Revoca della misura interdittiva ed inammissibilità dell’appello de plano

Revoca della misura interdittiva ed inammissibilità dell’appello de plano

Con la sentenza n. 51515, le cui motivazioni sono state depositate in data 14 novembre 2018, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno espresso il principio di diritto secondo cui “l’appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex art. 17 D. Lgs. 231/2001 poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall’art. 127, comma 9, cod. proc. pen., ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell’udienza camerale e nel contraddittorio tra le parti, previamente avvisate”.

Inoltre, “la revoca della misura interdittiva disposta a seguito delle condotte riparatorie poste in esser”e ex art. 17 D. Lgs. 231/2001, intervenuta nelle more dell’appello cautelare proposto nell’interesse della società indagata, non determina autonomamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione”.

La quaestio iuris era pervenuta a seguito dell’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione Penale n. 26832 depositata in data 7 giugno 2018, a mezzo della quale veniva chiesto di comporre il contrasto compendiato nel quesito “se l’appello avverso un’ordinanza applicativa di una misura interdittiva disposta a carico di una società possa essere dichiarato inamissibile “anche senza formalità”, ex art. 127, comma 9, cod. proc. pen., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa”.

La vicenda sottoposta alla cognizione della Sesta Sezione concerneva un ricorso per cassazione interposto avverso un’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame che aveva dichiarato inammissibile inaudita altera parte, per difetto di interesse all’impugnazione, l’appello proposto dal procuratore speciale di una società contro l’ordinanza del G.i.p. applicativa la misura interdittiva cautelare del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione per il periodo di un anno, contestualmente sospendendone l’efficacia a condizione del versamento di un deposito cauzionale, unitamente alla elaborazione di un piano strategico di intervento sugli obiettivi considerati ed alla prova dell’adempimento del piano strategico formato dall’ente entro il termine di giorni sessanta.

La gravata ordinanza aveva dichiarato inammissibile l’appello sulla base di rilievo che la misura interdittiva cautelare applicata era stata, medio tempore, revocata con un provvedimento adottato dal Tribunale del riesame ai sensi degli artt. 17 e 49, comma quarto, del d. lgs. 231/2001 che aveva disposto la restituzione alla società della somma versata a titolo di cauzione, pronunciandosi su di un istanza di revoca avanzata dal procuratore della società appellante, all’esito della valutazione espressa in ordine alla effettiva sussistenza degli adempimenti di tipo riparatorio cui può essere condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive ai sensi dell’art. 17 d. lgs. 231/2001.

Nel ricorso per cassazione si contestava l’erronea applicazione dell’art. 127, comma nono, c.p.p. sul rilievo che la misura interdittiva era stata revocata dopo la proposizione dell’appello e che, dunque, il Tribunale del riesame avrebbe dovuto necessariamente fissare udienza in camera di consiglio nel contraddittorio delle parti, allo scopo di valutare la persistenza dell’interesse della società ad ottenere una pronuncia nel merito in ordine alla originaria mancanza dei gravi indizi e delle esigenze cautelari.

La Sesta Sezione rilevava, in ordine alla censurata assenza di contraddittorio con riferimento alla declaratoria di inammissibilità pronunciata all’esito del procedimento camerale instaurato inaudita altera parte, un risalente contrasto di giurisprudenza.

Secondo un primo orientamento (cfr., ex pluribus, Cass. Pen., sez. III, sent. n. 34823 del 31.1.2017; Cass. Pen., sez. II, sent. n. 22165 dell’8.3.2013; Cass. Pen., sez. VI, sent. n. 8956 del 4.12.2006) l’inammissibilità dell’istanza di riesame, a causa di irregolarità relative alla impugnabilità soggettiva ed oggettiva del provvedimento, all’interesse ad impugnare, alla legittimazione attiva, nonché ai tempi ed alle forme dell’ atto di impugnazione, va dichiarata de plano, ai sensi dell’art. 127, comma nono, c.p.p., in assenza di contraddittorio delle parti, salvo che sia diversamente stabilito.

A sostegno di tale interpretazione si richiama il combinato disposto dagli artt. 127 e 324 c.p.p. non può essere disapplicato e che l’art. 111, comma secondo, della Costituzione prevede una possibilità di deroga non irragionevole qualora siano coinvolti ulteriori valori di rilevanza costituzionale come quello rappresentato dalla ragionevole durata del processo.

Altro orientamento, viceversa, ritiene che la declaratoria di inammissibilità della istanza di riesame proposta avverso una misura cautelare reale debba essere pronunciata non già de plano, ma nel contraddittorio delle parti, ai sensi degli artt. 324, comma 6 e 127, comma primo, c.p.p., ossia all’esito dell’udienza camerale partecipata, in ragione proprio della disposizione contenuta nell’art. 111 Cost., la quale garantisce il contraddittorio nell’ambito di qualsiasi procedimento penale, principale o incidentale, di merito o di legittimità (cfr., ex pluribus, Cass. Pen., sez. III, sent. n. 11690 del 3.3.2015; Cass. Pen., sez. II, sent. n. 4260 del 17.12.2014).

Inoltre, la Sezione remittente osserva, condividendo in parte qua i motivi di doglianza proposti, come non appaia astrattamente inammissibile ritenere persistente l’interesse ad impugnare anche nel caso di intervenuta revoca della misura cautelare interdittiva, ogniqualvolta alla pronuncia in sede di gravame possa ricollegarsi una situazione di vantaggio, ovvero una concreta ed attuale incidenza sulla posizione giuridica del ricorrente, con ricadute significative sul mantenimento o meno di cauzioni provvisorie restate a mezzo di fideiussioni per la partecipazione a gare di appalto; sulla restituzione di ingenti somme versate per ottenere la sospensione della misura interdittiva; sulla rimozione di tutte le possibili conseguenze dannose derivanti dall’applicazione della cautela

Il sopravvenire della fattispecie estintiva della misura interdittiva, inoltre, potrebbe richiedere, quale causa non originaria di inammissibilità del ricorso, lo svolgimento di una puntuale opera di verifica in ordine alla realizzazione delle condizioni previste dall’art. 17 d. lgs. 231/2001, in misura tale da imporre uno scrutinio approfondito circa l’accertamento della permanenza dell’interesse ad impugnare, che solo un contraddittorio camerale in forma partecipata consentirebbe di realizzare nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie della difesa.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, mostrano di aderire al secondo degli orientamenti appena illustrati, muovendo, anzitutto, dal tenore letterale dell’art. 47, comma secondo, d. lgs. 231/2001, il quale disciplina espressamente un contraddittorio anticipato rispetto all’applicazione della misura cautelare interdittiva nei confronti degli enti, atteso che solo la persona giuridica è in grado di fornire al giudicante un adeguato apporto conoscitivo anche in relazione alla eventualità di porre in essere condotte riparatorie idonee ad escludere le sanzioni a norma degli artt. 17 e 49 d. lgs. 231/2001.

Nell’àmbito del sistema cautelare delineato dal d. lgs. 231/2001, il momento dialogico tra le parti assume una valenza peculiare e necessaria in quanto non vengono espressamente richiamate le esigenze cautelari rappresentate dal pericolo di fuga ovvero dal inquinamento probatorio, sicché l’interlocuzione tra l’ente e l’organo giudicante non garantisce soltanto il corretto svolgimento delle prerogative difensive, ma consente altresì al giudice di graduare la misura interdittiva applicata, nell’ottica di una dialettica cautelare sensibile alla permeabilità di condotte riparatorie, ogniqualvolta l’ente decida di adottare idonei strumenti organizzativi in grado di ridurre significativamente il rischio di commissione di illeciti da parte della società.

Ne consegue, pertanto, che la richiesta di sospensione della misura che viene avanzata dall’ente non implica ha fatto la rinuncia, da parte della società, a contestare la fondatezza della domanda cautelare.

Ciò in quanto l’adozione di condotte riparatorie può dipendere dalla necessità di scongiurare, anzitutto, l’applicazione di misure interdittive, la cui eventuale sospensione o revoca non risultano incompatibili con la persistenza dell’interesse a coltivare l’appello cautelare, sia per contestare l’originale legittimità del provvedimento, sia per ottenere la restituzione delle somme versate allo scopo di attingere la sospensione della misura o di altri potenziali effetti sfavorevoli.

Pertanto non può esservi alcun automatismo tra la revoca della misura interdittiva per fatti sopravvenuti e la carenza di interesse all’impugnazione, evidenziandosi con ciò la necessità che il giudice dell’appello cautelare delibi previa interlocuzione con la parte istante, a fronte della complessità delle valutazioni che vengono in rilievo proprio alla stregua del procedimento cautelare delineato dal d. lgs. 231/2001.

Medesime considerazioni valgono in riferimento al intervenuto risarcimento del danno (ex art. 17, comma primo, lett. a) d. lgs. 231/2001) da parte della società al fine di ottenere la restituzione dell’importo versato ed anche alla messa a disposizione del profitto, posto che l’art. 17, comma primo, lett. c) d. lgs. 231/2001 prevede espressamente che l’ente, per poter beneficiare del trattamento premiale, metta a disposizione il beneficio conseguito.

Nondimeno, qualora risultasse l’originaria insussistenza delle condizioni applicative della misura cautelare, il giudice dovrebbe disporre la restituzione delle somme messe a disposizione dall’ente, talché se la sopravvenuta revoca delle misure interdittive dipendesse dall’adozione di condotte riparatorie, la declaratoria di inammissibilità dell’appello non potrebbe essere conseguenza dell’adozione di forme semplificate come quelle previste dall’art. 127, comma nono, c.p.p., esigendosi, al contrario, l’instaurazione di un contraddittorio camerale pieno, in seno al quale valutare la concreta permanenza dell’interesse ad impugnare collegato al raggiungimento di situazioni di vantaggio sostanziali a beneficio dell’ente.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News

Articoli inerenti