Richiedenti asilo in Bulgaria, Consiglio di Stato: c’è il rischio di trattamenti disumani
Il principio di non respingimento è un principio fondamentale del diritto internazionale: infatti, ai sensi dell’art.33 della Convenzione di Ginevra a un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può esso essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. Per effetto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il divieto di refoulement si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia stata riconosciuta rifugiata e/o dall’aver quest’ultima formalizzato o meno una domanda diretta ad ottenere tale riconoscimento. Il refoulement consiste, in sostanza, in qualsiasi forma di allontanamento forzato verso un paese non sicuro.
Nell’ordinamento italiano, al fine di assicurare l’operatività del principio in questione, viene imposto alle autorità procedenti di verificare in concreto le condizioni del Paese un cui verrà effettuato il trasferimento dei soggetti indicati, cosi come stabilito dall’art. 3, par. 2, regolamento UE n. 604/2013.
A tal proposito è intervenuta una recente sentenza del Consiglio di Stato con la quale sono stati specificati i contorni di tale principio (C.d.S., sez III, 3 novembre 2017, n. 5085).
Il caso
Un soggetto era fuggito dal suo Paese di origine, l’Afghanistan, a causa della gravissima situazione di instabilità politica e sociale, che da anni con sanguinosi scontri tra opposte fazioni caratterizza la vita quotidiana di quel Paese. Così, in seguito, egli formulava un’istanza diretta ad ottenere la protezione internazionale.
La Direzione Centrale dei Servizi per l’Immigrazione e l’Asilo – Unità Dublino, l’ufficio preposto all’espletamento delle procedure dirette a determinare lo Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale ai sensi del Regolamento UE n. 604 del 2013 (c.d. “Dublino III”), rilevava, sulla base del riscontro delle impronte digitali del sistema EURODAC, che il richiedente aveva in precedenza presentato una analoga istanza in Bulgaria.
Sulla base di questo rilievo l’Unità Dublino indirizzava alla Bulgaria una richiesta di presa in carico ai sensi dell’art. 18, par. 1, lett. b), del Regolamento UE n. 604 del 2013. In seguito all’accettazione della presa in carico da parte della Bulgaria, pertanto, l’Unità Dublino disponeva il trasferimento del richiedente in Bulgaria.
Avverso tale provvedimento l’interessato proponeva ricorso avanti al T.A.R. per il Lazio deducendone l’illegittimità per due distinti profili (incentrati, rispettivamente, sulla violazione degli artt. 3, par. 2, e dell’art. 17 del Regolamento, per il dedotto rischio di trattamenti disumani e degradanti in Bulgaria, e sulla violazione dell’art. 4 del medesimo Regolamento, per la lesione del suo diritto di informazione), ne ha chiesto, previa sospensione in via cautelare, l’annullamento.
Con la sentenza n. 11860 del 19 ottobre 2015, resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., il T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, respingeva entrambi i motivi del ricorso.
Avverso tale sentenza proponeva appello il richiedente e, nel censurarne l’erronea reiezione di entrambi motivi proposti in primo grado, ne domandava, previa sospensione dell’esecutività, la riforma, con il conseguente annullamento dell’atto in prime cure gravato.
La decisione
Il Collegio ha ritenuto assorbente il primo vizio dedotto dall’appellante, concernente la violazione dell’art. 3, par. 2, del Regolamento UE n. 604 del 2013.
Il primo giudice, sul punto, ha ritenuto che, «sulla base dei documenti depositati in giudizio dell’amministrazione a seguito dell’istruttoria disposta dal Tribunale, è emerso il miglioramento delle condizioni dei richiedenti protezione internazionale in Bulgaria, tale da non potere configurare le carenze sistemiche nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti di cui all’art. 3 del Regolamento n. 604 del 2013».
Ma questa conclusione, alla luce dell’istruttoria disposta in secondo grado, non è apparsa condivisibile. Invero – secondo i Giudici – pur ammettendo un sostanziale miglioramento delle condizioni dei richiedenti asilo in Bulgaria, soprattutto negli ultimi mesi, e del significativo sforzo profuso in tal senso dal Governo bulgaro, anche per effetto degli ingenti stanziamenti disposti dall’Unione europea, il Governo bulgaro non ha fornito <<elementi tali da rassicurare convincentemente circa l’effettivo raggiungimento di livelli di accoglienza tali da scongiurare il fondato dubbio che sussistano, a tutt’oggi, carenze sistemiche nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti, che implichino il rischio di un trattamento disumano o, comunque, degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea>>.
In una relazione ministeriale depositata agli atti del giudizio, in particolare, il Governo bulgaro dava atto che «i centri di accoglienza di competenza del Ministero dell’Interno [bulgaro, n.d.r.], al 30.6.2017, presentano ampi margini di capienza, e le condizioni materiali appaiono in costante miglioramento». Tuttavia, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che non meglio precisate tali condizioni sul piano alloggiativo, igienico-sanitario, educativo e/o ricreativo per eventuali minori ospitati, né quale fosse il dato “di partenza” rispetto al quale le condizioni materiali sarebbero state “migliorate”, essendo la nozione di “miglioramento” un concetto relativo, da rapportarsi necessariamente ad una iniziale condizione peggiore e, tuttavia, niente affatto specificata nella relazione.
Una simile incertezza in ordine alle condizioni dei richiedenti asilo risalta ancor più rispetto al dato, pure ricordato nella parte conclusiva di una seconda relazione ministeriale depositata agli atti, che l’ufficio di Sofia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (di qui in avanti, per brevità, UNCHR) diramava, il 24 luglio 2017, una comunicazione nel quale elogiava gli sforzi del Governo bulgaro per la creazione di un meccanismo qualitativamente migliore e più efficace per l’integrazione dei rifugiati, ma trascurando che tali sforzi intervenivano su una pregressa e ben nota situazione di grave sistemica carenza, al punto tale che un recente report dell’UNHCR pubblicato nell’agosto di quest’anno, pur dando atto di una sensibile diminuzione dei flussi migratori in Bulgaria, ricorda la testimonianza di molti rifugiati, che riferiscono di aver subito «abusi nelle mani dei contrabbandieri, oltre che di essere stati picchiati, attaccati dai cani della polizia e respinti dalle autorità di confine» («abuses at the hands of smugglers, as well as being beaten, set upon by police dogs and pushed back by some borders authorities»), offrendo un quadro ben poco rassicurante del modo con il quale vengono trattati i rifugiati e, più in generale, i richiedenti asilo in Bulgaria.
Invero, nel pur vasto e non omogeneo quadro delle pronunce dei giudici europei sui trasferimenti disposti dalle varie autorità degli Stati membri in Bulgaria (v., nel senso della loro legittimità per la non provata esistenza di condizioni disumane e/o degradanti, ad esempio, la Cour administrative d’appel de Bordeaux, 30 gennaio 2017, n. 16BX03424, o il Tribunal administratif du Grand-Duché de Luxembourg, 5 aprile 2017, n. 39356 e, nell’opposto senso della loro illegittimità per il rischio di tali condizioni, il Bundesverwaltungsgericht, il Tribunale federale amministrativo svizzero, 5 settembre 2017, E-305/2017, il quale rileva, invece, che «das Asylwesen in Bulgarien gewisse Mängel aufweist» e, cioè, che il sistema di asilo in Bulgaria «manifesta alcune carenze»), la decisione n. 484 del 9 giugno 2017 della Corte costituzionale austriaca (Verfassungsgerichtshof), la quale ha annullato una pronuncia della Corte suprema amministrativa (Bundesverwaltugnsgericht) che, nel respingere il ricorso proposto dal richiedente asilo afgano contro il proprio trasferimento in Bulgaria, si era fondata sull’arbitrario convincimento («mit Willkür belastet») secondo cui le condizioni dei richiedenti asilo fossero sicure, in contrasto con le risultanze istruttorie emerse nel giudizio amministrativo austriaco, risultanze non dissimili da quelle sin qui esaminate.
Conformemente all’orientamento già assunto dal Consiglio di Stato (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 27 settembre 2016, n. 3999), pertanto, il Collegio ha ritenuto, sulla scorta degli elementi sin qui analizzati e anche alla luce della più recente giurisprudenza delle Corti supreme europee intervenuta sul punto, che non vi siano elementi affidabili per ritenere che le condizioni dei richiedenti in asilo in Bulgaria offrano sicure garanzie di rispettare i diritti fondamentali dello straniero e siano tali da scongiurare il fondato rischio di trattamenti disumani e degradanti, siccome prevede l’art. 3, par. 2, del Reg. UE n. 604 del 2013.
In questa materia e sul piano del diritto internazionale opera, necessariamente, un principio di cautela a garanzia degli incomprimibili diritti fondamentali dello straniero, principio che impone al giudice nazionale di annullare il provvedimento di trasferimento in uno Stato che non assicuri idonee condizioni di accoglienza dei richiedenti tutte le volte in cui sussista non solo la prova certa, ma anche il ragionevole dubbio che sussistano carenze sistemiche in tali condizioni di accoglienza, anche ai sensi dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, siccome interpretato dalla Corte di Strasburgo (sul principio del ragionevole dubbio, in linea generale, v. la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 22 marzo 2005, Ay c. Turchia, e in particolare i §§ 59-60).
Anche questo ragionevole dubbio all’esito di un’attenta istruttoria circa tali concrete condizioni, infatti, può assurgere a fondato motivo di diniego (o di annullamento) del trasferimento, ai sensi dell’art. 3, par. 2, e dell’art. 17 del Regolamento UE n. 604 del 2013 e dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, poiché solo la certezza di condizioni consone alla dignità umana nello Stato di destinazione può costituire il presupposto irrinunciabile per garantire l’effettivo rispetto dei diritti fondamentali dello straniero da trasferire.
Al riguardo, che la presunzione secondo la quale lo straniero sarà trattato nello Stato individuato come competente ai sensi del regolamento “Dublino III” nel rispetto dei suoi diritti fondamentali è solo relativa e ben può essere vinta dalla dimostrazione di elementi o, comunque, da un principio di prova che rendano dubbio il rispetto di tali diritti, dimostrazione che può essere data dallo straniero anche attingendo a fonti, attendibili ed oggettive, che non siano quelle messe a disposizione dallo Stato straniero interessato.
E tanto in accordo non solo con quanto ha chiarito la Corte di giustizia UE, già da anni, a far data dalla pronuncia del 21 dicembre 2011, N.S. e altri, cause riunite C-411/10 e C.-493/10, ma soprattutto in conformità con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in numerose pronunce – v., per tutte, sentenza del 21 gennaio 2011, causa M.S.S. c. Belgio e Grecia – e già con riferimento al precedente regolamento “Dublino II” ha costantemente ribadito che gli Stati contraenti non possono fondarsi sulla presunzione che il richiedente asilo sia trattato conformemente agli obblighi internazionali ed europei assunti dal Paese verso il quale dispongono il trasferimento, senza accertarsi che la misura non equivalga, nella pratica, a refoulement.
Di tali essenziali valori di civiltà giuridica, riconosciuti non solo dai regolamenti e dai trattati fondamentali della UE, oltre che dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche dalle Corti supreme quali principî di diritto consuetudinario e, in quanto tali, fonti primarie del diritto internazionale, deve farsi attento interprete e rigoroso custode anche il giudice nazionale, e qui in particolare il giudice amministrativo, al quale non è affatto estranea nel quadro del nostro sistema di garanzie giurisdizionali, come ha già chiarito la Corte costituzionale (v., ex plurimis, Corte cost., 27 aprile 2007, n. 140), anche la tutela dei diritti fondamentali.
Applicando tali principî al caso di specie, in concreto, il Collegio ha rilevato che, di fronte al dubbio in ordine a tali carenze sistemiche nelle condizioni di accoglienza, il trasferimento del richiedente asilo in Bulgaria si pone in contrasto con la previsione dell’art. 3, par. 2, del Regolamento UE n. 604 del 2013 e con quella dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, <<poiché non garantisce con certezza o, comunque, al di là di ogni ragionevole dubbio il rispetto dei diritti fondamentali del richiedente in tale Stato, ragionevole dubbio che ben ricorre allorché lo straniero, tra l’altro, venga sottoposto per ragioni di ordine pubblico, e in attesa che la sua domanda sia esaminata, a forme più o meno stringenti di detenzione amministrativa nei centri di accoglienza>>.
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