Revoca dello status di rifugiato: no al rimpatrio se la vita dello straniero è a rischio
La perdita dello status di rifugiato a seguito della commissione di delitti particolarmente gravi, o per questioni di sicurezza nazionale, non può comportare il rimpatrio nel paese d’origine se lì è messa a rischio la vita dello straniero.
A questa conclusione è giunta la Corte UE con la sentenza nelle cause riunite C-391/2016, C-77/17 e C-78/17, attraverso una lettura combinate delle garanzie previste dalla Carta dei diritti fondamentali Dell’UE e dalla Convenzione di Ginevra.
IL CASO
Causa C‑391/16
Con decisione del 21 aprile 2006, il Ministro dell’Interno ha concesso al sig. M, originario della Cecenia (Russia), il diritto di asilo in quanto quest’ultimo aveva ragioni legittime di temere di essere perseguitato a causa della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche nello Stato di cui è cittadino.
Prima di beneficiare del diritto d’asilo, il sig. M aveva commesso un furto per il quale era stato condannato a una pena detentiva di tre anni. Dopo la concessione del diritto d’asilo, egli è stato condannato inoltre a una pena detentiva di nove anni per aver commesso un furto e un’estorsione in condizioni di recidiva; questa pena doveva essere eseguita presso un istituto penitenziario di massima sicurezza. In considerazione di tali circostanze, il 29 aprile 2014 il Ministro dell’Interno ha deciso di revocare il diritto d’asilo del sig. M e di non concedergli la protezione sussidiaria, in quanto egli era stato condannato in via definitiva per un reato particolarmente grave e rappresentava, pertanto, un pericolo per la sicurezza dello Stato.
Causa C‑77/17
Il 10 marzo 2010, il Tribunale di primo grado di Bruxelles ha condannato il sig. X, cittadino ivoriano, a una pena detentiva di trenta mesi, in parte sospesa, per percosse e lesioni volontarie, detenzione ingiustificata di arma bianca e detenzione di arma vietata. Inoltre, il 6 dicembre 2011, l’interessato è stato condannato dalla Corte d’appello di Bruxelles a una pena detentiva di quattro anni per violenza sessuale su minore di età compresa tra i 14 e i 16 anni.
Il 3 novembre 2015, il sig. X presentava una domanda di asilo a sostegno della quale adduceva il timore di persecuzioni dovute al fatto che il padre e i familiari erano strettamente legati al precedente regime della Costa d’Avorio e all’ex presidente Laurent Gbagbo.
Tuttavia, con decisione del 19 agosto 2016, il commissario generale ha rifiutato, sulla base dell’articolo 52/4, secondo comma, della legge del 15 dicembre 1980, di riconoscere al sig. X lo status di rifugiato, a causa dei reati commessi da quest’ultimo in Belgio. Il commissario generale ha ritenuto che, in considerazione della natura particolarmente grave di queste infrazioni e del loro carattere reiterato, il sig. X costituisse un pericolo per la società, ai sensi di tale disposizione. Per le stesse ragioni, ha ritenuto che occorresse escludere il sig. X dalla protezione sussidiaria, in forza dell’articolo 55/4, paragrafo 2, di detta legge. Tuttavia, in applicazione dell’articolo 52/4 della legge richiamata, il commissario generale ha formulato un parere secondo il quale, in considerazione dei fondati timori di persecuzione, il sig. X non poteva essere respinto direttamente o indirettamente verso la Costa d’Avorio, poiché una misura siffatta di respingimento sarebbe stata incompatibile con gli articoli 48/3 e 48/4 della normativa in questione.
Causa C‑78/17
Con decisione del 21 febbraio 2007, il commissario generale ha riconosciuto al sig. X, cittadino della Repubblica democratica del Congo, la qualità di rifugiato.
Il 20 dicembre 2010, il sig. X è stato condannato dalla Corte d’assise di Bruxelles a una pena detentiva di 25 anni per omicidio e furto aggravato. Con decisione del 4 maggio 2016, il commissario generale gli ha ritirato lo status di rifugiato, in applicazione dell’articolo 55/3/1, paragrafo 1, della legge del 15 dicembre 1980, in quanto, alla luce della natura particolarmente grave dei reati commessi, il sig. X costituiva un pericolo per la società, ai sensi di tale disposizione. Inoltre, in applicazione dell’articolo 55/3/1, paragrafo 3, di detta legge, lo stesso commissario ha formulato un parere secondo il quale l’allontanamento del sig. X sarebbe compatibile con gli articoli 48/3 e 48/4 di detta legge, posto che i timori che il sig. X aveva manifestato durante il 2007 non erano più attuali.
Gli interessati hanno contestato la conformità di tali disposizioni della direttiva alla Convenzione di Ginevra.
I giudici rimettenti in particolare hanno sostenuto che, benché la Convenzione di Ginevra consenta l’espulsione e il respingimento di un cittadino straniero o di un apolide per i motivi di cui sopra, essa tuttavia non prevede la perdita dello status di rifugiato.
Con ordinanza del presidente della Corte del 17 marzo 2017, le cause C‑77/17 e C‑78/17 sono state riunite ai fini delle fasi scritta ed orale del procedimento, nonché della sentenza. Con ordinanza del presidente della Corte del 17 gennaio 2018, queste cause sono state riunite alla causa C‑391/16 ai fini della fase orale del procedimento e della sentenza.
LA DECISIONE DELLA CORTE
La Corte ricorda innanzitutto che, nonostante la direttiva sui rifugiati che rappresentano una minaccia per la sicurezza o sono stati condannati per un reato particolarmente grave stabilisca un sistema di protezione specifico dell’UE, essa è fondata anche sulla Convenzione di Ginevra, di cui mira a garantirne il rispetto.
In tale contesto precisa inoltre che, fintanto che il cittadino di un paese extra-UE o un apolide abbia un fondato timore di essere perseguitato nel suo paese di origine o di residenza, questa persona dev’essere qualificata come rifugiato ai sensi della direttiva e della Convenzione di Ginevra e ciò indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato ai sensi della direttiva le sia stato formalmente riconosciuto. A tal proposito si evidenzia come lo status di rifugiato ha natura meramente ricognitiva e non costitutiva di tale qualità.
Con riferimento invece ai casi in cui la Convenzione di Ginevra prevede la possibilità di privare il rifugiato del beneficio del principio del non respingimento verso un paese dove la sua vita o la sua libertà possano essere minacciate, per la Corte di Giustizia UE la direttiva dev’essere interpretata e applicata nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta, i quali escludono la possibilità di un respingimento verso un tale paese. Infatti, la questa vieta, in termini categorici, la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, e l’allontanamento verso uno Stato dove esista un rischio serio che una persona sia sottoposta a trattamenti di tal genere. In questo senso, il diritto dell’Unione riconosce ai rifugiati interessati una protezione internazionale più ampia di quella assicurata dalla Convenzione.
«Mentre, dunque – si legge nella decisione -, in applicazione della Convenzione di Ginevra, le persone che rientrino in una delle ipotesi descritte dall’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95 possono essere colpite, in forza dell’articolo 33, paragrafo 2, di detta convenzione, da una misura di respingimento o di espulsione verso il loro paese di origine, e ciò persino quando la loro vita o la loro libertà siano ivi minacciate, persone del genere non possono viceversa costituire oggetto, in forza dell’articolo 21, paragrafo 2, di detta direttiva, di un respingimento qualora quest’ultimo faccia loro correre il rischio che siano violati i loro diritti fondamentali sanciti dall’articolo 4 e dall’articolo 19, paragrafo 2, della Carta».
La revoca dello status di rifugiato o il diniego del riconoscimento da parte dello Stato membro interessato sono legittimi e non consentono alla persona di godere del complesso dei diritti e dei benefici che la direttiva riserva ai titolari dello status di rifugiato; tuttavia lasciano intatti un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra.
A tale riguardo la Corte precisa che una persona, avente lo status di rifugiato, deve assolutamente disporre dei diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra ai quali la direttiva fa espresso riferimento nel contesto della revoca e del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato per i suddetti motivi, nonché dei diritti previsti da tale convenzione il cui godimento esige non una residenza regolare, bensì la semplice presenza fisica del rifugiato nel territorio dello Stato ospitante.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
Dall’esame dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6, della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, non risultano elementi tali da incidere sulla validità delle menzionate disposizioni alla luce dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE e dell’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
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Elisa Nardocci
Nata a Viterbo nel 1990, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nel gennaio 2017 presso l'Università di Roma "La Sapienza", discutendo una tesi in diritto processuale civile dal titolo "La conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro", relatrice Prof.ssa Roberta Tiscini.
Dal febbraio 2017 svolge pratica forense presso uno studio legale che si occupa prevalentemente di diritto civile, di famiglia, del lavoro e previdenziale.