Rider e caporalato: la vicenda di Uber Eats Italy
Nell’Era del commercio digitale, il problema della tutela dei lavoratori ha assunto nuova fisionomia. Le difficili condizioni di lavoro cui sono sottoposti i “rider”, i fattorini del web, sono diventate ben note al dibattito sociale e politico. Recentissimo è, infatti, il D.L. “tutela riders” n. 101/2019 convertito dalla legge n. 128/2019. Tale legge si è preoccupata di introdurre, per la prima volta, forme di tutela minima per i rider attraverso la previsione di standard retributivi minimi (fissati dai contratti collettivi) nonchè attraverso la stipula di un’ assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, al fine di contrastare questa nuova forma di lavoro nero. Secondo la legge sono “rider” : “tutti i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipidi o veicoli a motore, attraverso piattaforme anche digitali”. Si considerano, poi, piattaforme digitali: “i programmi e le procedure informatiche utilizzate dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione.” La peculiarità di questa attività di consegna si riniviene – pertanto – nel fatto che i rider, quali lavoratori autonomi e spesso occasionali, fungono da intermediari tra i clienti e i produttori di beni richiesti, attraverso un sistema di prenotazioni e pagamenti gestito da una piattaforma digitale ad hoc.
La questione della tutela dei rider si è da ultimo riproposta in seguito alla vicenda che ha coinvolto la piattafroma di delivery alimentare Uber Eats Italy s.r.l., quale società appartenente alla “galassia Uber” (società americana nata nel settore del trasporto privato).
Il 28 maggio 2020 il Tribunale di Milano, infatti, ha applicato a Uber italy s.r.l la misura di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 d lgs. 159/2011 (Codice Antimafia). Si tratta di una misura di prevenzione che ha lo scopo di realizzare un repulisti delle imprese commerciali la cui attività si sospetta possa agevolare, o abbia agevolato, la commissione di taluni reati – tassativamente previsti – da parte di soggetti terzi, a loro volta destinatari di misure di prevenzione patrimoniali o personali. In sostanza, si sottopongono ad amministrazione giudiziaria le imprese non direttamente illecite bensì collaterali e contigue ad altre imprese illecite (o sospette tali) quando si dimostri – anche per via indiziaria – la “conoscenza o conoscibilità” dell’altrui attività illecita. In tal modo, si supera il dualismo “sequestro preventivo-confisca”, che colpisce solitamente le imprese totalmente criminali, al fine di garantire maggiore proporzionalità e adeguatezza della misura di prevenzione qualora sia possibile risanare l’impresa “quasi” illecita.
Nel caso di specie, Uber italy s.r.l avrebbe agevolato l’attività di talune imprese che reclutano rider con modalità idonee ad integrare la fattispecie di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, in gergo cd. caporalato, di cui all’art. 603 bis c.p.; fattispecie ricompresa nel catalogo di delitti per cui si prevede l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria.
Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è stato introdotto nel Codice penale con il D.L. 138/2011 allo scopo di tutelare la libertà individuale e morale dei lavoratori, onde superare un sistema repressivo che aveva come obbiettivo”solo” la tutela del monopolio pubblico nell’intermediazione del lavoro. La legge Biagi (276/2003), infatti, aveva previsto semplici contravvenzioni per le ipotesi di illecita intermediazione del lavoro (quando non svolta dai centri per l’impiego et similia) e le carenze di tale regime giuridico comportavano la sussunzione delle condotte contro i lavoratori sotto altre ipotesi di delitti di liberticidio (ad es. riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù ex artt. 600 e ss. c.p. etc.). Tali fattispecie, tuttavia, non erano adeguate alle peculiarità delle vicende che colpivano i lavoratori e, pertanto, è stato necessario l’ innesto normativo.
Il delitto de quo rientra a pieno titolo tra i “delitti di liberticidio” con tale espressione intendendosi quei delitti che offendono lo status libertatis della persona, e cioè tutto l’insieme delle libertà in cui si esprime l’essere umano, fino a renderlo solo una res. La “reificazione” della persona può avvenire di diritto (sebbene siano pochi i Paesi che ancora legittimano forme di schiavitù) o, come avviene anche nei contesti più “civilizzati”, di fatto, attraverso la compressione o l’annientamento della libertà fisica o psichica. Il fenomeno del caporalato ha, peraltro, origini antiche e oggi ha acquistato nuova forza a causa dei fenomeni migratori che forniscono mano d’opera a bassissimo costo – specie nel settore agricolo – a tutto vantaggio delle organizzazioni criminali. Il delitto di cui all’art. 603bis si estrinseca nelle due condotte di: intermediazione- reclutamento della mano d’opera fini a se stessi; intermediazione-reclutamento a fini di gestione dell’attività lavorativa in condizioni di sfruttamento. Entrambe le ipotesi devono essere realizzate sfruttando lo stato di bisogno e di necessità dei lavoratori e costituiscono fattispecie aggravate qualora connotate dall’uso di violenza o minaccia o intimidazione (pertanto impiegate quale “mezzo” per ottenere la “sottomissione” dei lavoratori ). Sul piano dogmatico, secondo la migliore dottrina, si tratta di una “norma mista cumulativa” per cui il soggetto risponde una sola volta del reato de quo pur quando realizzi più condotte tra quelle indicate. Inoltre, si tratta di un reato eventualmente abituale potendo essere integrato anche da una sola condotta di intermediazione. Le condizioni di sfruttamento del lavoro ricorrono poi, secondo la norma, quando: i lavoratori siano retribuiti sistematicamente in modo difforme dai contratti collettivi o in modo sporporzionato dalla quantità e qualità del lavoro prestato; quando vi sia sistematica violazione della normativa in materia di orario di lavoro, di ferie etc., o violazione delle norme antiinfortunistiche tale da mettere in grave pericolo l’incolumità e la vita dei lavoratori; e, più in generale, quando il lavoratore sia sottoposto a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o condizioni abitative degradanti. Evidente è, in questi casi, la pura mercificazione dell’attività lavorativa delle vittime da cui discende, inoltre, una condizione di vita del tutto lesiva della dignità umana. La pena prevista è da 1 a 6 anni (o da 5 a 8 anni se le condotte sono commesse con violenza o minaccia) più una multa da 500 a 1000 euro (o da 1000 a 2000 euro) per ogni lavoratore reclutato.
Il procedimento che ha condotto all’applicazione dell’amministrazione giudiziaria di Uber Eats ha svelato, attraverso un preciso e ricco quadro indiziario, che le imprese che gestiscono i rider che fanno le consegne per conto di Uber sono connotate da una struttura organizzativa illecita, sia nei rapporti lavorativi con personale mai regolarmente assunto, sia nei rapporti di collaborazione con una vasta schiera di fattorini, che operano in numerose città italiane in nome e per conto del colosso Uber. Nello specifico, Uber Eats Italy si è servita di due imprese milanesi – la Flash Road City e la società FRC s.r.l. – alle quali si contestano le condotte di intermediazioni illecita di cui al 603bis. Infatti, i riders di cui tali imprese si servono sono per lo più migranti, spesso dimoranti presso centri di accoglienza, che vengono retribuiti a cottimo per una cifra pari a tre euro netti per ciascuna consegna, e a prescindere dalle singole circostanze di consegna tra cui la distanza chilometrica da percorrere, l’orario notturno della prestazione o le condizioni climatiche. E’ poi previsto un sistema di “penali” qualora i fattorini si rifiutino di effettuare alcune consegne o queste ultime vengano cancellate dai clienti. Si è rilevato, inoltre, che i lavoratori impiegati erano spesso privati arbitrariamente della retribuzione (già peraltro irrisoria) e che la loro salute non era tutelata in alcun modo, soprattutto a fronte del notevole incremento dell’attività di delivery registratosi durante l’epidemia di Covid-19. Le condizioni lavorative erano sempre accompagnate da un atteggiamento intimidatorio che si sostanziava nella minaccia della futura disattivazione dell’account utilizzato per le consegne e, quindi, di non potere più lavorare per la piattaforma Uber. Il Tribunale, poi, ha affermato che le imprese indagate avrebbero impiegato, in fatto, lavoratori subordinati a tutti gli effetti poichè si servivano sempre della stessa “schiera di fattorini” per la gestione delle consegne da taluni ristoranti.
Quanto alla responsabilità di Uber Eats, l’attività investigativa, attraverso numerosissime intercettazioni telefoniche e documenti contabili, ha poi dimostrato che quest’ultima era ben consapevole delle modalità di assunzione e gestione dei lavoratori posto che le società italiane si erano sempre avvalse di figure professionali già alle dipendenze della stessa e che essa aveva omesso, di fatto, ogni controllo sul concreto svolgimento dell’attività lavorativa svolta pur sempre a suo nome e per suo conto.
In tal modo Uber Eats, impresa contingua a quelle indiziate di delitto, aveva agevolato la commissione del delitto di caporalato e, per questo motivo, se ne è disposto il controllo giudiziario per (almeno) un anno.
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Giulia Basile
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