Riducibilità retroattiva delle astreintes: note a margine di Cons. St., sez. V, ord., 4 marzo 2019, n. 1457

Riducibilità retroattiva delle astreintes: note a margine di Cons. St., sez. V, ord., 4 marzo 2019, n. 1457

Sommario: 1. Il fatto – 2. Il diritto – 3. Il problema sottoposto alla Plenaria – 4. Il quesito

Con ordinanza n. 1457 del 4 marzo 2019, la sezione V del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria le questioni:

a) se e in quali termini sia possibile in sede di cd. ottemperanza di chiarimenti modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza;

b) se e in che misura la modifica predetta possa incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata.

1. IL FATTO

Con sentenza del febbraio 2009, il Consiglio di Stato confermava l’annullamento della determina dirigenziale del Comune di Roma avente a oggetto l’approvazione della graduatoria della gara per l’individuazione del soggetto concessionario di un impianto sportivo a fronte di un canone annuo di € 95.000,00, da corrispondersi in forma di servizio di manutenzione del verde su aree individuate dall’amministrazione comunale.

A fronte dell’inerzia serbata dall’amministrazione comunale a seguito dell’emissione della sentenza, in sede di ottemperanza, il giudice comminava l’applicazione di una penalità di mora a norma dell’art. 114, co.4, lett. e), c.p.a. nella misura di € 300,00 per ciascun giorno di ritardo rispetto al termine fissato per l’adempimento, soggiungendo, inoltre, un meccanismo di progressivo incremento dell’entità dell’astreintes.

Successivamente, l’amministrazione comunale formulava una richiesta di chiarimenti a norma dell’art. 112, co.5, c.p.a., e a ciò faceva seguito un’ordinanza del 2017, con cui il Collegio giudicante indicava le precisazioni ritenute opportune.

Con successivo ricorso in ottemperanza, il beneficiario della penalità di mora, applicata dal giudice fin dal lontano 2011, agiva per l’attuazione della sentenza nonché della successiva ordinanza avente a oggetto i chiarimenti richiesti dall’amministrazione comunale.

All’esito di questo iter fattuale, risultava che la penalità di mora, secondo il criterio di calcolo stabilito dal giudice dell’ottemperanza nel 2011, ammontava a 7,5 miliardi di euro, divenendo, quindi, nettamente maggiore rispetto all’utilità che il ricorrente (Real Fettuccina) voleva conseguire.

2. IL DIRITTO

Al fine di una migliore intelligibilità della sentenza, si rende necessario un breve inquadramento sistematico.

Le astreintes sono modelli giurisprudenziali presenti nell’ordinamento francese di coercizione indiretta al fine di spingere un obbligato inadempiente alla coazione all’adempimento.

Consistono in una somma da pagare da parte del debitore inadempiente qualora questo si rifiuti di ottemperare all’ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta.

Secondo la giurisprudenza, l’istituto introdotto con l’art. 114, comma 4, lettera e), c.p.a. costituisce una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, che mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’obbligazione posta a suo carico dal giudice.

Detta misura assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria in quanto non mira a riparare il pregiudizio cagionato dall’esecuzione della sentenza ma vuole sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento. Trattasi, cioè, di una pena e non di un risarcimento (Cons. St. V, n. 6688/2011).

La norma, quindi, dà la stura a un meccanismo automatico di irrogazione di penalità pecuniarie in nome dei valori dell’effettività e della pienezza della tutela giurisdizionale a fronte della mancata o non esatta o non tempestiva esecuzione delle sentenze emesse nei confronti della pubblica amministrazione e, più in generale, della parte risultata soccombente all’esito del giudizio di cognizione (Fratini M., Manuale sistematico di diritto amministrativo, 2018, p. 1559).

Il modello della penalità di mora trova un antecedente, nell’ambito del processo civile, nell’art. 614bis c.p.c.

La disposizione citata ha previsto la possibilità per il giudice civile di disporre la condanna dell’obbligato alla corresponsione di una « somma di denaro dovuta […] per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento ».

Tuttavia, tra la disciplina amministrativa e quella civilistica emergono alcune differenze. La più rilevante attiene alla circostanza per cui mentre nel giudizio civile la penalità di mora è applicabile a tutte le tipologie di sentenze, nel giudizio amministrativo è riferibile solo alle sentenze pronunciate in sede di ottemperanza.

Acclarato il fondamento normativo, in punto di ratio, l’istituto si ispira alla disciplina francese delle astreintes, la cui finalità consiste nell’indurre il debitore inadempiente, obbligato ad un fare infungibile o a un non fare, ad adempiere attraverso uno strumento indiretto di coercizione (DAIDONE – PATRONI GRIFFI, 1062).

In virtù della sua diretta derivazione dal modello francese delle cd. astreintes, la penalità di mora assolve una funzione sanzionatoria, e non risarcitoria, in quanto non mira a riparare il pregiudizio cagionato dall’inesecuzione della sentenza, ma vuole piuttosto sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento, integrando uno strumento di pressione nei confronti della P.A., inteso ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obbligo conformativi discendenti dal decisum giudiziale (Fratini, 1560).

La penalità di mora, quindi, è tesa a soddisfare un’esigenza di pienezza della tutela di origine sovranazionale.

Secondo i ripetuti moniti della Corte EDU, “il diritto a un tribunale sarebbe fittizio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato membro permettesse che una decisione giudiziale definitiva e vincolante restasse inoperante a danno di una parte”.

Questa esigenza di pienezza della tutela, discendente dai moniti della Corte EDU, nel diritto amministrativo è, per vero, garantita anche, e soprattutto, attraverso l’istituto del commissario ad acta.

Tuttavia i due istituti, penalità di mora e commissario ad acta, soddisfano quell’esigenza di pienezza della tutela attraverso modalità differenti.

La penalità di mora è tesa, infatti, a stimolare l’adempimento indiretto, minacciando l’applicazione di una sanzione; il commissario ad acta, viceversa, costituendo un ausiliario del giudice, garantisce l’adempimento diretto dell’obbligazione, per il tramite della sostituzione.

Dalla diversità strutturale e funzionale dei due istituti, muove quella giurisprudenza che ritiene la non necessaria alternatività della penalità di mora alla nomina di un commissario ad acta.

Infatti, è stato ritenuto che tale istituto è compatibile con la nomina di un commissario ad acta, che, tuttavia, esclude la possibilità di condannare l’amministrazione al pagamento di una penalità di mora nel caso in cui il ritardo consegua all’inerzia dell’ausiliario del giudice (T.A.R. Campania (Napoli) VIII, n. 959/2012; T.A.R. Liguria I, n. 194/2013).

Venendo al perimetro applicativo dell’art. 114, co. 4, lett. e), c.p.a., in passato si riteneva che dovesse escludersi la possibilità di far ricorso all’astreinte quando l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro.

Ciò attesa l’iniquità della correlata condanna, consistente nel pagamento di una somma di denaro, laddove l’obbligo oggetto di domanda giudiziale di adempimento è esso stesso di natura pecuniaria, ed è già assistito, a termine del vigente ordinamento, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi (T.A.R. Lazio (Roma) I, n. 10305/2011).

Invero, la fisionomia della penalità di mora, connotata da una marcata matrice sanzionatoria, impedisce di distinguere, ai fini di una sua applicazione, a seconda della natura della condotta ordinata dal giudice, posto che anche per le condotte di facere o non facere, al pari di quelle aventi ad oggetto un dare (pecuniario o no), vige il requisito della surrogabilità/fungibilità della prestazione e, quindi, l’esigenza di prevedere un rimedio compulsivo volto ad integrare quello surrogatorio (Cons. St. Ad. plen.,n. 15/2014; Fratini, 1560).

3. IL PROBLEMA SOTTOPOSTO ALLA PLENARIA

Acclarata la funzione dell’istituto in commento, occorre soffermarsi sulle argomentazioni rese da Cons. St., sez. V, ord., 4 marzo 2019, n. 1457 a fondamento della rimessione della questione all’Adunanza Plenaria.

In particolare, l’ordinanza del Consiglio di Stato evidenzia il possibile contrasto che può generarsi fra penalità di mora e principi di proporzionalità, congruenza e ragionevolezza che governano l’ordinamento giuridico, nella parte in cui l’ammontare della penalità di mora ecceda, notevolmente, il bene della vita  atteso dal privato.

La finalità sanzionatoria della penalità di mora, pur sganciando l’istituto dai criteri di calcolo del risarcimento del danno, non osta a che il suo ammontare non sia abnorme rispetto all’ammontare dell’utilità sottesa all’interesse del ricorrente, ponendosi in contrasto con il principio di ragionevolezza e proporzionalità della pena.

Inoltre, l’eccessività dell’ammontare della penalità di mora potrebbe, per il privato beneficiario, rappresentare un’utilità maggiore rispetto al conseguimento del bene della vita atteso; l’inerzia, quindi, da comportamento sanzionabile poiché contrario agli interessi dei consociati, costituirebbe una fonte di indebito arricchimento per gli stessi.

A fronte di ciò, si pone la questione di quali siano gli strumenti e i termini di controllo giudiziale circa la non manifesta iniquità e l’insussistenza di altre ragioni ostative.

Segnatamente, evidenzia il Consiglio,  si tratta più in particolare di chiarire – quale punto di diritto che ha dato e può dar luogo a contrasti giurisprudenziali (art. 99, comma 1, Cod. proc. amm.) – se tale controllo debba avvenire nella sola fase di comminatoria della misura, senza che poi più possa il giudice intervenire alla luce di modalità e tempi di avvenuto adempimento e di altri fatti sopravvenuti, a causa di una cristallizzazione della decisione in una sorta di giudicato intangibile; oppure se la misura possa, per dette o altre ragioni, essere poi ridefinita, in fase di attuazione, attraverso lo strumento – come nella specie si domanda – dei chiarimenti sulle modalità d’ottemperanza o altre forme. In questa seconda ipotesi, si pone un ulteriore quesito – che del pari rileva ai fini della presente questione – circa la portata degli effetti della pronuncia modificativa: segnatamente, in ordine alla possibilità che la revisione della misura possa avere effetto anche retroattivo, incidendo – in ragione dell’avvenuta soddisfazione dell’interessato e delle sue modalità – sul debito già maturato per via delle pregresse violazioni, inosservanze o ritardi dell’amministrazione.

Nel porsi questi due interrogativi, il Consiglio richiama due correnti interpretative che si sono sviluppate sul tema.

Secondo alcuni, il giudizio di chiarimenti in sede di ottemperanza non è sede in cui si può affrontare la questione avente a oggetto un’astreinte divenuta manifestamente iniqua, poiché, data la natura regolatoria, inidoneo a modificare il contenuto di una sentenza d’ottemperanza.

Di diverso avviso è invece questo Collegio, che ritiene non inammissibile una revisione, in sede di chiarimenti, del capo della sentenza d’ottemperanza che abbia imposto una siffatta penalità di mora. Sicché il controllo sulla – eventualmente sopravvenuta – manifesta iniquità e sull’insussistenza di altre ragioni ostative all’astreinte o alla sua misura resta immanente al concreto divenire del processo di ottemperanza e va fattivamente assicurato, pur in fase di applicazione della misura, mediante lo strumento dei chiarimenti ex artt. 112, comma 5, e 114, comma 7, Cod. proc. amm..

Nel sostenere l’assunto, il Consiglio evidenzia che la penalità di mora, alla luce della funzione espletata, non è elemento che compone il giudicato di una sentenza di ottemperanza, in quanto accessoria e meramente strumentale a garantire l’esecuzione la soddisfazione della pretesa del privato.

In particolare, il Consiglio osserva: la statuizione di una penalità di moravada considerata alla stregua di una misura strumentale di amministrazione dell’esecuzione della sentenza ottemperanda, vale a dire di misura solo “soggettivamente” giurisdizionale, come tale estranea alla funzione propria del ius dicere e dunque non passibile di formare un autentico giudicato: perciò la misura disposta non resta intangibile, com’è invece proprio delle statuizioni passate in giudicato.

La statuizione sull’astreinte non attiene infatti alla res controversa, né come petitum né come causa petendi. Essa risulta per questo estranea – sotto il profilo accertativo – alla res iudicata sostanziale (art. 2909 Cod. civ.). Esclusa la natura risarcitoria della penalità e il suo carattere di reintegrazione patrimoniale, e circoscrittane la funzione a mero strumento occasionale d’induzione alla realizzazione dell’adempimento, non è rinvenibile nella statuizione alcun effettivo momento d’accertamento giudiziale, cui possa seguire l’autorità di giudicato. Non vi è infatti una cognizione su menomazioni patrimoniali da compensare o reintegrare, ma solo una valutazione di scelta del mezzo più congruente (l’astreinte) rispetto al fine (l’effettiva ottemperanza della sentenza), in luogo della nomina del commissario ad acta. Analogamente a quella misura massima, surrogatoria, anche la più lieve astreinte è dunque revocabile e modificabile. Sotto altro profilo, la stessa decisione che impone la penalità non pare comunque assimilabile al giudicato d’ottemperanza stricto sensu, perché è una misura accessoria, dal carattere meramente sanzionatorio, introdotta dal giudice dell’ottemperanza, al fine del pieno e corretto adempimento degli obblighi prescritti dalla sentenza di cognizione.

12.4. In ragione di ciò, l’imposizione dell’astreinte non sottende un accertamento con forza di giudicato, né corrisponde a un provvedimento giurisdizionale definitivo propriamente detto. Al contrario, poggia su una contingente valutazione d’opportunità, tutta interna al già strumentale processo di ottemperanza, nel rapporto fra mezzo e fine: tanto che si concretizza in una mera sanzione per il perdurare dell’inottemperanza. È naturale conseguenza di tutto ciò che la vicenda della misura possa seguire le vicende dell’adempimento cui è strumentale, sicché possa essere modificata al mutare delle circostanze di fatto (e di diritto) inerenti l’adempimento della decisione ottemperanda. Non è ius dicere, ma solo uso occasionale di una risorsa disponibile per meglio realizzare il precetto contenuto dalla sentenza di cognizione e così raggiungere sollecitamente l’obiettivo pratico di conformare la situazione di fatto alla situazione di dichiarato diritto.

12.5. In questa prospettiva, le sopravvenienze alla statuizione, che già sono idonee a incidere sul contenuto concreto degli obblighi dell’amministrazione in relazione ai tratti di attività discrezionale lasciati impregiudicati dalla sentenza e relativi a situazioni giuridiche durevoli (Cons. Stato, Ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11), ben possono rilevare anche per la determinazione – e l’adattamento – del contenuto delle misure sanzionatorie prima disposte dal medesimo giudice dell’ottemperanza.

Chiarita la natura strumentale e sanzionatoria dell’astreinte, quindi, sembra irragionevole precludere al giudice una sua modifica, tanto più allorché le conseguenze pratiche dell’applicazione della misura diano luogo a risultati economici manifestamente sproporzionati, incongrui, irragionevoli.

In questo contesto si colloca il cennato tema della retroattività della revisione o modifica della disposta astreinte: se cioè si possa incidere anche sul periodo pregresso, così travolgendo il credito a titolo di penalità già maturato in favore dell’interessato.

Il quesito, tuttavia, non costituisce un vero problema alla luce dell’inquadramento della natura e della funzione della penalità di mora.

Infatti, le medesime ragioni illustrate a sostegno della possibilità di mutare il precetto sanzionatorio (retro, sub §§ 12-12.5) conducono ad affermare che la revisione possa esplicare effetti anche rispetto al passato, secondo la prudente valutazione del giudice dell’ottemperanza, con il solo limite dell’irretroattività in peius della misura (in applicazione del generale principio del divieto di applicazione retroattiva di precetti afflittivi, che rifluisce nell’inutilizzabilità dello strumento dell’astreinte per gli inadempimenti pregressi dell’amministrazione: cfr. Cons. Stato, IV, 14 maggio 2015, n. 2444; 22 maggio 2014, n. 2653).

In tale prospettiva, all’intervenuto mutamento delle circostanze poste alla base della valutazione sanzionatoria del giudice, l’entità della penalità può ben formare oggetto di riconsiderazione ove siffatto mutamento ne dimostri, anche per quanto concerne il passato, l’eccessività.

4. IL QUESITO

Acclarata la natura, la funzione e il carattere accessorio strumentale della penalità di mora che, in quanto tale, sembra esulare dal giudicato, di guisa che la stessa è passibile di modificazione allo scopo di adattarla alle peculiarità di cui la fattispecie, di volta in volta, si connota, il Consiglio si interroga, in punto di strumento processuale,

  1. se e in quali termini sia possibile in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza;

  2. se e in che misura la modifica di detta statuizione possa incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata.


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Nato a Reggio Calabria nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nel maggio 2012, presso l'Università degli Studi di Reggio Calabria, discutendo una tesi in diritto civile dal titolo la "Destinazione patrimoniale nell'interesse della famiglia", relatore Prof. Sebastiano Ciccarello. Nell'ottobre 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Reggio Calabria discutendo una tesi in diritto penale dal titolo la "Natura giuridica delle linee guida e grado della colpa nella giurisprudenza successiva al decreto Balduzzi", relatore Prof. Avv. Patrizia Morello. Ha svolto la pratica forense presso lo studio legale dell'Avv. Mario De Tommasi, foro di Reggio Calabria, presso cui ha approfondito lo studio del diritto amministrativo. Ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato nell'ottobre 2015; da allora svolge la professione forense, interessandosi di questioni giuridiche afferenti il ramo del diritto civile e del diritto amministrativo.

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