Riflessioni in tema di eutanasia. Può il diritto penale costituire un limite all’autodeterminazione?
Abstract. Il presente lavoro fornisce un’esposizione breve e concisa della questione giuridica dell’eutanasia, mettendo in luce le possibili “defalliance” del nostro attuale assetto normativo, ripercorrendo gli itinerari già esplorati dalla nostra giurisprudenza in riferimento alle vicende “Welby” ed “Englaro”, vicende che nel nostro paese hanno avuto un rilievo mediatico tutt’altro che indifferente. Infine vengono spese alcune riflessioni sulle possibili evoluzioni normative della disciplina che, alla luce dell’attuale atteggiamento poco sensibile del nostro legislatore, non lasciano di certo sperare in nulla di rassicurante.
Sommario: 1. Definizioni e forme di eutanasia. – 2. Eutanasia attiva e passiva. – 3. L’omicidio del consenziente. – 4. Il consenso nella prospettiva liberale. – 5. Il ruolo del consenso nei trattamenti medici. – 6. Il caso Welby e la posizione del Dott. Riccio. – 6.1. L’autodeterminazione del paziente capace. – 6.2. La condotta del sanitario che attui il rifiuto di cure: azione o omissione? – 6.3. I limiti applicativi dell’art. 579 c. p. e l’applicazione dell’art. 51 c. p. – 6.4. Il diritto di autodeterminazione. – 7. La volontà presunta del paziente in stato vegetativo permanente. – 7.1. Il caso Englaro. – 8. Le decisioni di fine vita nel disegno di legge in materia di consenso informato e manifestazioni anticipate di trattamento. – 9. Un possibile intervento della Corte Costituzionale?
1. Definizioni e forme di eutanasia
L’aspetto definitorio del concetto di “eutanasia” è da sempre al centro di una alquanto accesa diatriba finalizzata ad attribuirgli un significato univoco, o quantomeno largamente condiviso. Tuttavia, nonostante numerosi studi, contributi e convegni, non si è mai giunti ad una definizione che possa realmente considerarsi largamente riconosciuta[1].
Ai problemi concernenti l’aspetto definitorio contribuiscono sicuramente una serie di riflessioni di natura etica, morale, religiosa, riguardanti la tematica delle “scelte di fine vita”, di cui l’eutanasia non può che costituirne una delle principali manifestazioni.
Essendo il termine “eutanasia” dotato di un’ampiezza semantica non indifferente, si tende a ricondurre al suo interno una serie estremamente variegata di eventi, tutti suscettibili di essere riscontrati nella vita reale. Vista e considerata l’inopportunità di una ricostruzione esaustiva di tutte le “forme” di eutanasia, che trascenderebbe gli obbiettivi e le finalità di questo lavoro, ci limitiamo ad una breve introduzione su alcune condotte astrattamente riconducibili all’interno di questo concetto.
Non possiamo non far riferimento alla cosiddetta eutanasia “eugenica” (o eugenetica) alla quale si fa riferimento nei casi di eliminazione dei soggetti malati, considerati, in quanto tali, inidonei alla sopravvivenza[2].
Affine a quest’ultima è la cosiddetta eutanasia “economica”, che vorrebbe giustificarsi con gli elevati costi a carico dello stato, necessari per il mantenimento in vita del soggetto malato che quindi, sarebbe più opportuno lasciar morire2.
Comunemente conosciuta come “pena di morte” è invece l’eutanasia “criminale” che, nonostante sia stata riprovata ed abolita da molti ordinamenti giuridici moderni, ancora oggi si trova abbastanza diffusa nel mondo. Questa pratica è finalizzata all’eliminazione di un soggetto che resosi responsabile di delitti particolarmente gravi, non è più considerato degno di far parte di una comunità2.
Alcuni usi del termine eutanasia (eugenetica ed economica) sono casi abbastanza evidenti di omicidio, in quanto manca la presenza del consenso, tale o presunto, del soggetto che viene sottoposto all’eutanasia. Il fondato sospetto è che tali usi distorti del termine eutanasia siano finalizzati a muovere un’accusa implicita alle pratiche eutanasiche, cioè a configurarle, tramite la manipolazione del linguaggio, come pratiche orribili e terrificanti. Questo giustificherebbe la restrizione del concetto a quello di senso comune.
Mettendo da parte queste forme, prese sinteticamente in considerazione per finalità meramente illustrative, possiamo circoscrivere il campo di indagine sul modello di eutanasia più confacente alla nostra trattazione, in conformità con il significato che ha assunto il nostro termine nel linguaggio comune, la cosiddetta eutanasia “pietosa”.
Per “pietosa” dobbiamo intendere quella forma di eutanasia, associata ad un soggetto, affetto da gravi malattie inguaribili, il cui unico scopo sia quello di andare incontro ad un desiderio espresso, desunto o desumibile, che a causa di una situazione di vita resa inaccettabile da profonde e continue sofferenze, preferisce porre deliberatamente termine alla propria vita piuttosto che protrarre quello status perpetuo ed irreversibile di agonia e sofferenza.
Una volta definito il nostro oggetto di trattazione non può passare inosservata l’entità degli elementi caratterizzanti la nostra fattispecie: il “bene vita” (bene giuridico protetto a livello costituzionale di assoluta importanza), il principio di autodeterminazione e il consenso dell’avente diritto.
Per il momento continuiamo a soffermarci sul concetto di “eutanasia” e sull’importantissima distinzione tra eutanasia attiva e passiva (§2).
2. Eutanasia attiva e passiva
La distinzione tra forme “attive” e “passive” di eutanasia, da decenni al centro di una alquanto accesa diatriba ideologica, concernente l’esistenza o meno di una differenza significativa dal punto di vista etico-morale, è tuttavia fondamentale sul piano tecnico-giuridico ai fini di discernere le condotte penalmente rilevanti, da quelle che invece, escludono la responsabilità del soggetto attivo.
Si definisce eutanasia “attiva” «una situazione nella quale un paziente gravemente malato, al fine di evitare una profonda sofferenza, chiede al proprio medico di cagionargli la morte mediante un’iniezione letale»[3]. Si definisce attiva poiché la condotta umana del medico è il fattore causale unico, o concorrente con altri, dell’evento lesivo[4]. Senza la condotta del medico il paziente non sarebbe morto, o quantomeno la morte si sarebbe verificata in un momento successivo.
Definiamo “passiva” invece, «quella forma di eutanasia che si riferisce ad una situazione, in merito alla quale, il medico sospende, su esplicita richiesta di un paziente o in base a dichiarazioni anticipate del paziente medesimo, un trattamento, in genere non strettamente terapeutico, che mantiene il paziente ancora in vita ovvero, omette di somministrare o effettuare un trattamento necessario alla sopravvivenza del paziente, seguendo in tal senso dichiarazioni antecedenti del paziente medesimo»[5]. In quest’ultimo caso, l’omissione del medico, si inserisce in una serie causale di eventi già in corso d’opera nell’organismo del paziente che conduce inevitabilmente alla morte di quest’ultimo. In questo secondo caso (eutanasia passiva), la morte, è la conseguenza del naturale decorso di una malattia incurabile della quale il medico non ha impedito l’evolversi. Nel primo caso (eutanasia attiva) invece, la morte, è la conseguenza diretta di una condotta attiva da parte del medico.
Definiamo per completezza espositiva anche la nozione di suicidio assistito. Si definisce “suicidio assistito” «quella situazione nella quale il medico aiuta a morire una persona gravemente malata o gravemente disabile, ad esempio prescrivendole i farmaci necessari perché realizzi il desiderio di suicidarsi in modo indolore o aiutandola materialmente a suicidarsi (preparazione del farmaco lasciando al paziente l’esecuzione dell’ultimo atto)»5ifattspecie incriminatrice,e di cui all’to vengono incriminate in virtù di una loro tipicità autonoma, incentrata sull’e forse d.
La distinzione tra forme attive e passive di eutanasia è di primaria importanza ai fini della determinazione dello spazio di liceità da attribuire ai cosiddetti “trattamenti medici dei morenti”. Si coglie quindi il minor disvalore morale e la minor carica emotiva concernente l’omissione che consiste, come abbiamo già accennato, nel non impedire il verificarsi dell’evento lesivo.
Queste differenziazioni nonostante siano fondamentali sotto l’aspetto tecnico giuridico, tendono a sfumare e a perdere gran parte del proprio significato da un punto di vista descrittivo, naturalistico e morale. Sono tutt’altro che rare infatti condotte che, sul piano naturalistico, sono sicuramente “attive”, ma dal punto di vista giuridico, sono qualificate come “omissive” (si suole parlare di “omissione tramite azione”) con non indifferenti conseguenze sul profilo penalistico relativo alla punibilità della condotta del medico.
La nostra costituzione (art. 32) ed una serie di norme del nostro codice penale, ritengono senza indugio legittimo il rifiuto delle cure salvavita, in quanto manifestazione del principio di autodeterminazione, purché sia, questo rifiuto, esplicitamente espresso dal paziente o quantomeno, desumibile da sue dichiarazioni antecedenti lasciate per iscritto, o comunque chiaramente manifestate, escludendo quindi la punibilità di tutte le forme passive di eutanasia.
La nostra magistratura ordinaria, nonostante un tutt’altro che breve periodo di acceso ostruzionismo, riuscì ad affermare questo principio nelle recenti sentenze “Welby”[6] ed “Englaro”[7] rimaste per anni al centro del dibattito politico-giornalistico[8].
Il nostro ordinamento giuridico ritiene invece illegittime, in quanto in contrasto con la fattispecie di cui all’art. 579 c. p. (omicidio del consenziente), tutte le forme attive di eutanasia. Dobbiamo ritenere altresì punibili, tutte le condotte finalizzate al suicidio assistito, in quanto contrastanti con l’art. 580 c. p. (istigazione al suicidio), fattispecie incriminatrice, che punisce tutte le condotte che danno un contributo causale alla realizzazione dell’evento lesivo[9].
A fronte di quanto detto risulta più che lecito sollevare un dubbio. Se la costituzione riconosce e tutela il principio di autodeterminazione, perché l’art. 579 c. p. continua a punire le forme attive di eutanasia? Chiedere di porre fine alla propria vita attraverso un’iniezione letale non è pur sempre manifestazione del principio di autodeterminazione? Sarebbe auspicabile che la Corte Costituzionale intervenga sul punto dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 579 c. p., per contrasto con il principio di autodeterminazione, nella parte in cui vieta l’eutanasia attiva[10].
3. L’omicidio del consenziente.
Ferma, sul piano di principio, nonostante i dubbi appena espressi, l’illiceità giuridica dell’eutanasia attiva, essa continua ad assumere rilevanza penale e ad essere considerata come delitto di omicidio, in virtù dello stesso principio del diritto penale come extrema ratio, sia per il carattere primario del bene della vita, sia per la funzione general-preventiva della pena, conseguente non solo alla funzione intimidatrice della minaccia di un male, ma anche e ancor prima alla funzione pedagogica e di orientamento sociale, insita nella incisiva disapprovazione sociale da essa espressa.
Ciò non toglie che l’eutanasia possa, tuttavia, costituire oggetto di particolare valutazione e giustificare un trattamento differenziato e più benevolo rispetto all’omicidio comune. Più precisamente, mentre deve sottostare alla sanzione dell’omicidio comune l’eutanasia non pietosa, rispetto alla quale non vi è ragione di indulgere11, un trattamento penale più mite può essere previsto per l’eutanasia autenticamente pietosa: delitto di pietà e non delitto di comodità, che assume una sua particolare fisionomia, che la contraddistingue dall’omicidio comune, nella generalità permeato da motivazioni utilitaristico-egoistiche, di odio, di aggressività. La condotta deve risultare caratterizzata dall’esistenza, attentamente accertata di una serie di fattori: a) sotto il profilo soggettivo, del movente determinante, altruistico e non egoistico, della pietà, della compassione; b) sotto il profilo dei presupposti oggettivi, della insopportabilità o tormentosità della sofferenza fisica, per la sperimentata impotenza dei mezzi antidolorifici; della imminenza, o, almeno, della inevitabilità non a lunga scadenza della morte; e del consenso espresso: la uccisione senza o contro la volontà della vittima non può essere atto pietoso, ma atto di crudeltà o di comodità; c) sotto il profilo esecutivo, dell’uso di mezzi inidonei a rendere il passaggio dalla vita alla morte indolore, sereno, rapido, perché la morte dolorosa, violenta, lenta, contrasta col movente della pietà che sorregge l’eutanasia pura12.
Le fattispecie incriminatrici che contraddistinguono le pratiche eutanasiche sono: l’omicidio del consenziente o, più marginalmente, l’aiuto al suicidio.
Secondo quanto recita l’art. 579 comma 1 c. p., «chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni». Nei successivi commi, il legislatore si preoccupa di escludere l’applicabilità dell’art. 61 c. p. (art. 579 comma 2) e di individuare le condizioni legittimanti il soggetto passivo ad esprimere il consenso ad essere ucciso, stabilendo che in difetto delle medesime si applichi la disciplina dettata per l’omicidio volontario (art. 579, comma 3)13.
La lettura della disposizione ci consente di formulare taluni rilievi preliminari. Va notato in primo luogo che il legislatore del 1930, pur non aderendo all’idea della piena assimilabilità dell’omicidio del consenziente all’omicidio volontario comune, respinge anche quell’indirizzo interpretativo che tendeva a riportare l’omicidio del consenziente nell’ambito dell’agevolazione e/o aiuto al suicidio; come è dimostrato dal persistere come ipotesi autonoma e fatta oggetto di considerazione in autonoma disposizione, dell’istigazione o aiuto al suicidio. Contemporaneamente, però, il legislatore ha anche respinto lo schema dell’eutanasia, come è dimostrato dalle cautele assunte nel terzo comma della disposizione a garanzia dell’assoluta libertà della formazione e dell’espressione del consenso da parte del soggetto passivo.
Ci preme mettere evidenza la particolare posizione assegnata nell’ipotesi criminosa in esame al “consenso dell’avente diritto”, che diventa elemento positivo essenziale del fatto e pertanto non può essere ricondotto alla mera scriminante di cui all’art. 50 c. p.
4. Il consenso nella prospettiva liberale
Dopo queste considerazioni introduttive possiamo focalizzare la nostra attenzione sul consenso che, oltre ad essere elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice dalla quale prendiamo le mosse per ritagliare uno spazio di liceità ai trattamenti eutanasici, è soprattutto la principale manifestazione ed espressione del principio di autodeterminazione.
Possiamo definire il consenso come «il mezzo attraverso cui si compie un atto dispositivo di un proprio diritto»14. Dal punto di vista della tutela giuridica dei diritti dell’individuo, in chiave penalistica, il consenso acquista uno spessore non indifferente, poiché costituisce una scriminante a favore di colui il quale ponga in essere una lesione ad un bene giuridico del soggetto consenziente. In parole povere, la possibilità del titolare di disporre di un proprio diritto, può avere come conseguenza di rinunciare alla tutela che l’ordinamento giuridico garantisce all’individuo in caso di aggressione e/o lesione di un bene giuridico.
Una concezione moderna di Stato liberale muove i suoi primi passi da una serie di disposizioni (costituzionali e non solo) dalle quali è possibile ricavare principi di fondamentale importanza: art. 2 Cost. (principio di solidarietà), art. 3 Cost. (principio di uguaglianza), art. 13 Cost. (principio dell’inviolabilità della libertà personale), art. 32 Cost. (principio di salvaguardia della vita e della salute), al cosiddetto principio del “consenso” ricavabile dal combinato disposto degli articoli 13 e 32 comma 2, e agli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che proteggono la dignità e l’inviolabilità dell’essere umano. Alla luce di questi principi, che tutelano ed esaltano il primato della persona, e delle concezioni “moderne” del bene giuridico, che lo qualificano come bene “superindividuale” legato inscindibilmente alla persona15, dobbiamo inevitabilmente prendere le distanze dalle concezioni autoritarie, tipiche delle codificazioni dell’inizio 900, che “strumentalizzano” i cittadini per il perseguimento di interessi statuali considerati primari e non sacrificabili. Dobbiamo altresì discostarci da quell’autoritarismo che qualificava alcuni diritti dell’essere umano (come il diritto alla vita e/o all’integrità fisica) indisponibili.
Un’interpretazione evolutiva dell’art. 5 c. c., conforme ai principi precedentemente elencati, garantisce all’individuo una piena libertà di disposizione dei propri diritti, anche al costo di mettere a repentaglio la propria vita o la propria integrità fisica, incontrando come unico limite la possibilità (negata) di disporre del proprio corpo a favore di terzi. Questa conclusione è il risultato di una nuova considerazione del concetto di integrità fisica e dell’essere umano, oggi intesta non più come integrità materiale, ma come sinonimo di salute ovvero come stato complessivo di benessere psico-fisico del soggetto16. Nulla vieta che un soggetto, ponendo in essere atti auto-lesivi, raggiunga un complessivo miglioramento del suo stato di salute psico-fisico.
Assodata la moderna concezione di Stato laico-liberale, basata sul primato della persona, e superati i vecchi brocardi che ponevano limiti discutibili alla libera disponibilità dei propri diritti, notiamo senza grosse difficoltà che la presenza nel nostro ordinamento giuridico della disposizione di cui all’art. 50 c. p.17 (consenso dell’avente diritto) apre un’ulteriore prospettiva nella valutazione della punibilità dell’autore di un delitto18. In questa direzione, e nella considerazione della sanzione penale come estrema ratio, in conformità con i principi costituzionali, si impone al diritto penale di prendere in considerazione le condizioni concrete della vittima e di dare rilevanza ai suoi interessi. In questo modo si giunge al giusto contemperamento tra l’interesse pubblico alla tutela penale e l’autonomia privata dell’individuo.
A fronte di quanto detto, si propende per una sempre maggiore rivalutazione del ruolo della persona offesa con un inevitabile riduzione del raggio di applicazione della sanzione penale, tenendo fuori tutti i casi in cui la lesione al bene giuridico sia stata provocata (o consentita) dal titolare del diritto19.
5. Il ruolo del consenso nei trattamenti medici
L’affermarsi di questa nuova prospettiva liberale del consenso ha avuto inevitabili ripercussioni anche in materia di trattamenti medici. A fronte di quanto detto, dobbiamo ormai considerare superato il vecchio modello etico che, prendendo una netta posizione paternalista nei confronti del rapporto medico-paziente, non prendeva in considerazione le volontà del paziente. Il medico quindi non era vincolato dagli orientamenti e dalle preferenze del paziente, doveva sostituire la sua volontà a quella del paziente prendendo autonomamente nel caso concreto tutte le decisioni concernenti i trattamenti da somministrare al paziente.
Superata questa concezione di “privilegio terapeutico”20, interpretando il diritto alla salute in conformità col principio di autodeterminazione, la volontà del paziente assume oggi elemento cardine della totalità dei trattamenti medici, essendo il consenso l’elemento attraverso il quale è possibile raggiungere il giusto l’equilibrio tra doveri deontologici del medico e rispetto della dignità umana del paziente21.
Questa nuova concezione di “consenso informato”, oltre a mettere a dura prova la concezione paternalistica di “privilegio terapeutico”, offre le basi argomentative per tracciare i limiti di liceità di un trattamento sanitario. Il consenso, essendo il “fondamento della pratica sanitaria”22, risulta anche il limite entro il quale può spingersi la condotta medico. Quest’ultimo non può porre in essere interventi che eccedono quanto espresso dal paziente nella sua manifestazione di volontà. Questo limite deve ritenersi valido anche nel caso di trattamenti sanitari obbligatori previsti per legge. «La legge – afferma l’art. 32 Cost. – non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»23.
Focalizzando la nostra attenzione sui trattamenti salva-vita, in virtù dei principi affermati, il paziente, manifestando il proprio consenso informato, ha la piena facoltà di scelta sul sottoporsi o meno alle cure mediche, anche al costo di andare incontro ad una morte certa. Se riesumassimo la vecchia concezione paternalista di privilegio terapeutico, il paziente non avrebbe altra scelta che proseguire un’esistenza che potrebbe risultare contraria alle sue credenze e alla sua idea di dignità umana. Il principio del consenso informato costituisce una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi interessi24, che si concretizza non solo nella facoltà di scegliere tra diversi trattamenti sanitari, ma anche nella possibilità di rifiutare ab initio una terapia o di interromperla consapevolmente.
Spostando la nostra analisi su profili penalistici, la giurisprudenza prevalente tende a configurare il consenso come causa di giustificazione, eliminando l’antigiuridicità da un comportamento (nel caso specifico un trattamento medico) che viene qualificato come un fatto illecito conforme a fattispecie incriminatrice (fatto tipico ma non antigiuridico)25. Questo ruolo assunto dal consenso ha sicuramente contribuito a ridurre quello spazio ingiustificato di impunità di cui godevano i medici, ma tuttavia rimangono forti dubbi in dottrina sulla qualificazione tecnico-giuridica della condotta del medico. Allo stato dei fatti questa soluzione da sicuramente un peso e un rilievo preminente al consenso del paziente, ma circoscrivere l’ambito di operatività del consenso nel solo terreno dell’antigiuridicità potrebbe risultare fuorviante. Così facendo il consenso avrebbe un campo d’azione ridotto al solo ambito penalistico e sinceramente, essendo il consenso costituzionalmente tutelato come manifestazione dell’autonomia individuale, ridurlo ad un mero strumento interno alla logica penalistica ci sembra alquanto limitativo. Non ci sembra che i principi costituzionali analizzati volessero modellare il consenso come una mera causa di giustificazione.
In un’ottica di alleanza terapeutica medico-paziente il consenso «deve essere visto come un atto di accettazione e di fiducia con cui si esprime la volontà di aderire e sottoporsi, nel proprio interesse, ad un trattamento sanitario»26. In quest’ottica è sicuramente fuorviante sostenere che il soggetto si disinteressi del suo stato di salute o peggio ancora che il paziente rinunci aprioristicamente ad ogni forma di tutela penale. Risolvere il problema dei limiti di liceità dei trattamenti medici sul solo piano dell’antigiuridicità risulta troppo riduttivo. Forse la strada da seguire, prendendo come modello di riferimento i trattamenti medici salva-vita, è quella che nega la qualificazione della condotta medica come fatto tipico conforme a fattispecie incriminatrice. In questa prospettiva la morte del paziente malato terminale, non è il risultato della condotta del medico, ma il naturale decorso della malattia che il medico, con la sua condotta, ha tentato di curare.
Autorevole dottrina, sulla base di queste osservazioni, sottolineando l’utilità sociale dell’attività medica, afferma che il consenso dell’avente diritto, nei trattamenti terapeutici, non può assumere il mero ruolo di causa di giustificazione. Il fatto stesso che è l’individuo ad acconsentire di sottoporsi ad un trattamento sanitario esclude a priori che la condotta del medico possa essere qualificata come aggressione. Il campo sul quale indagare non sarebbe più quello dell’antigiuridicità ma quello della tipicità27 in quanto, non essendoci un’aggressione, vengono a mancare gli estremi per qualificare la condotta del medico come fatto tipico conforme a fattispecie incriminatrice.
Ridurre il consenso ad una mera scriminante e considerare “fatto tipico conforme a fattispecie incriminatrice” la condotta del medico, qualificherebbe a priori come illeciti tutti i trattamenti sanitari, risultato a dir poco aberrante vista l’utilità sociale dell’attività medica. Inoltre appare evidente come la volontà del paziente non può assumere il significato di rinuncia alla tutela penale.
Il consenso informato nei trattamenti medici non può essere ricondotto alla mera scriminante di cui all’art. 50 c. p., deve essere considerato un requisito imprescindibile della liceità degli stessi, ricavabile da un bilanciamento tra principi costituzionali che tutelano la salute e la libertà morale del paziente28.
6. Il caso Welby e la posizione del Dott. Riccio
Prima di divenire un caso di estremo rilievo mediatico, quella di Piergiorgio Welby è stata, in una sua prima fase, la storia di un dramma umano durato per più di quarant’anni. Se il “caso Welby” è durato quattro mesi, dal settembre al dicembre del 2006, senza contare gli strascichi giudiziari, la malattia di Welby durava dal 1963, anno in cui, diciottenne, gli venne diagnosticata una distrofia muscolare scapolo omerale progressiva, dall’esito certamente infausto. Contrariamente alle previsioni dei medici, il decorso della malattia del paziente, seppure inesorabilmente tendente all’aggravarsi, s’era dimostrato, da principio, piuttosto lento e graduale. Ciononostante, nel corso degli anni ottanta, Welby aveva perso l’uso delle gambe, per poi assistere, nel corso degli anni novanta, al progressivo deterioramento del proprio stato fisico. Nel luglio del 1997 Welby perde i sensi, a causa di quell’insufficienza respiratoria che, da quel momento in poi, diverrà il suo incubo in misura sempre più angosciante. Potremmo dire che è da quel punto, inoltre, che le condizioni del paziente divengono quelle che tutti abbiamo potuto constatare, seppure superficialmente, attraverso i mezzi d’informazione. Da quell’anno, infatti, Welby vive tracheotomizzato; egli perde la capacità di alimentarsi, di respirare e, sostanzialmente, di parlare in maniera comprensibile: dunque verrà nutrito con un prodotto speciale denominato Pulmocare, respirerà con l’ausilio di un apparato di ventilazione polmonare, parlerà, per così dire, attraverso un computer.
Il peggiorare delle proprie condizioni di salute induce Welby ad impegnarsi sempre maggiormente nell’ambito dei diritti civili, con particolare riguardo al diritto di morire con dignità e senza inutili sofferenze. È, questa, la seconda fase della vicenda: Welby diviene copresidente dell’Associazione Luca Coscioni, si batte al fianco dei Radicali Italiani, pubblica un libro dal titolo Lasciatemi morire; il tutto adoperandosi con ammirevole fermezza, serietà, serenità onde ottenere risultati concreti nella lotta che ha scelto di intraprendere. Welby trova in cuor suo motivazioni persuasive: egli intravede dinanzi a sé, come in seguito preciserà il giudice, “lo spettro terrorizzante” di una sofferta morte per ipossia. Osserverà significativamente il G.u.p., come “noi possiamo solo immaginare cosa voglia dire morire per soffocamento, quando al movimento meccanico involontario preposto all’inspirazione non risponda l’acquisizione dell’aria necessaria. Piergiorgio Welby, invece, l’aveva già sperimentato concretamente nel 1997 e lo stava rivivendo negli ultimi tempi, quotidianamente, in quel progressivo esaurirsi della sua capacità respiratoria nonostante l’assistenza meccanica del ventilatore polmonare”29.
Ecco che nel settembre del 2006 Welby scrive un’intensa lettera al Presidente della Repubblica, auspicando un intervento pubblico in favore delle ragioni di quanti non vogliano più subire cure che, liberamente, abbiano scelto di non tollerare. In quei giorni, chiederà di attivarsi pressoché a tutti i soggetti che avrebbero potuto e dovuto prestargli ascolto; scriverà ad esponenti del mondo politico, a commissioni parlamentari, a telegiornali; chiederà l’intervento di medici che sospendano il trattamento, minacciando, quale extrema ratio, un atto di disobbedienza civile. Tutto ciò, tuttavia, avviene invano: inascoltato e giunto allo stremo delle forze, il paziente si affida alla magistratura civile, la quale, con un imbarazzante e contraddittorio provvedimento, respinge il suo ricorso, sostenendone l’inammissibilità. A quel punto, Welby decide di rivolgersi ad un sanitario che si dimostra disponibile a collaborare nell’attuazione pratica di quell’intento liberatorio, a più riprese annunciato; incontra il dottor Mario Riccio, con l’aiuto del quale si spegne serenamente la sera del 20 dicembre 2006. Si apre, allora, quella che chiamerei la terza fase del caso Welby, quella di cui andiamo a trattare. Nei confronti di Riccio non viene aperto formalmente alcun procedimento penale; ma viene ipotizzato, in capo a lui, il reato di omicidio del consenziente30 (art. 579 c. p.). Il P.M. formula egli stesso richiesta di archiviazione e si giunge ad udienza camerale. Il G.i.p. respinge la richiesta di archiviazione e viene, incredibilmente, imposto al P.M. di formulare imputazione coatta nei confronti del medico. Il giudice dell’udienza preliminare dichiara, ex art. 425 c. p. p., non luogo a procedere nei confronti del Dott. Mario Riccio in quanto non punibile per la sussistenza, rispetto al suo operato, dell’adempimento di un dovere, mancando quindi l’antigiuridicità della condotta. Nello specifico «il dovere del medico consiste nel consentire al paziente l’esercizio di un diritto, costituzionalmente garantito, a rifiutare le cure»31.
In virtù di una opportuna scelta strutturale, la motivazione del Tribunale di Roma si apre con l’ampia narrazione della storia clinica e personale del paziente, narrazione realizzata in un continuo intreccio che con efficacia fonde la testimonianza della moglie del de cuius e le parole scritte dallo stesso Welby in rapporto alla propria condizione. Giustamente, già il G.u.p. aveva disposto, nella prima udienza per il rinvio a giudizio dell’imputato, una integrazione probatoria sostanziantesi nell’audizione della vedova del paziente, in qualità di persona offesa, e nell’acquisizione del libro, scritto dallo stesso Welby, di cui abbiamo fatto precedentemente menzione. Sottolinea il giudice come «fatto certamente assai inusuale, entrano prepotentemente come contributo essenziale nella ricostruzione dei fatti le affermazioni della stessa ritenuta vittima, ovvero di Piergiorgio Welby … che, in ragione del loro contenuto, chiariscono importanti punti della vicenda»32. Ed è proprio la centralità della figura del paziente inteso come soggetto portatore di diritti della personalità inviolabili a contraddistinguere il percorso argomentativo intrapreso dal giudice nell’affrontare un caso delicato sotto molteplici profili, non ultimo quelli relativi ad una corretta applicazione e interpretazione del sistema della gerarchia delle fonti e alla difficoltà di bilanciamento tra valori costituzionali di pari grado apparentemente configgenti tra loro.
6.1. L’autodeterminazione del paziente capace
Appena un giorno prima del deposito delle motivazioni che giustificano il proscioglimento di Mario Riccio, un’altra importante pronuncia interveniva sul tema del trattamento giuridico del paziente terminale e, in particolare, sui delicati profili relativi al suo consenso e alla sua volontà. Il caso cui ci riferiamo, cioè quello di Eluana Englaro33, differisce per molti aspetti rilevanti da quello di Piergiorgio Welby: a tacer del resto, qui discutiamo di un soggetto capace e consapevole, mentre al centro dell’altra vicenda è una paziente in stato vegetativo permanente, impossibilitata quindi a manifestare qualsivoglia consenso o volontà. Eppure il Supremo Collegio, nel pronunciarsi sul caso Englaro, esprime talune considerazioni introduttive alle quali è opportuno fare nuovamente cenno anche in questa sede. Si tratta di affermazioni nette e inequivoche: dopo aver ricordato come il consenso informato costituisca principio saldo nella propria giurisprudenza34, la Corte aggiunge che «il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale»35. Nella sentenza Englaro viene dunque superato quell’approccio concettuale che a tutti gli effetti si traduceva in un angosciante paradosso: qualora quegli stessi soggetti ai quali, nel corso della vita, il sistema accorda la possibilità di negare il proprio consenso alle cure non potessero poi rifiutare la prosecuzione dei trattamenti salva-vita sul crinale della fine del percorso esistenziale, vorrebbe dire che l’ordinamento tollererebbe, e anzi sancirebbe, una sorta di espropriazione della fase finale della vita stessa. Sarebbe questa36, un’implicazione illecita sotto molteplici profili, in quanto configgente con la latitudine che oggi ha assunto il concetto di salute, non più intesa come assenza di malattia, ma come stato di completo benessere psicofisico parametrato e calibrato anche e soprattutto in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé37, nonché con l’idea stessa di persona che oggi la dottrina s’impegna a descrivere, nel tentativo di attribuire la giusta dimensione e le più aderenti sfumature al complessivo dettato costituzionale sul tema. La Cassazione è lapidaria sul punto: «deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene vita».
Il giudice chiamato a valutare la posizione di Mario Riccio si pone sulla medesima linea espressa dalla Cassazione: non solo «il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’ art. 13 Cost.» ma tale inviolabile diritto è «immediatamente precettivo ed efficace nell’ambito del nostro ordinamento, non limitato dalla previsione dell’ art. 5 c. c., e soprattutto rientrante tra i valori supremi che l’ordinamento tutela a favore dell’individuo».
Il fondamento del diritto all’autodeterminazione rispetto ai trattamenti sanitari, di qualsiasi genere, è da rinvenirsi in una sorta di combinato disposto desumibile dagli artt. 2, 13, 32 comma 2 della Costituzione. In particolare da quest’ultimo (art. 32 comma 2 Cost.) sancisce un vero e proprio diritto al rifiuto delle cure mediche, diritto dal quale scaturisce l’adempimento di un dovere da parte del medico, venendo quindi a mancare l’antigiuridicità della condotta. Ed è su questo parametro cardine del sistema che va impostato il ragionamento risolutivo rispetto a casi come quello di Welby: se sussiste, nell’ambito della tutela della salute, un diritto di rango costituzionale all’autodeterminazione consapevole del paziente capace, non è poi dato affermare che tale diritto possa essere frustrato né dall’esistenza “di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario” né dall’assenza di “una normativa secondaria di specifico riconoscimento”. In questo senso vanno in crisi quelle ricostruzioni che vorrebbero impossibile l’applicazione del rifiuto di cure riferito ai trattamenti salva-vita in quanto in sé incompatibile con i disposti degli artt. 5 c. c. nonché 579 e 580 c. p.
Il giudice tuttavia compie un ulteriore passo significativo, riconoscendo che l’espressione del principio di cui all’art. 32 comma 2 Cost. vincola lo stesso legislatore ordinario all’immediata precettività di quest’ultima norma: e dunque se, per un verso, non occorre rinvenire una normazione specifica di grado secondario onde veder confermato il diritto a rifiutare le cure, per altro verso occorre rinvenire una specifica normazione, invece, per sottoporre taluno ad un trattamento sanitario obbligatorio38. A ciò si aggiunga la considerazione secondo cui “nel nostro ordinamento giuridico non è rinvenibile alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire prescindendo dalla volontà del paziente”, e ciò perché la stella polare in materia di trattamento sanitario è e rimane il consenso consapevole del paziente capace. A ben guardare, non varrebbe in contrario evocare, come spesso s’è fatto, lo stato di necessità quale causa oggettiva di esclusione del reato per il medico che intervenga in situazioni particolarmente critiche: il richiamo allo stato di necessità, in effetti, va letto – sottolinea il giudice – nel senso dell’esclusione dell’eventuale rilevanza penale della condotta del medico che intervenga, in particolari circostanze, a prescindere dal consenso, a favore della sopravvivenza del malato, ma non certo come espressione di un obbligo di intervento propriamente inteso.
Per altro verso, affrontando un altro aspetto controverso della vicenda, il giudice ha cura di precisare che se è vero che nel caso di Welby non ci si è trovati dinanzi ad un vero e proprio caso di accanimento terapeutico, non è meno vero che il punto di riferimento cui guardare è solo e comunque la volontà del paziente: e dunque «la terapia cui la persona intende sottrarsi non necessariamente si deve sostanziare in una situazione estrema di accanimento terapeutico perché egli possa esercitare il diritto di farla cessare».
Il rincorrersi, nell’ambito della sentenza, di queste e altre argomentazioni mostra come, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata delle linee guida del sistema, comprese alcune norme chiave del codice penale, suscettibile di decretare un ripensamento della tutela anche penale della vita39, la pronuncia sul caso Welby-Riccio costituisca in questo senso espressione di quanto autorevole dottrina è andata, da tempo, argomentando: se è vero che il paziente capace è oramai colui che ha l’esclusivo potere di accettare o meno la cura, di sceglierne le modalità e di determinarne i limiti, allora, sul medesimo terreno, deve trovare una dimensione concreta il diritto a morire con dignità, rifiutando cure non tollerate o valutate come accanimento e optando per terapie antalgiche che possono anche determinare un abbreviamento di quella vita che, ormai, a quel punto, diviene l’ombra di quanto si è stati40. Attraverso la corretta interpretazione delle norme e la consapevole individuazione dei fondamenti del sistema si prende atto finalmente di un inevitabile e imprescindibile dato di fatto: «divenuto “regola della vita”, il consenso della persona garantisce una disponibilità di sé che copre l’intero arco dell’esistenza e diviene così anche la regola fondamentale del morire»41.
Se è vero che il consenso del paziente assume un ruolo chiave nella valutazione e soluzione di vicende quali quella di Welby, risulta d’altro canto evidente come la costellazione di ipotesi, che può dirsi ricompresa nella galassia tematica relativa alla morte anticipata, sia destinata a produrre un attrito quantomeno apparente tra taluni referenti “forti” del sistema, intesi nel senso di “principi a prima vista incompatibili tra loro e tali che il riguardo prestato all’uno sembra implicare il sacrificio più o meno profondo dell’altro”42. E in gran parte, la storia dello sviluppo dottrinale e giurisprudenziale attorno a questi temi è la storia della ricerca di una soluzione adeguata a tale apparente conflitto.
Avendo superato quelle concezioni autoritarie che negavano la disponibilità del bene-vita, occorre soffermarsi sull’importante dato che si pone alla base della decisione del giudice sul caso Riccio: “il principio discendente dall’art. 32, comma 2, della Costituzione, è ascrivibile tra i valori supremi destinati a costituire la matrice di ogni altro diritto della persona alla stregua del diritto alla vita” e dunque il primo si pone su un piano di pari dignità formale e sostanziale rispetto al secondo, non solo perché entrambi di pari rango gerarchico sul piano delle fonti, bensì anche e soprattutto perché i due principi conferiscono effettività a “quel ristrettissimo nucleo di valori supremi facenti capo all’individuo, la tutela dei quali non può mai venire meno senza che ciò costituisca violazione dei diritti fondamentali”. L’affermazione è della massima importanza: i casi come quello di Welby non pongono l’interprete, a ben guardare, dinanzi ad un conflitto vero e proprio tra valori supremi, ma chiedono al giurista di applicare in maniera corretta il sistema costituzionale di protezione della persona inteso nella sua essenza.
Il diritto alla vita e il diritto al rifiuto di cure non vanno, dunque, guardati in antitesi, bensì vanno letti e considerati insieme, vanno coniugati e visti, per così dire, come due facce della stessa moneta; e conseguentemente è in questa chiave che va loro data applicazione43, applicando la soluzione scaturente dal giusto bilanciamento di questi valori.
6.2. La condotta del sanitario che attui il rifiuto di cure: azione o omissione?
Il giudice dell’udienza preliminare fa propria la convinzione, espressa da autorevole dottrina, secondo cui la fattispecie del rifiuto di cure non possa ragionevolmente essere inquadrata all’interno degli schemi ora eutanasia attiva, ora del suicidio assistito. La scelta del paziente altro non è che l’ennesima manifestazione di quella che il G.u.p.44 ben descrive come la «tenace volontà di non voler abbandonare il ruolo di protagonista della propria vita, di questa preservando dignità e qualità».
Nell’affrontare i principali nodi problematici relativi al tema della sospensione del trattamento salva-vita, il giudice prende posizione anche rispetto ad un altro aspetto assai controverso, vale a dire se l’intervento del sanitario che proceda all’interruzione delle cure sia da inquadrare nello schema della condotta attiva o di quella omissiva.
La questione risulta di particolare complessità, come tutti i temi che si legano, in qualche modo, alla grande problematica della dinamica di causazione degli eventi rilevanti per il diritto. Il medico che interrompe un trattamento compiendo un’azione materiale, o meglio un’azione naturalisticamente attiva, opera in senso attivo od omissivo? La difficoltà ad offrire una risposta a questa domanda che non esorbiti dall’alternativa azione-omissione deriva da una sempre minore adeguatezza di tale alternativa a rispecchiare, in peculiari frangenti, il senso reale di quanto avviene. Il campo della cura, quel ramo in cui oggi è possibile, grazie alla tecnologia e ai progressi scientifici, mantenere in vita i pazienti attraverso corsi terapeutici assai lunghi anche quando le condizioni dei soggetti non consentano di sperare, ragionevolmente, in alcun esito positivo, è banco di prova di tale defaillance; e per questo, autorevole dottrina, in passato, si è espressa nel senso dell’opportunità d’introdurre e conferire rilievo ad una categoria giuridica dell’astensione e dell’eventuale recupero successivo di quest’ultima attraverso la cessazione di un corso terapeutico oramai proseguito invito domino45. Nel caso di specie, tuttavia, il giudice tenta di ricondurre la dinamica dell’intervento operato da Mario Riccio nell’ambito delle categorie tradizionali; e, una volta scartata l’ipotesi dell’omissione, egli opta decisamente per l’azione. Afferma il giudice che «è ravvisabile nell’atto di distacco del respiratore una innegabile condotta interventista, che non può essere assimilata, e non solo dal punto di vista naturalistico, alla condotta, essa sì omissiva, del medico che si limiti a non iniziare una terapia non voluta dal paziente»46; e, d’altra parte, sempre il giudice, considera alla stregua di un “artificio logico” la prospettiva che vedrebbe, nella sospensione del trattamento, semplicemente il non impedimento dell’evento morte cagionato dalla malattia del degente piuttosto che propriamente dal sanitario.
Qualche perplessità e qualche spunto di contraddittorietà, in merito all’inquadramento della condotta del sanitario, pare emergere nel ragionamento del giudice stesso, laddove, in più punti della pronuncia, trattando vari e diversi aspetti del caso, egli accenna ora alle forzature legate ad una eventuale applicazione, per l’ipotesi di specie, della figura dell’omissione mediante azione, parlando di una “condotta positiva per poter consentire l’attuazione della volontà del paziente”, ora invece ad una “pretesa di astensione, ma anche di intervento se ciò che viene richiesto è l’interruzione di una terapia”.
Il G.u.p., qualificando la condotta come “attiva/commissiva” e giustificandola come adempimento di un dovere (scaturente da un diritto costituzionalmente garantito), ha risolto la questione sul terreno dell’antigiuridicità. Tuttavia, a nostro avviso, ed in conformità col pensiero di autorevole dottrina, la questione poteva essere risolta sul terreno della tipicità, qualificando la condotta come omissiva, riconducendola a quella costruzione dogmatica di origine tedesca definita omissione mediante azione. Questa costruzione è il risultato di una valorizzazione normativa della condotta che mette sullo sfondo le manifestazioni naturalistiche della stessa.
La condotta del medico può ben definirsi omissiva «nel senso che l’omissione è realizzata attraverso un’azione (in questo caso un’azione che rimuove il sostegno artificiale che impedisce l’evento morte), ovvero, semplicemente ricostruendola come omissione dell’ulteriore trattamento e giungendo quindi a decretarne l’irrilevanza penale per mancanza di tipicità (dell’omissione)»47. Come abbiamo precedentemente accennatoquesta situazione va rapportato il caso del medicodal punto di vista naturalistta che mette sullo sfondo le manifestazioni natur, è tutt’altro che rara nel mondo dei trattamenti medici l’esistenza di condotte che sarebbe più consono qualificare giuridicamente come omissive nonostante una loro percezione naturalistica commissiva. A questa ricostruzione va sicuramente ricondotto il caso del medico che disattiva un macchinario di respirazione o nutrizione artificiale, disattivazione che conduce inevitabilmente alla morte del paziente.
Rapportando questa condotta al diritto di rifiutare le cure ex art. 32 comma 2 Cost., la condotta è suscettibile di essere qualificata giuridicamente come omissiva, interpretandola come omissione della prosecuzione delle terapie, non più tollerate dal paziente. L’evento morte quindi non scaturisce della condotta del medico, ma è il risultato del naturale decorso di una malattia, in ordine alla quale il paziente decide di interrompere le cure necessarie alla sopravvivenza. Il medico altro non fa che cessare di opporsi all’evoluzione patologica della malattia del paziente48. Nel caso specifico, il fattore che determina l’evento lesivo è da rintracciare nella patologia di insufficienza respiratoria già presente nel quadro clinico del paziente che, a seguito delle richieste di quest’ultimo, non viene più contrastata.
Adottando la soluzione qui prospettata, qualificando quindi la condotta come omissiva, la questione viene risulta sul terreno della tipicità. L’omissione infatti, per essere penalmente rilavante, deve preesistere un dovere di agire, cioè un obbligo giuridico di impedire l’evento ex art. 40 comma 2 c. p. Obbligo giuridico che, a seguito dell’esercizio del diritto di rifiutare le cure da parte del paziente, viene a mancare, rendendo impossibile la qualificazione della condotta come fatto tipico conforme a fattispecie incriminatrice49.
Molte di quelle forzature tanto temute dalla giurisprudenza sul punto si eviterebbero, se si pervenisse, nell’ottica di una maggiore consapevolezza del senso giuridico dei fenomeni, all’elaborazione di una vera e propria teoria dell’astensione, nell’orbita della quale, a fronte di quanto detto, andrebbero ricondotti anche tutti quei casi nei quali un’azione materiale si colorerebbe, per così dire, di significato passivo al punto da non consentire propriamente la riconduzione di quello stesso agire al concetto di una condotta giuridicamente attiva.
6.3. I limiti applicativi dell’art. 579 c. p. e l’applicazione dell’art. 51 c. p.
Nel caso di specie, è la norma riferibile alla fattispecie dell’omicidio del consenziente, l’art. 579 c. p., a suscitare vive perplessità, se applicata in chiave rigoristica ai casi di rifiuto di cure.
Il giudice, avvedendosi di questo stato di cose, si trova nella difficoltà di mettere insieme un dato normativo che parrebbe inequivoco nella sua tipicità con un principio costituzionale, quello espresso nell’art. 32, comma 2 Cost., principio fondamentale e operante, la cui applicazione risulterebbe, per il caso del rifiuto di un trattamento salva-vita, in contraddizione con la previsione penalistica sopra riferita. Occorre, dunque, individuare una soluzione a tale antinomia.
Del reato contestato, assume il giudice, sussistono gli elementi materiale (oggettivo) e psicologico (soggettivo): c’è l’elemento materiale, essendo presenti e dimostrabili sia il consenso della vittima che l’operazione, compiuta dal Riccio, di distacco dal respiratore a seguito del quale sopravveniva il decesso di quest’ultima; c’è, altresì, l’elemento psicologico: il fatto che Riccio abbia adempiuto alla volontà di Welby, rileva il G.u.p., non esclude di per sé la volontarietà della sua azione, direttamente causativa del decesso del paziente. Riccio, peraltro, poteva ben ipotizzare l’antigiuridicità della propria azione stanti sia le ripetute pronunce, di poco antecedenti allo svolgersi dei fatti, emesse in sede civile sulla vicenda Englaro, sia l’enorme dibattito mediatico sollevato dal caso Welby.
Dinanzi ad un simile quadro, significativamente il giudice si trova, in un primo momento, a dover auspicare, come avevano fatto lo stesso Welby e ampia dottrina giuridica prima e dopo di lui, un solerte intervento del legislatore. L’unica soluzione, afferma il G.u.p., perché la condotta del medico attuativa del rifiuto di cure del paziente sottoposto a trattamento salvavita fosse di per sé lecita, sarebbe quella di ridisegnare la fattispecie di cui all’art. 579 c. p., escludendo l’ipotesi in discorso dalla previsione incriminatrice. E un simile intervento potrebbe passare anche attraverso un’opportuna pronuncia adeguatrice della Corte costituzionale50.
Se le cose stanno come sin qui descritte, come si può evitare l’applicazione dell’art. 579 c. p. al caso di specie? La risposta del giudice è la seguente: «Se è vero che esistono del reato contestato tutti gli elementi costitutivi, nel caso concreto appare sussistere anche la scriminante di cui all’ art. 51 c. p.».
Si sceglie, come abbiamo più volte ribadito, di percorrere la strada dell’individuazione di una causa di giustificazione. In una pronuncia della Suprema Corte del 2001 si osservava, una volta ribadito che «la legittimità di per sé dell’attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente51, il quale costituisce un presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico», come non sia «attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invece, aderente ai principi dell’ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive, queste, derivanti dall’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano, di regola, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi»52. Con la sentenza qui in commento si traccia una tappa successiva del percorso volto a chiarire la posizione del medico che, dinanzi ad un rifiuto di prosecuzione della terapia in atto, sia chiamato ad intervenire per sospenderla: se il paziente rifiuta il trattamento attraverso l’espressione di una volontà personale, autentica, informata, reale ed attuale, l’esplicazione di quella potestà curativa cui si accennava deve adeguarsi a tale volontà, e dunque il medico ha il dovere giuridico di sospendere il trattamento in corso, perché a quel punto, come rileva il giudice nel caso di Welby, «il contesto entro il quale si consumava la condotta dell’imputato era quello presupposto dal legislatore costituzionale per il legittimo esercizio del diritto all’autodeterminazione della persona attraverso la richiesta di interruzione del trattamento sanitario».
E qui, come s’è correttamente notato in epoca anteriore all’elaborazione della pronuncia in commento, «non solo è lecita l’azione (o l’omissione) del sanitario (rischio consentito), ma è lecito anche l’evento infausto che conseguirà, che non è impedibile mediante “salvataggio” spontaneo (che sarebbe un trattamento coatto e illecito) magari per l’applicazione di una sorta di stato di necessità»53.
6.4. Il diritto di autodeterminazione
Stante la delicatezza dei temi e le complessità legate al bilanciamento dei valori in gioco è necessario tracciare con chiarezza i limiti entro i quali deve esplicarsi il diritto della persona all’autodeterminazione in materia sanitaria così come lo si è sin qui descritto. In via riassuntiva, richiamando il discorso già affrontato, si potrebbe dire che, onde legittimare l’interruzione del trattamento salva-vita nei confronti del paziente che lo rifiuti, occorre verificare la sussistenza di due elementi: la presenza di una sorta di garante e la presenza di un consenso qualificato.
Sotto il primo profilo, l’individuo «può autorizzare anche condotte direttamente causative della sua morte», afferma il giudice: ma è la Costituzione stessa a limitare questa prerogativa all’ambito sanitario; e dunque la vicenda non può che avere per protagonisti un medico e un paziente, perché le condotte di riferimento sono espressamente limitate al campo medico e devono, dunque, essere poste in essere da un professionista competente nel ramo, «sempre all’interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario instaurato tra quest’ultimo e il paziente». Il ruolo del medico, dunque, si esprime in una doppia garanzia: egli è chiamato all’adempimento del proprio dovere terapeutico secondo la disciplina normativa e deontologica e, allo stesso tempo, egli è chiamato anche a garantire l’esercizio del dissenso espresso dal paziente nei confronti della instaurazione o prosecuzione di una qualsiasi terapia. Ecco che la conseguenza ultima di un eventuale rifiuto delle terapie proposte è che il medico deve desistere da qualsiasi atto curativo, anche se lo ritiene adeguato54.
Sotto il secondo profilo, il giudice descrive i caratteri che il consenso del paziente deve presentare; esso, per essere valido, deve essere personale, autentico, informato, reale, attuale. Molto vi sarebbe da dire con riguardo ad ognuno di questi caratteri, ma ci limitiamo, in questa sede, a poche osservazioni, isolando i requisiti dell’autenticità e dell’attualità.
Consenso autentico, nella visione abbracciata dal giudice, significa non apparente: esso non deve essere condizionato da costrizioni o suggestioni di terzi, ma nemmeno da sentimenti irrazionali, quali la mera paura. Questo modo di considerare le cose potrebbe lasciare perplessi – nessun consenso di paziente sofferente o terminale, si dirà, risponderà mai al requisito così tracciato – ma esprime, invece, un delicato equilibrio che il giudice ricostruisce, oltreché in negativo anche in positivo: lungi dall’essere determinato da irrazionalità, il consenso è autentico quando è strettamente legato a concrete situazioni personali del malato (si pensi alla condizione di sofferenza descritta da Welby rispetto al proprio incurabile male).
Peculiari problemi pone, a prima vista, il requisito dell’attualità, soprattutto se considerato nell’ottica di quelle argomentazioni che vorrebbero ritenere impossibile la verifica del requisito dal momento della perdita di coscienza del soggetto fino al sopraggiungere del decesso. Ci pareva, e ci pare, quest’ultima, una forzatura i cui termini il giudice ben chiarisce: infatti «non può che costituire un inutile artificio voler far coincidere il requisito dell’attualità della volontà con la necessaria e stretta contestualità tra la morte e la perdita di coscienza della persona». Il requisito dell’attualità del volere, trascolora, dunque, per casi come quello di Welby, nel permanere della decisione in relazione alla prevedibilità dell’evento. E sono i fatti stessi intensamente narrati nel tessuto medesimo della pronuncia, fatti verificati e dimostrati, a fornire la conferma che Welby era perfettamente a conoscenza di quanto sarebbe accaduto a seguito del distacco del respiratore.
7. La volontà presunta del paziente in stato vegetativo permanente
Nessun problema suscita la prestazione del consenso nel caso, come quello appena analizzato, in cui il paziente è perfettamente capace di intendere e di volere. Problematiche tutt’altro che indifferenti scaturiscono invece dalle situazioni nelle quali il paziente, che deve manifestare le sue volontà, si trovi in stato di incapacità di intendere e di volere. La questione inoltre risulta ancor più problematica ed estremamente delicata nei casi in cui il paziente si trovi in stato vegetativo permanente, senza alcuna percezione del mondo esterno, ed è tenuto in vita da macchinari di idratazione, ventilazione e alimentazione artificiale, la cui disattivazione conduce inevitabilmente alla morte.
Anche in queste situazioni particolarmente delicate, dove si intrecciano questioni di natura etica, morale e religiosa, la liceità di un trattamento salva-vita non può prescindere dal consenso del diretto interessato. Non essendo il paziente in grado di manifestare le sue volontà, in conformità con l’art. 6 della Convenzione di Oviedo55, si deve procedere ad una ricostruzione presunta delle volontà di quest’ultimo, attribuendo la responsabilità della decisione al legale rappresentante, in modo che questi possa manifestare il proprio “giudizio sostitutivo”56.
Nella ricostruzione delle volontà presunte il rappresentante deve calarsi nei panni del soggetto in stato vegetativo e desumere quali sarebbero state le sue volontà basandosi: sui suoi valori etici, sulle sue credenze, sulle sue visioni del mondo, su eventuali manifestazioni di volontà, espresse in passato, in riferimento a situazioni analoghe. Prima di giungere ad una decisione definitiva la questione deve essere comunque posta al vaglio di un giudice, in modo tale che quest’ultimo possa valutare se la ricostruzione della presunta volontà sia genuina, oppure risulti influenzata da interessi diversi e confliggenti di natura emotiva, riconducibili al cosiddetto affectio familiaris, alla classe medica o al mondo religioso57. In questo caso la decisione viene rimessa ad un soggetto imparziale in modo date che possa tutelare il cosiddetto best interest58 del paziente ed individuare la soluzione ponendosi solo ed esclusivamente nella posizione di quest’ultimo.
Appare ovvio come nella ricostruzione delle volontà del paziente si prenda come punto di riferimento il soggetto più vicino a quest’ultimo, ma al contempo si tende a mettere il paziente al riparo dalla sensibilità e dal coinvolgimento emotivo che potrebbero condizionare il giudizio del legale rappresentante.
7.1. Il caso Englaro
Queste considerazioni in materia di ricostruzione della volontà presunta sono state in Italia al centro di un acceso dibattito politico-istituzionale in riferimento al caso di Eluana Englaro. Eluana fu una ragazza che a seguito di un incidente stradale, avvenuto nel 1992, a soli ventidue anni, riportò un gravissimo trauma encefalico rimanendo in stato vegetativo permanente, e continuò a vivere in quello stato per 17 anni grazie ad un macchinario di alimentazione e idratazione artificiale.
Il caso, che suscitò un rilievo mediatico non indifferente all’opinione pubblica italiana, dopo un travagliato iter giudiziario durato quasi 10 anni, che vide protagonista Beppino Englaro (padre di Eluana) contrastato da mondo politico e religioso, fu risolto dalla Corte di Cassazione nell’ottobre 2007 che, valorizzando gli artt. 32 e 13 della Costituzione, riuscì a dettare una soluzione, desumibile dal diritto positivo59, che rispecchiasse il giusto equilibrio tra i valori coinvolti.
Beppino Englaro nel 1999, dopo sette anni dalla tragica vicenda, vista la situazione di irreversibilità dello stato di salute della figlia, deposita un ricorso presso il Tribunale di Lecco con il quale chiede l’autorizzazione per l’interruzione del trattamento di alimentazione artificiale della figlia in quanto, la prosecuzione del trattamento non avrebbe fatto altro che protrarre una situazione di “vita” che Eluana non avrebbe mai accettato. Il Tribunale di Lecco, argomentando sul principio dell’indisponibilità del diritto alla vita, respinge la richiesta del padre. Stessa sorte riserva la Corte di Appello di Milano alle successive e reiterate richieste del padre.
Tuttavia nell’ottobre 2007 la Corte di Cassazione, con la sent. n. 21784, detta un principio che consente al giudice, previa richiesta del tutore, e in contraddittorio con il curatore speciale, di autorizzare la sospensione di un trattamento salva-vita artificiale al verificarsi di una duplice condizione: «a) che la condizione di stato vegetativo permanente sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la ben che minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elemento di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa della dignità umana»60.
La S. C., in conformità con altri ordinamenti giuridici affini al nostro, riconosce e valorizza il criterio della volontà presunta dell’incapace, considerandolo elemento cardine ai fini della decisione. Nello specifico si deve ricostruire la volontà che il paziente avrebbe manifestato ove fosse stato in condizione di prevedere una simile situazione di incapacità61. Nel caso in questione era possibile ricostruibile le volontà di Eluana da alcuni episodi che ne avevano segnato l’adolescenza e dalle dichiarazioni riportate dalle sue amiche d’infanzia che hanno contribuito in maniera chiara ed inequivocabile alla ricostruzione del modello psicologico dello loro amica.
Nonostante la pronuncia della Corte di Cassazione, l’iter che porto definitivamente all’accoglimento delle richieste di Beppino Englaro continuò ad essere travagliato a seguito dell’opposizione delle forze politiche e religiose, ma riteniamo che non sia questa la sede adatta per farne menzione.
Ciò che ci preme qui sottolineare è il lavoro ermeneutico del Supremo Collegio nel disegnare il giusto bilanciamento tra tutti i valori in gioco. La Corte nelle sue argomentazioni richiamò una serie di principi desumibili dalla Costituzione e da altri documenti internazionali: principio autodeterminazione, diritto alla vita, dignità dell’essere umano, diritto all’integrità fisica e psichica, best interest del paziente, diritto di rifiutare le cure62. Il Supremo Collegio riuscì a disegnare il giusto bilanciamento tra tutti i valori in questione, prendendo inequivocabilmente posizione a favore del rispetto della dignità umana e del principio autodeterminazione.
Molte delle argomentazioni e delle prese di posizione maturate durante la vicenda Englaro sono state oggetto di discussione in virtù del disegno di legge “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, meglio conosciuto come “ddl Calabrò”.
8. Le decisioni di fine vita nel disegno di legge in materia di consenso informato e manifestazioni anticipate di trattamento
Soffermandoci brevemente sul DDL S 10 – C2350, meglio conosciuto come “d.d.l. Calabrò”, che detta una nuova regolamentazione in materia di “consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento”, analizziamo le ripercussioni della nuova disciplina sulle decisioni di fine vita.
Il disegno di legge in questione si inserisce in un contesto di acceso dibattito politico-istituzionale tra concezioni ideologiche diametralmente opposte in riferimento alla tutela della vita e alla possibilità di disporre di quest’ultima. Senza entrare nel merito della questione abbondantemente analizzata, ci preme sottolineare come questo scontro politico-ideologico, maturato in virtù dei recenti casi “Welby” ed “Englaro”, ha influito inevitabilmente sulla regolamentazione della disciplina. La nuova normativa non è altro che il frutto di un compromesso mal riuscito, risultando spesso incoerente e contraddittoria63.
Ad una prima analisi superficiale non passano inosservati i caratteri molto paternalisti e autoritari contenuti nelle prime disposizioni. Questi caratteri fanno sorgere molti dubbi sulla compatibilità della norma nascente con il dettato costituzionale, visto e considerato l’orientamento liberalista adottato della Cassazione in riferimento al caso Englaro.
Analizzando sommariamente il d.d.l. in questione, possiamo notare che già nell’art. 1, adottando una concezione paternalista della sacralità della vita umana, viene posta in essere un’enorme limitazione al principio di autodeterminazione, qualificando il diritto alla vita come “diritto inviolabile e indisponibile”.
Il disegno di legge si preoccupa di rendere illecite tutte le forme di eutanasia, anche quella omissiva, riconducendo la condotta del medico alle fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 575, 579 e 580 c. p. L’attività medica, secondo il nuovo disegno, non può in nessun caso essere orientata al prodursi o consentirsi della morte del paziente, attraverso la non attivazione o disattivazione dei trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della salute64. L’intenzione è chiaramente quella di cancellare ogni spazio alla libertà di autodeterminazione del paziente, eliminando altresì la scriminante dell’adempimento di un dovere, della quale può godere il medico ai fini dell’esclusione della sua condotta dall’area penalmente rilevante.
I primi tratti di incoerenza e contraddittorietà del disegno normativo si riscontrano nelle disposizioni concernenti il consenso informato. Il d.d.l. fornisce una definizione di consenso informato sulla falsariga dell’art. 5 della Convenzione di Oviedo, affermando che «ogni trattamento terapeutico è attivato previo consenso consapevole, esplicito e attuale del paziente». Il legislatore inoltre si preoccupa di precisare che il consenso è sempre revocabile da parte del paziente e infine effettua una parificazione tra il concetto di “consenso informato” e quello di “alleanza terapeutica”. Possiamo definire l’alleanza terapeutica come quello spazio di incontro tra il medico e il paziente che, attraverso una vera e propria interazione dei soggetti coinvolti, consente il giusto contemperamento tra doveri professionali del medico e il diritto di autodeterminazione del paziente65. Non risulta difficile appurare come quest’ultime disposizioni, in materia di consenso informato, mal si conciliano con quelle precedentemente menzionate che ribadiscono una forma di tutela paternalistica della vita, creando una potenziale antinomia da risolvere in sede giurisdizionale66.
Continuando l’analisi del testo in questione dobbiamo soffermarci sulla disciplina relativa alle ipotesi in cui il paziente sia incapace di prestare il consenso. Il legislatore in questo caso opta per una soluzione che si pone in contrasto con i principi affermati dalla Corte di Cassazione in occasione della vicenda Englaro. Il legislatore, riconoscendo i poteri del curatore/tutore, afferma che la decisione del legale rappresentante «deve essere adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute degli incapaci e non può pertanto riguardare trattamenti sanitari in pregiudizio della vita». Il legale rappresentante, nell’esprimere il proprio giudizio sostitutivo, sarà vincolato al criterio della “salvaguardia della salute dell’incapace” non potendo esprimere validamente un rifiuto ad un trattamento salva-vita. In quest’ultima ipotesi, nel caso di reiterato rifiuto da parte del legale rappresentante, la norma prevede che la decisione sia assunta da un giudice tutelare, che sostituendosi al legale rappresentante dovrà attenersi al criterio della “salvaguardia della salute dell’incapace”. Con questa scelta legislativa, il legislatore ha letteralmente distrutto l’argomentazione centrale della sentenza Englaro, affidando la valutazione del best interest del paziente al solo metro del giudizio medico, annullando il valore concernente la ricostruzione della volontà presunta dell’incapace, assunto dalla Suprema Corte come principale criterio di giudizio.
Concludendo la nostra analisi facciamo un breve riferimento anche alle disposizioni in materia di “dichiarazioni anticipate di trattamento” contenute nello stesso d.d.l. Non rientrando il tema nell’oggetto del nostro lavoro ci limitiamo ad osservare come il legislatore ha escluso la possibilità che il soggetto possa inserire dichiarazioni finalizzate all’eutanasia attiva o passiva, specificando che nemmeno i trattamenti di alimentazione o idratazione artificiale, essendo cure salva-vita, possono costituire oggetto di dichiarazioni anticipate di trattamento67.
Non risulta difficile notare i profili di incompatibilità con il dettato costituzionale della nuova disciplina. La norma che vieta al legale rappresentante di manifestare il rifiuto delle cure a seguito di una ricostruzione della volontà presunta soggetto incapace si pone in conflitto insanabile con i principi del “rispetto della persona umana” e della “dignità dell’essere umano”. La disciplina si pone in contrasto anche con gli artt. 2 e 3 Cost. poiché, assumendo come unico criterio rilevante la “tutela incondizionata della vita”, la reiterazione di un trattamento invasivo potrebbe risultare lesiva dell’integrità fisica e della dignità del soggetto incapace, imponendogli di accettare una condizione di vita, che probabilmente non rientrerebbe nelle sue concezioni ideologiche. Non passa inosservato inoltre un trattamento discriminatorio ingiustificato tra soggetti capaci e incapaci, privando quest’ultimi, incolpevolmente incapaci, della possibilità di manifestare il rifiuto68. Analoghe considerazioni potrebbero farsi riguardo alle norme che, in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento, vietano la possibilità di acconsentire a pratiche eutanasiche.
Appare evidente come il nostro legislatore rimane saldamente fedele alle concezioni paternalistico-autoritarie della tutela della vita, assumendo un atteggiamento arbitrario e soprattutto reticente, che mal si concilia con l’egregio lavoro della giurisprudenza, finalizzato a dar attuazione e protezione a quei principi Costituzionali, riconosciuti anche da importanti convenzioni internazionali vincolanti per l’Italia. Senza entrare nel merito di questioni istituzionali concernenti i rapporti tra poteri dello stato, ci preme sottolineare come la discrezionalità del parlamento dovrebbe trovare un limite nel rispetto di questi principi costituzionali, cosa che in questo caso non accade affatto. A fronte di quanto detto non possiamo non condividere il parere di autorevole dottrina69 nell’affermare che: «una soluzione giurisprudenziale hard cases, come quella adottata nel caso Englaro, possa essere, a conti fatti, preferibile rispetto a una cattiva soluzione legislativa come quella in questione».
Tirando le fila del discorso ci poniamo un interrogativo: quanto tempo dovrà ancora trascorrere affinché il legislatore, superando concezioni da considerarsi oramai nient’altro che vecchi retaggi del medioevo, si decida a dare attuazione legislativa ai principi costituzionalmente e internazionalmente riconosciuti? I recenti sviluppi, caratterizzati da un quasi totale assenteismo in Camera dei Deputati, nel giorno della discussione sugli emendamenti, non lasciano presagire un futuro migliore, anzi mettono in luce ancora una volta la poca sensibilità del parlamento di fronte a tematiche tutt’altro che secondarie.
9. Un possibile intervento della Corte Costituzionale?
Dato per assodato che il rispetto dei diritti fondamentali della persona, anche in virtù di quanto affermato dalla giurisprudenza nazionale e non solo, è ormai un corollario universalmente riconosciuto, sviluppiamo qualche considerazione conclusiva sui possibili interventi evolutivi, finalizzati a dare maggior attuazione ai diritti fondamentali nel nostro ordinamento giuridico.
Abbiamo rilevato come il nostro legislatore continui ad essere legato a concezioni paternalistiche che mal si conciliano al nostro scopo. Ci chiediamo inoltre se l’organo legislativo sia effettivamente la sede adatta per regolamentare situazioni del genere, che si intrecciano inevitabilmente con questioni etiche e morali. Il parlamento, essendo luogo di confronto politico-ideologico, è affetto da un’inettitudine pratica a dettare una regolamentazione chiara e precisa in materia. Le leggi sono sempre il risultato di compromessi tra forze politiche contrapposte, portatrici di concezioni e ideologie altrettanto contrapposte. Inoltre un organo legislativo, essendo rappresentativo e soprattutto collettivo, difficilmente potrà tracciare il giusto equilibrio tra interessi collettivi e interessi individuali, specialmente quando si tratta di scelte sensibili, come quelle in questione, suscettibili di coinvolgere individui che, tra di loro, hanno credenze e valori abbastanza diversi. Forse dobbiamo prendere atto di come l’organo legislativo, almeno quello italiano, non è, allo stato attuale, il più adatto a disciplinare correttamente materie del genere.
La consacrazione dei diritti fondamentali è infatti il risultato di un lungo lavoro giurisprudenziale che, sotto la spinta di un’elaborazione dottrinale sul dettato costituzionale, riuscì ad affermare quei principi oggi universalmente riconosciuti. Il merito dei risultati, oggi ottenuti, in tema di tutela dei diritti fondamentali, è da attribuire agli organi giurisdizionali, italiani ed internazionali.
Visti i problemi che possono sorgere in sede legislativa, considerato che il nostro sistema costituzionale affida ai giudici il compito di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo, ci chiediamo se possa essere la Corte Costituzionale, in veste di giudice delle leggi, a compiere quell’ulteriore passo evolutivo verso la completa attuazione dei diritti fondamentali.
Sarebbe auspicabile in primis, come accennato in precedenza70, un intervento della Corte che dichiari la parziale incostituzionalità dell’art 579 c. p. nella parte in cui vieta l’eutanasia attiva. Essendo ormai un caposaldo il principio di autodeterminazione non ci sono più ragioni valide per giustificare un regime diversificato, e non poco, tra eutanasia attiva e passiva, essendo entrambe egualmente manifestazione del principio di autodeterminazione.
A fronte di quanto appena detto, analoghe considerazioni potrebbero svilupparsi riguardo all’art. 580 c. p., auspicando anche in questo caso, una dichiarazione di parziale incostituzionalità di quest’ultimo nella parte in cui vieta ai medici le pratiche di suicidio assistito.
Sarebbe infine auspicabile che la Corte delineasse un quadro chiaro di principi e valori, al quale il legislatore sarebbe costretto ad attenersi, mettendo fine a quella che ad oggi, in Italia, è una situazione ibrida e a dir poco controversa, raggiungendo quei risultati che paesi, con un assetto costituzionale simile al nostro, hanno già ottenuto.
[1] M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2001, p. 94.
[2] T. Checcoli, Brevi note sulla distinzione tra eutanasia attiva e passiva.
[3] G. Maniaci, Eutanasia e suicidio assistito. pp. 1-2.
[4] M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, op. cit., p. 134.
[5] G. Maniaci, Eutanasia e suicidio assistito. pp. 1-2.
[6] Tribunale di Roma, sent. 23 luglio 2007 n. 2049.
[7] Cass. civ., sent. 16 ottobre 2007, n. 21748.
[8] Sui casi “Welby” ed “Englaro” v. § 6 e § 7.
[9] In questo caso ci riferiamo alla parte che punisce le condotte di aiuto al suicidio. Sul punto v. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale. II, t. I, III ed. Zanichelli, Bologna, 2011, p. 41. Le condotte di istigazione o aiuto vengono incriminate in virtù di una loro tipicità autonoma, incentrata sull’efficacia causale rispetto all’evento-morte ovvero all’evento-lesione.
[10] Sul punto v. § 9.
11 Alcuni usi del termine eutanasia, come eugenetica ed economica, sono casi abbastanza evidenti di omicidio. Sul punto v. § 1.
12 M. Porzio, «Eutanasia», in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 110.
13 M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova legge olandese, Milano, 2003.
14 M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, op. cit., p. 82.
15 D. Falcinelli, Il consenso dell’avente diritto nei percorsi del diritto penale umano, in Diritto Penale Contemporaneo n. 34/2014, p. 295.
16 M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, op. cit., p. 78.
17 Art. 50 c. p. : Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.
18 Nel codice del 1889 non vi era alcuna traccia di una disposizione corrispondente all’art. 50 del codice Rocco. Il consenso della persona offesa costituiva scriminante solo per i reati perseguibili a querela.
19 Cfr. M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, op. cit., p. 83.
20 M. Mori, Manuale di bioetica. Verso una civiltà biomedica secolarizzata, Firenze, 2010, p. 300.
21 Cfr. E. Falletti, Volontà di fine vita: una prospettiva comparata giurisprudenziale e de jure condendo, Il corriere giuridico, WKI, febbraio 2011, pp. 8-9.
22 M. Mori, Manuale di bioetica. Verso una civiltà biomedica secolarizzata, op. cit., p. 300.
23 Art. 32 comma 2 Cost.
24 Cass. civ., sez. I, sent. 16 ottobre 2007, n. 21748.
25 Sul punto v. M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, op. cit., p. 126.
26 M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, op. cit., p. 127.
27 Sul punto v. § 6.2.
28 Sul punto v. C. Pedrazzi, Consenso dell’avente diritto, in Enc. Dir., IX, Milano, 1961, p. 144. Il consenso richiesto per l’attività medico chirurgica si differenza dall’art 50 c. p. non soltanto per la costruzione dogmatica ma anche per i requisiti di operatività e l’ampiezza del raggio di tutela.
29 Tribunale di Roma, sent. 23 luglio 2007 n. 2049.
30 Sul punto v. § 3.
31 v. C. Cupelli, La disattivazione di un sostegno artificiale tra agire ed omettere, in Riv. ital. dir. proc. pen., 2009, p. 1163.
32 Tribunale di Roma, sent. 23 luglio 2007 n. 2049.
33 Sul punto v. § 7.1.
34 Cass. civ. sent. 14 marzo 2006, n. 5444.
35 Cass. civ., sent. 16 ottobre 2007, n. 21748.
36 M. Azzalini, Il rifiuto di cure: riflessioni a margine del caso Welby, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2007, II, p. 318.
37 V. Durante, Dimensioni della salute. Dalla definizione dell’OMS al diritto attuale, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2001, II, p. 132.
38 Si pensi, in questo senso, alla legge 13.5.1978, n. 180.
39 Cfr. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, op. cit., pp. 37-40.
40 S. Rodotà, La vita e le regole, 4a ed., Feltrinelli, 2007, p. 238.
41 S. Rodotà, op. ult. cit., p. 250.
42 P. Cendon, I malati terminali e i loro diritti, Giuffrè, 2003, p. 162.
43 Sul punto v. R. Bin, Diritti e argomenti, Giuffrè, 1992, pp. 32 ss.
44 Tribunale di Roma, sent. 23 luglio 2007 n. 2049.
45 P. Zatti, Decisioni legali e valutazioni scientifiche, in Notizie di Politeia, 65, 2002, p. 145.
46 Tribunale di Roma, sent. 23 luglio 2007 n. 2049.
47 C. Cupelli, La disattivazione di un sostegno artificiale tra agire ed omettere, op. cit., p. 1164.
48 Cfr. F. Viganò, Esiste un “diritto a essere lasciati morire in pace”?, in Diritto penale e processo, 01/2007, p. 7.
49 Sul punto v. F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e attivismo giudiziale, op. cit., pp 9-10; C. Cupelli, La disattivazione di un sostegno artificiale tra agire ed omettere, op. cit., p. 1170.
50 Sul punto v. G. M. Salerno, Un rinvio della questione alla consulta poteva essere la soluzione appropriata, in Guida al dir., 2007, n. 1, p. 46.
51 Sul punto v. § 5.
52 Cass. pen., sent. 11 luglio 2001 n. 27851.
53 M. Donino, Il caso Welby e le tentazioni pericolose di uno “spazio libero dal diritto”, in Cass. pen., 2007, p. 902.
54 E. Palermo Fabris, Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale, Cedam, 2000, pp. 173 ss.
55 Art. 6 Conv. di Oviedo: Quando, secondo la legge, un minore non ha la capacità di dare consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità.
56 Cfr. F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e attivismo giudiziale, in La Magistratura, 2008, n. 2, pp. 56 ss. e in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, pp. 1594 ss., p. 11.
57 M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, op. cit., p. 118.
58 v. E. Falletti, Volontà di fine vita: una prospettiva comparata giurisprudenziale e de jure condendo, op. cit., p. 24
59 Cfr. F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e attivismo giudiziale, op. cit., pp. 13-14.
60 Cass. civ., sez. I, sent. 16 ottobre 2007, n. 21748.
61 F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e attivismo giudiziale, op. cit., p. 12.
62 Cfr. E. Falletti, Volontà di fine vita: una prospettiva comparata giurisprudenziale e de jure condendo, op. cit., pp. 32-34.
63 Cfr. E. Falletti, Volontà di fine vita: una prospettiva comparata giurisprudenziale e de jure condendo, op. cit., pp 41-45.
64 F. Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali nei confronti di pazienti in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica. 2009, p. 21.
65 Sul punto v. E. Falletti, Volontà di fine vita: una prospettiva comparata giurisprudenziale e de jure condendo, op. cit., pp. 48-49.
66 Sul punto v. F. Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali nei confronti di pazienti in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica. op. cit., p. 22. “Intuibile l’antinomia che verrà così a crearsi nell’ipotesi in cui un paziente rifiutasse il consenso a (o alla prosecuzione di) un trattamento ordinario e proporzionato alla salvaguardia della sua vita o della sua salute che il medico, in base alla stessa normativa è tenuto a praticare. Un’antinomia che dovrà essere sciolta ancora una volta dal giudice ordinario, sulla base anche dei principi costituzionali e delle carte internazionali dei diritti vincolanti per il nostro paese.”
67 F. Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali nei confronti di pazienti in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica. op. cit. pp. 23-24.
68 Cfr. F. Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali nei confronti di pazienti in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica. op. cit. pp. 25-26.
69 F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e attivismo giudiziale, op. cit. p. 15.
70 v. § 2.
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Gianluca Prosperini
Avvocato iscritto alla Camera Penale di Trapani.
Consegue la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Palermo nell'anno accademico 2015/2016 con la votazione di 108/110.
Ottiene l'abilitazione alla professione forense nella sessione 2018 presso la Corte di Appello di Palermo.
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