Riflessioni a mente fredda sulle locazioni ai tempi del Covid-19

Riflessioni a mente fredda sulle locazioni ai tempi del Covid-19

Sommario: 1. Premesse – 2. Problemi di fatto e di diritto, inadempimento – 3. Decreto Legge “Cura Italia”, l’esplicitazione di una regola già esistente – 4. Invocazione del rimedio dell’impossibilità sopravvenuta. Un fallimento…annunciato – 5. I “Gravi motivi” di cui alle norme speciali sulle locazioni – 6. Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Una strada giusta ma forse inutile – 7. La valorizzazione della causa contrattuale – 8. L’ultima spiaggia. L’obbligo di ricontrattazione. Brevi conclusioni

 

1. Premesse

Probabilmente un’analisi giuridica accurata e ben centrata necessita di un tempo di decantazione delle idee, opinioni e concetti che confligge con la rapidità che contraddistingue il mondo dei traffici immediati, delle transazioni concluse con un click e anche dell’emergenza sanitaria che ha investito il pianeta tangendo con velocità inaspettata un numero enorme di rapporti economici giuridicamente rilevanti.

L’impatto sul tessuto economico italiano è stato importante per via della struttura imprenditoriale che connota il Paese, composta da un reticolo di piccole e medie imprese che, probabilmente, più delle grandi realtà imprenditoriali hanno subito il contraccolpo del fermo dei traffici, conseguenza delle limitazioni alla libertà di circolazione dei singoli. Per un’impresa che è in fase di primo approccio al mercato, così come per una che fatica a rimanere competitiva in un momento storico non certo florido per l’economia nazionale e non solo, l’impossibilità di ammortizzare i costi con l’esercizio delle proprie attività può significare il tracollo definitivo, considerata l’impossibilità di far fronte con le entrate alle obbligazioni in scadenza, quali finanziamenti o il semplice pagamento dilazionato dei fornitori.

Ebbene, ad onor di cronaca, deve evidenziarsi che questo periodo, come ogni contesto di crisi straordinaria ed imprevedibile, ha dato modo a soggetti in mala fede di approfittare della situazione e di gridare alla imminente bancarotta per ottenere rimedi modificativi dei contratti che li vincolano, anche lì dove il lockout non ha inciso effettivamente sulla stabilità economica dell’impresa.

Così, al netto delle agevolazioni e delle misure anche fiscali di riduzione del peso della contingenza a carico del tessuto imprenditoriale che lo Stato ha posto in essere, in maniera, tra l’altro, ampia e rapida, benché da più parti si sia affermato il contrario, questo breve contributo si pone l’obiettivo di guardare alle vicende delle locazioni, soprattutto commerciali, nel contesto dell’emergenza sanitaria da Covid19. Saranno enumerati i rimedi classici, valutata la loro utilizzabilità e soprattutto idoneità a conseguire vantaggi per il conduttore in difficoltà, infine si provvederà a dare una visione moderna degli equilibri contrattuali con riflessi anche sul solito problema assiologico della idoneità del codice civile a dare risposte in queste sedi.

2. Problemi di fatto e di diritto, inadempimento

I vari dpcm e poi i decreti legge emanati dal governo, sulla spinta anche di varie autorevoli opinioni che non ritenevano lo strumento della decretazione del Presidente del Consiglio idoneo a limitare in maniera così pervasiva la libertà personale, hanno imposto la chiusura di determinate attività[1]. Factum principis per eccellenza, l’ordine dell’autorità espresso in veste legislativa impone la situazione di forza maggiore rispetto alla quale i soggetti sono impossibilitati a compiere delle azioni giuridicamente rilevanti perché trasposte in regolamenti contrattuali stipulati prima dell’emersione dell’emergenza sanitaria.

Inoltre, il fermo delle attività economiche ha determinato una sperequazione imprevista degli equilibri contrattuali, travalicando i limiti dei normali andamenti economici e commerciali e probabilmente approdando nell’area degli squilibri patologici perché esito di una variazione che non è contenuta nella normale prevedibilità del corso degli eventi. Essa determina una sperequazione inaccettabile influendo su un equilibrio, come quello contrattuale, che deve permanere tendenzialmente simile a quello originariamente individuato dai contraenti al momento della stipulazione.[2]

Ebbene, i soggetti conduttori di locali adibiti ad abitazione rientrano parzialmente nel campo di indagine di questo contributo perché rispetto ad essi non si rinvengono particolari problemi, se non quelli relativi alla causa di cui si darà conto nel prosieguo. In tali casi normalmente il conduttore non può lamentare nulla in quanto l’emergenza sanitaria non ha influito sulla possibilità di godere dei locali locati e che utilizza come privata dimora, pertanto non potrà, né si vede il motivo per cui dovrebbe, eccepire nulla al fine di interrompere il pagamento dei canoni o di chiederne lo stralcio o la riduzione, salvi comunque i rimedi caducatori di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e quelli previsti dalla legislazione speciale in caso di “gravi motivi”.

Queste evenienze modificative, invece, si sono verificate quanto alle locazioni commerciali, rispetto alle quali il lockdown ha imposto l’interruzione delle attività che nei locali oggetto di contratti di locazione venivano svolte. Pertanto, i locatari hanno tentato di utilizzare, nei confronti dei locatori, una serie di rimedi, spesso, come vedremo, inadatti, altre volte forse inutili e più dannosi della stessa interruzione dell’attività commerciale ma individuati come gli unici giuridicamente utilizzabili.

3. Decreto Legge “Cura Italia”, l’esplicitazione di una regola già esistente

Per facilitare il superamento della fase di blocco delle attività commerciali, in soccorso degli imprenditori in difficoltà è giunto il D.L. 18/2020, nello specifico l’art. 91, che ha espressamente stabilito ed individuato nell’emergenza sanitaria una causa di forza maggiore tipizzata la quale deve essere valutata ai fini dell’esclusione dell’imputabilità dell’inadempimento del debitore. Il Covid e la chiusura imposta che esso ha determinato, sono causa di impossibilità temporanea della prestazione non imputabile al debitore, infatti il rispetto delle misure anti Covid “è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Come detto, è l’esplicitazione di una regola a cui si sarebbe giunti interpretando linearmente le norme generali del codice in tema di contratti, ma il legislatore ha sentito il bisogno, da ritenersi fondato, di esplicitare la norma e di non dare adito a dubbi ed equivoci, anche per evitare la proliferazione di contenziosi legali che avrebbero ulteriormente compromesso la funzionalità dei Tribunali alla ripresa delle attività giudiziarie.

Nel caso che ci occupa, ciò si riverbera sulla posizione del conduttore, rispetto al quale il locatore non potrà vittoriosamente invocare la risoluzione per inadempimento dinanzi al ritardo del locatario nell’adempiere la prestazione di pagamento del canone prestabilito. Tale meccanismo di salvezza del conduttore non opererà, a ben vedere, in via automatica, bensì dovrà essere “valutato” dal giudice al fine di escludere la responsabilità. Ciò che preme evidenziare è che la situazione emergenziale deve rivestire il ruolo di ragione fondante dell’inadempimento. Quest’ultimo deve, perciò, essere legato da un rapporto di causalità con le conseguenze normative e provvedimentali imposte dall’emergenza Covid.

Il che pone il dubbio di quando si verifichi una tale situazione. Se ciò si riverberi su tutte le attività commerciali, secondo una lettura più garantista per il debitore, perché tutte hanno subito quantomeno una limitazione della propria potenzialità anche in termini di orario di lavoro imposto o di possibilità stessa di intrattenere relazioni commerciali a causa della limitazione della circolazione delle persone, quindi anche alle attività commerciali alimentari, oppure se essa debba essere limitata a quelle sole attività che abbiano ricevuto un effettivo effetto limitante e non, ad esempio, alle attività di magazzino, stoccaggio merci e conservazione delle stesse, le quali hanno sì subito la chiusura ma hanno comunque potuto svolgere la propria attività. In realtà, deve ammettersi una interpretazione che consenta una applicazione generale a tutti i contratti da eseguirsi in costanza di emergenza Covid, a cui l’unico filtro applicabile sarà quello successivo e sopra evidenziato relativo alla verifica che l’emergenza abbia effettivamente influito sull’adempimento e quindi sul suo ritardo.[3]

Quindi, ove ricorrano tali condizioni il conduttore risulta salvo dalla risoluzione del contratto azionata dal locatore. Tuttavia dovrà corrispondere, seppur in ritardo, i canoni e la norma certamente non lo esenta dal farlo.

La preoccupazione dei conduttori è stata, però, non tanto quella di mettersi al riparo dalla risoluzione invocata dai locatori, piuttosto quella di individuare un rimedio che consentisse di esimerli dal pagamento del canone in costanza di chiusura forzata.

4. Invocazione del rimedio dell’impossibilità sopravvenuta. Un fallimento…annunciato

I conduttori hanno cercato, e spesso alcuni commentatori hanno giustificato questa scelta azzardata, di invocare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui agli art. 1463 e ss. c.c. .

In realtà, deve evidenziarsi che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione del conduttore, che è una prestazione di dare una somma di denaro, non risulta mai verificabile a meno di imbattersi in irreali contesti di impossibilità di reperimento della moneta circolante.[4]

Ebbene, il richiamo all’impossibilità totale della prestazione sembra ontologicamente non poter operare a vantaggio del conduttore.

Quanto all’impossibilità parziale, che pure qualcuno ha adombrato come misura utile allo scopo dei conduttori, devono farsi alcune precisazioni.

L’impossibilità parziale di cui all’art. 1464 c.c. è una norma che appare diversa dal suo antecedente del 1463 c.c. . Infatti, quest’ultima si riferisce alla impossibilità della parte liberata dalla prestazione perché divenuta impossibile, di chiedere la controprestazione ed al suo obbligo di ridare quanto ricevuto secondo le norme sulla ripetizione di indebito. E’ una norma che si occupa delle facoltà della parte che aveva in obbligo di dare la prestazione divenuta impossibile, senza regolare il caso in cui la prestazione impossibile sia quella dell’altro contraente. A questo, ovviamente, sarà richiesta la prestazione e sarà lui a far valere il rimedio dell’art. 1463 c.c. .

Diversamente, la norma successiva si occupa del caso in cui l’impossibilità colpisca l’altra parte contrattuale e dei rimedi che l’altro contraente, la cui prestazione rimane possibile, ha a disposizione. La prospettiva è rovesciata e l’azione è direttamente della parte che subisce l’impossibilità. La ratio della norma è quella di conservazione del contratto tanto che la norma ammette un rimedio estimatorio consistente nella riduzione della prestazione dovuta e, solo in via eccezionale ove non ci sia interesse ad un adempimento parziale, il recesso dal contratto.

E’ chiaro che più che una risoluzione, in questo caso appellata “recesso” dal legislatore, o comunque più che una vicenda estintiva del vincolo contrattuale, al conduttore è utile una riduzione dei canoni o un loro totale stralcio, affinché esso conservi il locale dove la sua attività è collocata ma non subisca il vulnus di sopportare spese senza possibilità di coprirle con ricavi.

Anche in questo caso, però, bisogna dire che la prestazione del locatore non è connotata nemmeno da una impossibilità parziale. E’ necessario, infatti, porre in evidenza che le prestazioni oggetto del contratto sinallagmatico di locazione consistono nella messa a disposizione del bene affinché il conduttore ne goda, contro il pagamento del prezzo a favore del locatore.

E’ ovvio che la messa a disposizione del bene persiste anche durante l’emergenza sanitaria e la prestazione del locatore deve considerarsi comunque assolta, tanto è vero che il conduttore, pur avendo interrotto la sua attività a causa del factum principis, ha comunque la piena disponibilità del locale e normalmente lo utilizza per la conservazione dei beni che produce, dei macchinari, e di ogni oggetto necessario allo svolgimento delle sue attività. Il che esclude in capo al conduttore anche la possibilità di utilizzare l’eccezione di inadempimento, come rimedio per ritardare il pagamento del canone.

Ebbene, sembra anche logicamente non utilizzabile il rimedio se solo si considera il seguente interrogativo. Perché il peso economico dell’emergenza sanitaria dovrebbe essere necessariamente trasferito tutto sul locatore e non sul conduttore? Soprattutto considerando che non vi è una impossibilità oggettiva di fornire la prestazione che viceversa è adempiuta, e la sua utilità è soltanto impedita da un provvedimento o da una norma che sorprende allo stesso modo entrambe le parti contrattuali. Non necessariamente il conduttore è la parte debole del rapporto, anche alla luce del deprezzamento che la proprietà immobiliare ha subito in Italia da almeno tre lustri. Anzi, può verificarsi la possibilità che a fronte di una florida attività commerciale del conduttore che subisce un fermo di circa due mesi, magari non determinante sul complessivo bilancio annuale, ci sia un locatore che vive del provento della locazione che risulta la sua unica fonte di reddito, magari perché disoccupato o ormai incapace di inserirsi nel mercato del lavoro per sopraggiunti limiti di età o per motivi di salute.

La strada da perseguire non sembra neppure questa, sia sotto il profilo meramente giuridico che sotto quello della logica e della ratio fondante i rimedi contrattuali.

5. I “Gravi motivi” di cui alle norme speciali sulle locazioni

Un’altra soluzione spesso paventata è quella dell’utilizzo delle norme speciali in materia locatizia. Nello specifico l’art. 27 della Legge n. 392/1978 per le locazioni commerciali e l’art. 3 della Legge n. 431/1998 per quelle ad uso abitativo. Ebbene, in questi casi si ammette la possibilità di recesso dal contratto ove sussistano gravi motivi oggettivi che impediscono la prosecuzione del rapporto contrattuale e la corresponsione del canone. L’emergenza sanitaria si ritiene possa qualificare di certo uno di quei motivi gravi, perché imprevisti ed imprevedibili, che danno luogo allo scioglimento del contatto. Tuttavia, se a differenza del caso della impossibilità sopravvenuta, qui i presupposti giuridici per attivare il rimedio si riscontrano potenzialmente esistenti, d’altra parte è necessario rilevare che si tratta comunque di rimedi caducatori. Essi normalmente non soddisfano il conduttore che ha necessità di riprendere l’attività magari nello stesso luogo in cui il pubblico è abituato ad individuarlo, e magari ha proprio la necessità di riattivarne l’esercizio senza subire i costi di un trasloco e tutto ciò senza ulteriore e costoso indugio.

Inoltre, le suddette norme prevedono il pagamento di 6 mesi di canoni dopo il preavviso e la liberazione immediata dei locali, adempimenti che contraddice l’utilità stessa del rimedio invocato dai conduttori nella contingenza di cui si tratta.

6. Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Una strada giusta ma forse inutile

Forse il rimedio più calzante e giuridicamente appropriato è quello della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione di cui all’art. 1467 c.c. . Effettivamente l’emergenza sanitaria e le norme conseguenti che hanno disposto la chiusura delle attività commerciali sono inquadrabili all’interno della categoria di “avvenimenti straordinari ed imprevedibili” che la norma impone per giungere alla risoluzione del contratto. E’ necessario che l’avvenimento sia tale da distorcere l’equilibrio iniziale del contratto in maniera, come si dice spesso, patologica, cioè in modo idoneo a produrre uno squilibrio inaccettabile dal contraente che lo subisce e non rientrante nella normale alea economica di cui sono caratterizzati tutti i contratti. Non tutti gli squilibri, non tutti gli avvenimenti straordinari sono in grado di condurre alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, come non lo sarebbe la chiusura dell’attività per un giorno a causa di un avvenimento meteorologico imprevedibile a fronte di un contratto i cui equilibri sono valutati su un fronte temporale molto lungo, magari di anni.

Quindi bisogna, in primo luogo, verificare se la chiusura abbia prodotto uno squilibrio tale da intaccare l’equilibrio sinallagmatico predisposto dai contraenti al momento della stipula. E’ necessario indagare se il periodo di chiusura abbia oggettivamente costituito una sfasatura economica abbastanza rilevante da giustificare lo scioglimento del contratto perché non più aderente alle valutazioni economiche di convenienza delle parti. Essendo impossibile prevedere l’avvenimento, l’ordinamento non ritiene sostenibile, anche per non disincentivare gli scambi economici, addossare il rischio dell’imprevedibile ad uno dei contraenti e gli offre, quindi, una via d’uscita.

Pertanto, se è potenzialmente possibile il ricorso a tale rimedio, è necessaria una indagine più penetrante che riguardi il singolo contratto. Si faccia l’esempio di un contratto di locazione di impianti sciistici o di locali adibiti a tale uso: in questo caso, a stagione invernale quasi terminata, data anche l’esiguità delle precipitazioni nevose dello scorso inverno e la carenza di neve naturale, è difficile immaginare che l’imprevedibile chiusura dell’attività imposta dallo Stato abbia prodotto uno squilibrio talmente rilevante da consentire il ricorso alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Ad ogni modo, si tratta sempre di un rimedio caducatorio, poco utile al conduttore, come sopra più volte evidenziato.

Inoltre, la previsione dell’ultimo comma dell’articolo 1467 c.c. che prescrive un rimedio riequilibratore del contratto è un’arma più che spuntata in mano alla parte che ha subito gli effetti negativi dell’evento imprevedibile. Infatti, una volta chiesta la risoluzione è solo facoltà dell’altra parte di evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. Il locatore che non abbia problemi a lasciare il suo immobile inutilizzato o che abbia altre proposte di locazione, non sarà persuaso ad addivenire ad una modifica contrattuale per conservare un contratto le cui utilità sono facilmente sostituibili e reperibili sul mercato. Sarà per lui più vantaggioso richiedere i canoni non pagati e ricollocare il bene.

Neppure questa sembra una via utilmente perseguibile senza la collaborazione di un locatore disposto a venire incontro al conduttore in difficoltà.

7. La valorizzazione della causa contrattuale

In alcuni casi si è fatta menzione della causa contrattuale per risolvere la questione. Il riferimento è stato al difetto sopravvenuto della causa, soprattutto in relazione ai contratti di locazione stipulati da o per studenti universitari, i quali, in costanza del periodo di emergenza e ancora al momento in cui si redige questo contributo, fruiscono delle lezioni ormai solo tramite modalità di didattica a distanza e magari non possono raggiungere il luogo di studio ove è situato l’immobile locato. Tra l’altro non è dato sapere fin quando gli Atenei perpetreranno questa scelta di continuare l’erogazione delle lezioni tramite piattaforme online, anche in considerazione dell’ampia autonomia universitaria nell’organizzazione interna. In realtà, anche volendo disegnare un facile parallelo con il paradigma del genere, cioè quello della sopravvenuta estinzione della causa del contratto di viaggio tutto compreso ove la causa di svago e turismo non possa concretizzarsi a causa dell’epidemia nel Paese di destinazione, il caso de quo sembra non reggere il confronto, anche se sono necessarie delle importanti puntualizzazioni.[5]

Qualcuno ritiene, che le finalità di studio universitario che spingono il conduttore alla locazione siano solo dei meri motivi, incapaci di oggettivizzarsi e di colorare, così, la causa contrattuale. In realtà qualche notazione a margine di questa affermazione deve essere compiuta a parziale confutazione di un asserto che viene portato nell’agone interpretativo forse con troppa leggerezza. Infatti, bisogna ricordare che il legislatore conosce dei contratti ad hoc c.d. “transitori” proprio per le esigenze universitarie, che le istituzioni governative mettono a disposizione modelli di contratto di locazione universitaria o comunque per esigenze di studio, che quasi sempre la ragione di studio viene dedotta nell’articolato contrattuale con la specificazione dell’Ateneo e della Facoltà[6]. Quindi sembra penetrare fin dentro il contratto la ragione che spinge il conduttore alla stipula, tanto da diventarne un “tipo” riconosciuto dall’ordinamento nei contratti c.d. transitori, e che probabilmente influenza anche le scelte del locatore di offrire sul mercato i suoi locali, affinché magari possa lucrare di più da un immobile, affittandolo contemporaneamente a più studenti. E’ certamente vero che i motivi delle parti, anche se comuni, non si trasformano di per se stessi in causa, ed è altrettanto vero che non ogni informazione dedotta nelle clausole contrattuali produca una particolare connotazione della causa contrattuale, tuttavia ci si sente di consigliare maggiore accortezza nella qualificazione delle ragioni di studio come esterne alla causa del contratto, quantomeno un maggiore spirito riflessivo, simbolo di rinnovata prudenza dinanzi a questioni, quali il dibattito sulla causa, che mantengono sempre un alto grado di complessità.

Anche volendo ammettere che quella di studio sia la causa del contratto di cui si discute, l’argomento più forte per confutare la tesi del perimento della stessa è forse quello della temporaneità delle misure che impediscono al conduttore di fruire del bene. A meno di individuare una fantasiosa causa contrattuale distinta per ogni mensilità, come se il contratto perisse e si rinnovasse ad ogni primo giorno del mese, deve evidenziarsi che la causa è unica e bisogna effettivamente valutare se il tempo in cui non è stato possibile fruire dell’immobile abbia una rilevanza tale da far venir meno la causa stessa nella sua accezione in concreto, quindi la ragione giuridico-economica del contratto, tale da renderla giuridicamente inservibile. La differenza col caso del contratto di viaggio è presto fatta: in quel caso al turista è impedito del tutto di fruire della causa di svago che lo ha spinto a stipulare il contratto di viaggio tutto compreso, perché l’epidemia impedisce dal primo all’ultimo giorno non di recarsi in quel luogo e di fruire dell’accoglienza delle strutture ricettive, bensì proprio di ivi recarsi con la serenità e la rilassatezza idonee per godere di riposo e divertimento; viceversa nel contratto di locazione con finalità di studio, la fruizione dell’alloggio non è del tutto impedita, è limitata temporalmente e parzialmente nelle sue utilità, ma è da accertare se ciò sia abbastanza per far venir meno la causa che giustifica il negozio giuridico patrimoniale. Più complicato negare il venir meno della causa (ove, di nuovo, si ammetta che di ciò si tratti) nel caso in cui l’impossibilità di fruire dell’utilità del bene permanga per ancora lungo tempo, cioè nel caso in cui sia ancora precluso l’accesso alle lezioni universitarie e agli ambienti accademici, e sostanzialmente la durata del contratto di locazione sia quasi totalmente incisa da questa impossibilità. Si ricorda, infatti, che lo studente (o chi per lui), secondo questa visione che non ci si sente in grado di scartare del tutto, stipula il contratto perché gli è necessario allo scopo della fruizione delle lezioni e dei servizi universitari, per alloggiare più o meno nelle vicinanze dell’ateneo. Il contratto sembra nascere con questa utilità che gli è connaturata. Ammesso che è sempre necessaria una analisi in concreto del singolo contratto, risulta comunque complicato affermare che una necessità tale rimanga isolata nei soli ambiti impermeabili del motivo personale e si ponga all’esterno del regolamento, senza penetrarvi con forza caratterizzante.

8. L’ultima spiaggia. L’obbligo di ricontrattazione. Brevi conclusioni

Davvero l’ultima spiaggia per il conduttore è quella di addivenire ad una ricontrattazione delle condizioni contrattuali. Ma come fare se il rimedio dell’art. 1467 ult. comma c.c. è sostanzialmente rimesso alla scelta e alla libera volontà del locatore? Probabilmente la via da seguire è quella dell’individuazione di un obbligo di ricontrattazione espressione della buona fede contrattuale che colora ogni negozio giuridico patrimoniale, il cui inadempimento comporta conseguenze risarcitorie. In tale situazione si aziona un meccanismo per cui o il contratto è ricondotto ad equità con la collaborazione della parte che non subisce le esternalità negative degli eventi, oppure sarà il giudice a riequilibrarlo imponendo un trasferimento a titolo di risarcimento danni. Di qui emerge una concezione che non è del tutto coerente con l’impianto del codice civile, cioè quella che ammette la sindacabilità dell’equilibrio economico del contratto. Anche lì dove la causa sia non opaca, come si suol dire, e sia esplicitata in modo tale da esprimere sostanzialmente le ragioni che hanno condotto le parti a valutare in un certo modo prestazione e controprestazione, esiste uno spazio di intervento dell’autorità giudiziaria che, se sollecitata, può affermare che quello che si è legittimamente stabilito in un contesto non patologico non è più valido. Spesso tale meccanismo di rinegoziazione è imposto da specifiche clausole di hardship inserite con volontà bilaterale nel contratto, ove queste manchino, l’interpretazione ha investito il principio di solidarietà di un gravoso ruolo di pacificazione.

Ebbene, l’emersione del principio di buona fede[7] è un fenomeno potente e relativamente eversivo per l’ordinamento in quanto introduce una clausola generale capace di destabilizzare la saldezza e la resistenza della regola contrattuale cristallizzata in contratto. Ne sono state espressioni paradigmatiche il c.d. Caso Renault[8] ed il tentativo, spesso riuscito, di estendere la riducibilità della penale alla caparra confirmatoria[9]. Questi casi, e altri ancora, hanno manifestato l’emersione di un problema: la ricerca della giustizia del caso concreto induce all’utilizzo indiscriminato della buona fede come elemento di riequilibrio del contratto a discapito, però, della certezza dei traffici commerciali e della stabilità degli affidamenti che i contraenti ripongono nel negozio. La regola esiste, consente determinate facoltà, ma da un momento all’altro può essere invocata la violazione dell’obbligazione di buona fede valorizzando magari un comportamento non idoneo o capace di ingenerare un affidamento in senso contrario all’azionamento della clausola legittima ed efficace. Sia qui concessa questa breve licenza immaginifica: l’introduzione indiscriminata della buona fede equivale alla liberazione entro il mondo giuridico di una enorme e furiosa bestia multiforme utile a scacciarne un’altra, quella dell’inidoneità del contratto a garantire la giustizia del caso concreto, ma poi difficile da ingabbiare di nuovo, a lavoro finito, essendo impossibile contenere e controllare gli effetti che provoca sulla sicurezza del mondo…del diritto.

Tuttavia se l’ingresso di tale principio può condurre a risultati del tutto incontrollati, può rinvenirsi un contesto nel quale l’utilizzo della buona fede può essere edulcorato o quantomeno imporre il coinvolgimento di entrambe le parti, piuttosto che consentire la sua invocazione unilaterale cui seguono conseguenze risarcitorie per inadempimento le quali, a loro volta, determinano sostanzialmente una modifica degli equilibri economici del contratto in essere. Ebbene, il contesto della ricontrattazione è parzialmente più mitigato di quello che disconosce l’utilizzo di una facoltà prevista in contratto (come il recesso ad nutum nel caso Renault). Esso trova forza nelle concezioni di diritto europeo dei contratti, quindi nel Pecl e nel DFCR, in quelle codificazioni ancora non portate a compimento attraverso il recepimento degli Stati, ma che influenzano il mondo del diritto e degli scambi commerciali transnazionali e no. In queste il ruolo elastico della buona fede è valorizzato secondo una concezione meno formalistica del regolamento contrattuale e, di conseguenza, viene riconosciuto un ruolo molto importante all’autorità giudiziaria a cui è demandato di sindacare sostanzialmente l’equilibrio contrattuale.
Bisogna chiarire se l’obbligo di ricontrattare che deriva dal cambiamento delle condizioni esterne che si riverberano sul contratto operi quando non si travalica il confine del patologico disequilibrio, entro cui operano le varie forme di risoluzione codicistica, quindi si collochi in una fase precedente; oppure possa operare, a maggior ragione, solo quando lo squilibrio è scaduto nel patologico come rimedio alternativo che favorisce la scelta della parte debole dell’accordo tra la caducazione del contratto e la sua riconduzione ad equilibrio per il tramite di un nuovo accordo imposto per la modifica delle condizioni; oppure ancora se possa essere utilizzato in entrambe le ipotesi. Si ritiene che la scelta ermeneutica debba ricadere sulla seconda ipotesi, accordando al rimedio della ricontrattazione una efficacia non troppo ampia. In realtà se non si può addivenire ai rimedi caducatori previsti dal codice in costanza di qualsiasi elemento di squilibrio, allo stesso modo deve negarsi un obbligo di ricontrattazione, cui segue una obbligazione risarcitoria da inadempimento dello stesso, in ogni caso in cui la bilancia dell’equilibrio contrattuale si sposti anche di poco a causa dell’andamento dell’Economia, dei tassi di interesse, del prezzo delle merci e così via, o magari dell’impossibilità di esercitare la propria attività per factum principis, quindi a causa di forza maggiore non addebitabile a nessuno dei due contraenti. Non è possibile sottoporre il contratto ad una instabilità tale che ogni minima modifica della struttura iniziale dei contrappesi del sinallagma possa condurre a rinegoziare con l’intento di modifica, pena la definitiva impossibilità di riporre fiducia nella stabilità del negozio contrattuale e nei traffici commerciali tutti, producendo effetti di freno all’economia e disincentivando i soggetti ad addivenire alle contrattazioni.

Qualificato, o meno, l’avvenimento straordinario come idoneo a far trasmigrare nel patologico inaccettabile il disequilibrio, si potrà o meno domandare la ricontrattazione ed in caso di diniego del locatore, domandare il risarcimento del danno per inadempimento della obbligazione di buona fede oggettiva che sussiste in capo ad ogni contraente.

Inoltre, bisogna sottolineare che l’obbligo di rinegoziare deve essere necessariamente inteso come obbligo di addivenire ad una modifica delle condizioni contrattuali tale da ricondurre ad equilibrio il contratto stesso secondo quello che è l’incontro delle volontà delle parti al momento della rivalutazione delle condizioni di contratto. E’ bene precisare ancora che, a differenza delle riconduzioni ad equità secondo dei canoni che guardano all’equilibrio iniziale del contratto e che contraddistinguono altri rimedi, in questo caso l’equilibrio che le parti individuano è nuovo e può anche disallinearsi da quello originario, in considerazione del contesto economico in cui l’accordo viene stipulato. La parte svantaggiata dovrà anch’essa, evidentemente, muoversi nel senso di avvicinarsi alle esigenze di quella meno colpita dagli eventi.

Si vuole sottolineare, infine, che la ricontrattazione deve condurre ad una effettiva modifica perché possa dirsi adempiuta l’obbligazione di buona fede e che, pertanto, non basta soltanto sedersi al tavolo delle trattative per ottemperare all’obbligo. Tale interpretazione condurrebbe ad un rimedio totalmente inefficace, consentendo al locatore, nel caso de quo, di adottare un comportamento ulteriormente contrario ai principi di correttezza, fingendo solamente di tentare la ricontrattazione, negando il consenso ad ogni proposta del conduttore, ma vedendo così adempiuto il suo obbligo, e mettendosi definitivamente al riparo da ogni forma di responsabilità.

Ultima notazione sulla validità del codice civile: seppure de iure condendo spesso si invochi l’inserimento dell’obbligo di ricontrattazione in una norma ad hoc[10], esso si dimostra, de iure condito, ancora capace di rispondere ad una visione evolutiva delle contrazioni e degli scambi, idoneo ad adattarsi con una rinnovata elasticità alle esigenze dei tempi correnti. Lo dimostra la possibilità di addivenire, pur senza una norma specifica, quantomeno alla possibilità di raggiungere una soluzione ai casi esaminati. Essa, seppur ancora contrastata o non del tutto radicata perché foriera di riflessioni e dibattiti non ancora sopiti, ha consentito alla giurisprudenza di raggiungere delle soluzioni eque ed in linea con le spinte europeiste che determinano i movimenti tellurici capaci di produrre un punto di rottura del diritto civile nostrano.

 

 

 

 


[1] Si veda Azzariti, I limiti costituzionali della situazione d’emergenza provocata dal Covid 19, in Questione giustizia, 27 marzo 2020.
[2] Cfr. i contributi di Caruso, Lattanzi, Luccioli e Luciani raccolti, sotto forma di testo dialogico di De Stefano, La pandemia aggredisce anche il diritto? In www.giustiziainsieme.it, 2 aprile 2020
[3] Si veda sul punto Cuffaro, Le locazioni commerciali e gli effetti giuridici dell’epidemia, in http://giustiziacivile.com/obbligazioni-e-contratti/editoriali/le-locazioni-commerciali-e-gli-effetti-giuridici-dellepidemia; A. D’Onofrio, L’impatto del covid-19 sui contratti di locazione ad uso commerciale: l’eccezionalità dei fatti non impone un diritto eccezionale, in https://www.diritto.it/limpatto-del-covid-19-sui-contratti-di-locazione-ad-uso-commerciale-leccezionalita-dei-fatti-non-impone-un-diritto-eccezionale
[4] Si veda Cass., 15 novembre 2013, n. 25777: “in materia di obbligazioni pecuniarie, l’impossibilità della prestazione deve consistere, ai fini dell’esonero da responsabilità del debitore, non in una mera difficoltà, ma in un impedimento obiettivo ed assoluto che non possa essere rimosso”.
[5] Kowalski, Autoriduzione del canone da parte del conduttore … ai tempi del coronavirus, in Condominioelocazione.it, 18 marzo 2020; Nucera, Affitti di negozi, impossibile l’autoriduzione del canone, in Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2020; Tarantino, La locazione ai tempi del coronavirus: possibili soluzioni per la ridefinizione del canone di lo­cazione ad uso commerciale, in Condominioelocazione.it, 3 aprile 2020; P. Scalettaris, Effetti dell’emergenza da coronavirus sulle locazioni abitative in corso in http://condominioelocazione.it/articoli/focus/effetti-dellemergenza-da-coronavirus-sulle-locazioni-abitative-corso?utm_campaign=CondeLoc_2020_04_21&utm_medium=email&utm_source=MagNews
[6] Spesso nel caso di specializzandi presso le scuole di specializzazione della facoltà di medicina o di vincitori di borse di dottorato di ricerca, seppur destinatari di emolumenti economici sono considerati dall’ordinamento a tutti gli effetti come studenti, il conduttore richiede espressamente la allegazione della documentazione attestante la assunzione del conduttore nei ranghi universitari ai fini di garantirsi la solvibilità del debitore nel caso di inadempimento.
[7] V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Giuffrè, Milano, 2010; C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, in Riv.crit.dir.priv., 1986, 21 ss.; P. Rescigno, Appunti sulle clausole generali, in Riv.dir.comm., 1998, I, 1 ss. ; M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, Giappichelli, Torino, 2006, cap. I; E. Fabiani, Clausole generali e sindacato della Cassazione, Utet, Torino, 2003 sul quale la recensione di A. Travi, in Diritto pubblico, 2005, 663 ss; S. Rodotà, Le clausole generali nel tempo del diritto flessibile, in A. Di Majo e aa., Lezioni sul contratto, raccolte da A .Orestano, Giappichelli, Torino, 2009, 97 ss. ; L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv.crit.dir.priv., 1986, 5 ss. il quale testualmente evidenziava che  “non ha avuto seguito la proposta di una ‘legislazione per principi’, del che non è il caso di dolersi se si considera il rischio che una legislazione di tal fatta porti lo Stato di diritto a degenerare in uno Stato giustizialista”.
[8] Il Caso era il seguente: Tra il 1992 ed il 1996 una serie di concessionari della Renault Italia spa, furono revocati dalla stessa società, sulla base della facoltà di recesso ad nutum previsto dall’art. 12 del contratto di concessione di vendita sottoscritto dagli stessi. Poiché in tale condotta fu ravvisato un comportamento abusivo, e comunque illecito da parte della Renault Italia spa, fu fondata la Associazione Concessionari Revocati, con lo scopo di «programmare, provvedere, sviluppare, organizzare, gestire ogni iniziativa ed attività idonea alla tutela e difesa, nonché alla rappresentanza, dei diritti dei Concessionari d’auto revocati dalle case automobilistiche (concessionari) aventi sede nel territorio italiano». L’Associazione ed i concessionari revocati convenivano, quindi, la Renault Italia spa davanti al tribunale di Roma, allo scopo di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del diritto, e la conseguente condanna della Renault Italia spa al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’abusivo recesso. Pervenuto in Cassazione il caso ha dato luogo ad una pronuncia molto discussa della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106) la quale ha riconosciuto violazione della buona fede (o meglio abuso del diritto) da parte della Renault Italia s.p.a. la quale ha azionato la clausola liberamente pattuita in contratto avente ad oggetto il recesso ad nutum dal contratto di concessione di vendita, riconoscendo responsabilità contrattuale in capo alla stessa e quindi liquidando la somma a titolo di risarcimento del danno a favore dei concessionari.
[9] Si pone sia in dottrina che in giurisprudenza il problema della applicazione in via analogica, alla caparra confirmatoria, dell’art. 1384 c.c. prevista per la riduzione della penale iniqua. Alcuni ritengono certamente applicabile in via analogica il suddetto articolo abilitante la riduzione da parte del giudice, sulla base del valore totalizzante del principio di equità nell’ordinamento. La giurisprudenza tradizionale si è attestata su tesi negative sulla base della eccezionalità della norma sulla penale che deroga all’insindacabilità degli equilibri contrattuali, nonché su ontologiche differenze strutturali tra le due fattispecie. Recentemente, tuttavia, si è fatta largo una tesi che risulta ancor più eversiva di una semplice applicazione analogica di norme. Infatti è stata avanzata l’ipotesi dell’utilizzo della nullità parziale della caparra confirmatoria iniqua in quanto violativa della norma imperativa di cui art. 2 Cost., quindi del dovere costituzionale di solidarietà e buona fede, operante tra i contraenti. Tale tesi è stata avallata, seppur in obiter, da due ordinanze della Corte Costituzionale n. 248/13 e 77/14 sulle quali si veda il contributo di G. D’Amico, applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva” , Contratti, 2014, 10, nota a sentenza; nonché in generale i risalenti ma autorevolissimi contributi di: Mengoni, Diritto Vivente, in Jus, 1988, 19 e ss. ; Zagrebelsky, La dottrina del diritto vivente, in Giur. Cost., 1986, I, 1152 ss. .
[10] Si veda il disegno di legge n. 1151 presentato al Senato di delega al Governo per la revisione del codice civile, affinché si ponga in linea con le omologhe codificazioni europee, il quale espressamente enuncia:  “Sempre nell’ambito dei rapporti contrat­tuali, si prevede di disciplinare il diritto delle parti di pretendere la rinegoziazione dei contratti secondo buona fede qualora di­ vengano eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili, ovvero di chie­dere in giudizio l’adeguamento delle condi­zioni contrattuali, qualora non si raggiunga un accordo tra le parti.” Ed inoltre :” In tale situazione si inserisce la previsione del disegno di legge delega di cui all’arti­ colo 1, comma 1, lettera i), che, prescin­dendo da apposite pattuizioni contrattuali, contempla un rimedio di generale applica­zione, idoneo a ristabilire l’equilibrio tra le prestazioni. Si tratta dell’equilibrio econo­mico, per come fatto palese dal riferimento al ripristino della « proporzione tra le presta­ zioni originariamente convenuta dalle parti », escludendosi perciò la possibilità di intervento giudiziale in caso di vizio gene­tico del contratto (tutt’al più rilevante per i casi di rescissione di cui agli articoli da 1463 a 1466 del codice civile). Si prevede che il nuovo rimedio operi sia estendendo ad ogni ipotesi di eccessiva one­rosità sopravvenuta la possibilità di preten­dere la rinegoziazione del contratto « se­condo buona fede » (già contemplata, nei li­ miti predetti, dagli articoli 1467, terzo comma, e 1468 del codice civile), sia con­ sentendo « in caso di mancato accordo » l’intervento del giudice cui può essere chie­sto « l’adeguamento delle condizioni contrat­tuali ». Si tratta di una previsione in linea con la clausola di solidarietà sociale di cui all’arti­colo 2 della Costituzione (come interpretata, tra l’altro, dalle succitate ordinanze della Corte costituzionale), oltre che con l’ordina­mento europeo, che conosce i poteri di sin­dacato e di intervento giudiziale sull’autono­mia contrattuale dei privati, in specie a tu­tela dei contraenti « deboli » dei contratti ti­picamente asimmetrici”.

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Attilio Simonelli

Il sottoscritto ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Classico Tulliano di Arpino (FR) nell’anno scolastico 2009/2010 con la votazione di 100/100 con lode, successivamente in data 24/09/2015 ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza (LMG/01) presso l’Università degli Studi Roma Tre, con votazione di 110/110 con tesi “di particolare valore” in Diritto Amministrativo (Prof.ssa Sandulli) e correlazione in diritto privato e commerciale (Prof.ri Clarizia e Fortunato). Terminati gli studi universitari ha conseguito il tirocinio di 18 mesi ex art. 73 d.l.69/2013 presso la sezione civile e fallimentare del Tribunale di Frosinone, collaborando col magistrato affidatario Dr. Andrea Petteruti, con la votazione di 10/10. Negli anni 2018 e 2019 ha seguito i corsi di preparazione al concorso in magistratura tenuti dal Cons. Roberto Giovagnoli in Roma. Il sottoscritto ha poi pubblicato diversi contributi su riviste giuridiche tra cui: “Scambi senza accordo: evoluzione delle invalidità negoziali e ruolo del giudice” Giuricivile, 2019, 1 (ISSN 2532-201X) (https://giuricivile.it/scambi-senza-accordo/) ; “Revirement sull’assegno divorzile: tornare indietro per andare avanti?” su Giuricivile 2018, 12 (ISSN 2532-201X) (https://giuricivile.it/revirement-sullassegno-divorzile-tornare-indietro-per-andare-avanti/) In data 07/11/2019 ha conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forense presso la Corte di Appello di Roma. Attualmente ha in corso una collaborazione con Giappichelli Editore per la stesura di un contributo nella prossima pubblicazione relativa all’argomento della verifica dello stato passivo fallimentare che vedrà la luce nell’autunno del 2020.

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