverte di sé stesso. Il decoro, invece, ne costituisce la manifestazione esteriore.
L’aspetto più delicato di tale fenomeno è dato, anche e soprattutto, dalla grave violazione del diritto alla riservatezza della persona. Ognuno ha il diritto a tenere segreta la sfera più intima della propria persona, e di conseguenza tutti i comportamenti, gli aspetti, gli atti che la compongono, impedendo che questi vengano pubblicati senza suo consenso.
Il codice penale tutela il diritto alla privacy del soggetto negli artt. 617 bis e 615 bis. In particolar modo, l’art 615 bis punisce chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nell’abitazione altrui o in privata dimora.
Ancora, una tutela più pregnante al diritto in esame, è fornita dal d.lgs 196/2003, meglio conosciuto come Codice della privacy, ove si tutela il diritto del soggetto alla protezione dei propri dati personali che lo riguardano in prima persona, affinché il trattamento di questi si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato.
Pertanto, data la plurioffensività del reato in questione, si sono susseguiti vivaci dibattiti parlamentari, soprattutto all’indomani della vicenda che ha colpito l’On. Sarti. Tali dibattiti si sono concretizzati in legge con il c.d. “Codice Rosso” approvato il 9 agosto 2019, il quale introduce rilevanti modiche al codice penale e di procedura penale con cui si vuole offrire tutela alle vittime di violenza domestica e di genere. In particolare modo è stata la L. 69/2019 ad introdurre l’art 612 ter del codice penale, il quale ha finalmente codificato come reato la fattispecie del revenge porn.
In tale norma si punisce chi diffonde illecitamente immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate; la pena irrogata consiste nella reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.
Da una prima lettura si evince il fatto che il reato in questione è un reato comune, ovvero che può essere commesso da chiunque, senza la necessità che rilevino particolari status o qualifiche soggettive o professionali.
L’articolo punisce anche chi, condividendo tali immagini o video, partecipa attivamente alla diffusione dei contenuti sottratti dall’autore di essi. Quindi, a tali soggetti si applicherà la medesima pena irrogata all’autore materiale dei contenuti in questione.
Il legislatore ha previsto un’aggravante qualora il reato di pubblicazione illecita sia commesso dal coniuge, anche divorziato o semplicemente separato, o da una persona legata da una relazione affettiva alla persona offesa; ulteriori aggravanti sono previste nel caso in cui quest’ultima versi in stato di minorità fisica o psichica o, qualora il reato sia perpretrato nei confronti di una donna in stato di gravidanza.
Per ciò che riguarda la procedibilità, il reato è perseguibile a querela della persona offesa, la quale potrà essere proposta nell’arco di tempo di sei mesi e potrà essere rimessa esclusivamente in sede processuale. Si può procedere d’ufficio, invece, qualora il reato venga commesso nei confronti di soggetti affetti da minorità fisica o psichica e nei confronti di donne incinte.
Il reato in esame trova terreno fertile negli anni in cui ci troviamo a vivere soprattutto grazie ai social network. Ogni giorno tramite il nostro smartphone possiamo entrare in una sorta di mondo parallelo e possiamo, di conseguenza, entrare nelle vite delle altre persone. Per tale motivo un aspetto interessante del revenge porn è costituito dalla responsabilità del Provider. Il Provider, o meglio “ISP” (Internet Service Provider), è un’azienda che offre servizi Internet; in modo più specifico offrono servizi di interconnessione, trasmissione e di vari altri tipi relativi all’utilizzo della stessa rete Internet. Quindi, sostanzialmente, il Provider è una sorta di intermediario che crea un collegamento tra chi fornisce una determinata informazione e chi la riceve.
Il Tribunale di Bologna nella sentenza n. 331/2001 ha distinto due tipologie di provider. In essa infatti si legge: “il termine Access Provider (o taluni casi anche “Mere Conduit”, n.d.r.) individua il soggetto che consente all’utente l’allacciamento alla rete telematica. Il compito dell’Access Provider è per lo più quello di accertare l’identità dell’utente che richiede il servizio, di acquisirne i dati anagrafici, e, quindi, di trasmettere la richiesta all’Authority Italiana affinché provveda all’apertura del relativo sito web. L’Access Provider può anche limitarsi a concedere al cliente uno spazio, da gestire autonomamente sul disco fisso del proprio elaboratore. […] Il Content Provider è l’operatore che mette a disposizione del pubblico informazioni ed opere (riviste, fotografie, libri, banche dati, versioni telematiche di quotidiani e periodici) caricandole sulle memorie dei computers server e collegando tali computers alla rete. Content Provider è anche chi si obbliga a gestire e ad organizzare una pagina web immessa in rete dal proprio cliente.”
Quindi, si distingue tra Access Provider e Content provider. Tale differenziazione non è solamente una sottigliezza meramente tecnica, ma appare necessaria ai fini della imputabilità della responsabilità civile o penale dei Provider.
Nel nostro ordinamento la questione è regolata dagli artt. 14 – 17 del D.lgs 70/2003, attuativo della direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico; in tale normativa si individuano tre tipologie di prestatori: 1) Il Mere Conduit, il quale fornisce esclusivamente dei servizi di semplice trasporto; 2) Il Caching, che fornisce esclusivamente dei servizi di memorizzazione temporanea dei dati; 3) L’Hosting Provider, che fornisce servizi di memorizzazione di informazioni a lunga durata.
Ciò detto, la questione appare di difficile soluzione qualora le attività illecite siano poste in essere da un soggetto terzo che sfrutti i servizi del Provider.
La linea generale del D.lgs 70/2003 è quella di ritenere esenti da responsabilità i Providers per gli illeciti commessi utilizzando i propri servizi, a condizione che essi non intervengano in alcun modo sul contenuto delle operazioni illecite. L’art 17 del Decreto in questione prevede espressamente che: “non sorge in capo al prestatore del servizio, ovvero al Provider, un obbligo di sorveglianza sulle informazioni che il terzo trasmette e/o memorizza grazie ai servizi forniti, parimenti non è obbligato a ricercare attivamente fatti o evidenze circa l’illiceità di tali attività”.
Relativamente alla questione della responsabilità del provider in relazione ai casi di revenge porn, bisogna che ci soffermiamo con più attenzione sulla categoria dell’ Hosting Provider, ossia, come abbiamo detto precedentemente, colui che fornisce servizi di memorizzazione di informazioni a lunga durata.
Il revenge porn riesce ad essere tanto pregiudizievole per la vittima proprio in ragione delle caratteristiche proprie della rete Internet. Esso infatti nasce su Internet, e in seguito attraverso le varie applicazioni di messaggistica istantanea (come Whatsapp o Messenger) si diffonde capillarmente in qualsiasi tipo di piattaforma. Le dimensioni immani e i contenuti innumerevoli di tali piattaforme rendono impraticabile qualsiasi forma di controllo preventivo del materiale immesso sulla rete da parte del Provider.
Il D.lgs 70/2003, per tale motivo, prevede due espresse condizioni al verificarsi delle quali il Provider è ritenuto esente da responsabilità; la prima consiste nella circostanza per cui il Provider non sia a conoscenza dell’illiceità dell’attività posta in essere utilizzando i propri servizi. La seconda che, a seguito della comunicazione delle Autorità, e quindi dopo aver preso conoscenza dei fatti si attivi per rimuovere tali contenuti o informazioni.
Tuttavia, non viene specificato quando il Provider debba attivarsi: stando ad una interpretazione letteraria della norma in questione, parrebbe che esso debba attivarsi a seguito dell’ordine dell’Autorità Giudiziaria.
Sulla questione è intervenuto il Tribunale di Napoli Nord con un’ordinanza, in relazione al caso di Tiziana Cantone. Nonostante il triste epilogo e le varie battaglie legali poste in essere prima dalla vittima e dopo dalla madre, ancora oggi è possibile rinvenire su Internet il materiale riguardante la povera ragazza, proprio a dimostrazione del fatto che Internet sia un posto in cui sia facile accedere ma da cui sia estremamente difficile uscire.
L’ordinanza del Tribunale di Napoli Nord ha rappresentato un importantissimo precedente per i successivi casi di revenge porn tramite Internet.
La Cantone aveva chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Napoli un provvedimento d’urgenza col fine di bloccare la diffusione dei contenuti, chiedendone anche la rimozione. A tale richiesta Facebook si era opposto, ritenendo che non vi era alcun obbligo di rimozione senza il preventivo intervento delle Autorità competenti; a tale rifiuto si era accompagnato anche la negazione di porre in essere alcuna attività di monitoraggio e rimozione di ogni post contenente riferimenti alla Cantone, sostenendo l’eccessiva gravosità delle attività suddette.
Il Tribunale di Napoli Nord, sostenendo sì l’inesistenza di un obbligo generale di sorveglianza ovvero l’obbligo di ricercare attivamente i fatti che indichino la presenza di attività illecite, ex art. 17 del D.lgs. 70/2003, ha tuttavia ritenuto responsabile il Provider che sia venuto a conoscenza del fatto che l’informazione sia illecita e non si sia attivato per arginare l’ulteriore diffusione della medesima.
Inoltre, il Tribunale ha anche rilevato che non sarebbe condivisibile ritenere che per la rimozione dei contenuti sia necessario un previo intervento dell’Autorità giudiziaria, ritenendo sufficiente la semplice segnalazione dell’utente.
Il ragionamento del Tribunale, in più, si affida anche al tenore letterale dei Considerando nn. 42 e 46 della Direttiva sul Commercio Elettronico, secondo i quali affinché il prestatore di servizi di hosting possa godere di una limitazione di responsabilità, debba agire immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitare l’accesso alle stesse nel momento in cui venga a conoscenza della presenza di attività illecite.
A prescindere da tali profili squisitamente giurisprudenziali, è rilevante evidenziare come, trattandosi di un reato che lede diritti della personalità, apparirebbe poco ragionevole dover attendere un ordine dell’Autorità Giudiziaria per procedere, giacché si rischierebbe di attivarsi troppo tardi, rendendo irrimediabile la lesione e la compromissione di tali diritti.
Il Tribunale di Napoli Nord conclude la citata ordinanza sostenendo che pur non essendovi obbligo di controllo preventivo da parte dell’hosting provider, né una posizione di garanzia, sussiste in capo a quest’ultimo un obbligo di attivazione successiva. Per tale motivo, la responsabilità di tale prestatore di servizi sorge in caso di inottemperanza a una richiesta di rimozione dei contenuti illeciti effettuata dalla parte titolare di diritti oppure, nel caso in cui l’ordine sia pervenuto da un’Autorità, amministrativa o giurisdizionale, a cui il titolare del diritto si sia rivolto.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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Vanessa Pastore
Dottoressa Magistrale in Giurisprudenza. Laurea conseguita presso l'Università degli Studi di Bari :"Aldo Moro" con votazione 110/110.