Riflessioni sul “Codice criminale” per il Regno di Sicilia proposto dall’avvocato Rocchetti

Riflessioni sul “Codice criminale” per il Regno di Sicilia proposto dall’avvocato Rocchetti

Sommario: 1. La Sicilia tra “l’aberrante” Codice dei francesi del 1810 e il Codice penale dell’avvocato Rocchetti del 1814 – 2. Analisi del Codice proposto dall’avvocato Rocchetti – 3. Riflessioni conclusive

 

1. La Sicilia tra “l’aberrante” Codice dei francesi del 1810 e il Codice penale dell’avvocato Rocchetti del 1814

L’immagine dell’Europa durante il primo decennio del secolo XIX è quella di un continente stravolto dal succedersi di conflitti militari causati dalla smania di conquista di Napoleone; quest’ultima rispondeva ad un precipuo disegno politico di dominio e assoggettamento da parte dell’impero francese nei confronti delle potenze nemiche della Coalizione[1]. Gli Stati preunitari italiani erano divenuti facili prede delle mire espansionistiche napoleoniche, fatta eccezione per porzioni del regno di Sardegna e per il regno di Sicilia[2].  Gli stravolgimenti politico – militari di quegli anni ebbero uno specifico peso con importanti riflessi anche in ambito giuridico, poiché senza dubbio la spinta propulsiva delle codificazioni napoleoniche fu determinante nel risvegliare le coscienze italiane ponendo le basi per la creazione di un diritto pubblico e privato modellato proprio sull’esperienza francese. In tale contesto il Regno di Sicilia attraversava un periodo storico scandito da profondi mutamenti sociali e politici; l’emanazione della Costituzione del 1812 fu la conferma che gli impulsi post illuministici avevano reso i tempi maturi per poter assistere anche nell’Isola ai primi, seppur timidi, interventi giuridici volti alla codificazione[3].

Risale al 1814 la stesura di un saggio ad opera del giurista palermitano Giovan Battista Rocchetti relativo alla possibilità di adottare un Codice criminale per il regno di Sicilia, con una critica al Codice penale francese del 1810[4].

Il giurista siciliano esordisce, nella sua opera, affermando che “Caratterizzare i delitti, proporzionarvi le pene al clima, ed ai gradi del dolo, o colpa, e dei danni, sono, oltre alla procedura, gli obbiettivi dell’organizzazione di un Codice Penale ne’ Governi, in cui le leggi costituissero la base della sicurezza del Cittadino”.

Tale incipit risulta essere importante per comprendere quanto l’autore abbia analizzato i dogmi illuministici e giusnaturalistici propri della rivoluzione francese; al contempo lo stesso mette sin da subito in chiaro che la sua proposta per la creazione di un Codice penale per il regno di Sicilia sia intrinsecamente differente dall’esperienza napoleonica, pertanto egli prosegue scrivendo che “con raccapriccio nel Codice Criminale Francese ho rimirato addotti per molti delitti i soli estremi della pena, fra i quali aggirarsi debba l’arbitrio de’ Giudicanti.[5]. Il giurista affermava che vi fosse la necessità di prevedere un’equa gradualità tra i reati commessi e le pene da applicare ai casi concreti; nella sua opera Rocchetti esprimeva viva preoccupazione per le tesi esegetiche che riponevano nella codificazione e nei Codici l’unica via per fornire la soluzione a qualsiasi questione giuridica, così come esemplificato dall’ideale illuministico circa l’esaltazione della legge come unica, certa e completa dimensione del diritto. Appariva chiaro che tale impostazione operativa ridimensionava non solo il ruolo rivestito dai giuristi ma in particolar modo quello dei giudici; in quanto quest’ultimi da ricostruttori delle norme contenute nella pluralità delle fonti, proprie del diritto romano canonico dell’età di diritto comune, passarono a rivestire posizioni di meri ed asettici applicatori del dato positivo del diritto.

Rocchetti prosegue definendo il Codice napoleonico pieno di una “[…] ingiustificata severità, aumentarle (riferito all’inasprimento delle pene) tratterebbesi lo stesso, che distruggere, invece di promuovere la libertà e la sicurezza del Cittadino”.[6] L’autore delinea altresì che “[…] più divieti, che s’introducono con pena, più si restringe la libertà medesima.”[7]; la critica che egli maggiormente muove consiste nell’affermare che i reati contro lo Stato, rigorosamente puniti dal codice napoleonico “[…] molto disturbar potrebbe lo stato di società” ed ancora “[…] lungi di tendere l’immensità di quest’atti alla pubblica sicurezza, non sarebbe il prodotto, che di vertigini, e dispotismo.” Un’ulteriore riflessione viene condotta circa l’incertezza del periodo storico che si stava vivendo in Europa per via dei mutamenti sociali e politici cagionati da Napoleone, a tal proposito l’autore continua affermando che “un codice penale non dovrà esser giammai provvisorio. Le circostanze del momento costituir non dovranno un sistema perenne”[8]. Il giurista prosegue con l’analisi di quanto accaduto in Francia negli anni precedenti riconoscendo da un lato la validità delle spinte illuministiche sfociate nella Costituzione rivoluzionaria, dall’altro egli rifiuta i dettami edittali della legge propri del Codice bonapartista, definendone la “[…] inadattabilità per la Sicilia” e ancora “[…] con ragione perciò mi dò a credere, che non sarà per modellarsi progetto alcuno per la Sicilia sul Codice medesimo (ovvero quello francese), con ragione perciò mi dò a credere che, che non si darà ascolto a verun progetto, che seguisse le sue traccie che adottasse il suo sistema, di dedurre i soli estremi della pena, che garantisse con questo mezzo l’arbitrio dè Magistrati” l’autore continua affermando  “[…] che cumulasse atti punibili per i delitti di Stato, che usasse nuove voci per caratterizzare i delitti e loro gradi, che si servisse d’espressioni richiedenti nuovamente le glosse d’Accursio e che togliesse il livello di subordinazione fra i Magistrati, ed il Cittadino con espiare tanti atti de’ Magistrati che le nostre leggi non punivano[9]. Rocchetti conclude il preambolo del suo saggio ribadendo la propria diversità di pensiero rispetto ai dogmi esegetici, rimarcando quanto importante fosse “lasciare un arbitrio ne’ Giudicanti” ed esaltando il ruolo dei giudici come veri e propri arbitri giudiziari.[10]

2. Analisi del Codice proposto dall’avvocato Rocchetti

Accantonate le critiche al Codice napoleonico, il giurista enuncia la sua proposta per l’adozione di un Codice siciliano che “[…] rispetti la tradizione e la volontà dei Padri della Giurisprudenza colle pene proporzionate […] risulterà così che un compiuto Codice penale”.[11] L’impianto che Rocchetti propone per il suo Codice è la suddivisione in due parti; un primo libro dedicato “[…] ai delitti secondo le leggi di Roma e di Sicilia” diviso in nove titoli e un secondo libro dedicato alle pene “[…] dal mio arbitrio sulle pene, proporzionate al clima, ed ai gradi del dolo, o colpa, e del danno occorsi nel delitto” suddiviso a sua volta in dieci titoli.[12] L’autore ricorda come inusuale fosse stato sino ad allora “[…] discernere la caratterizzazione dei delitti dalle pene”, affermando come questa scelta è stata dettata da una propria autonoma visione circa l’organizzazione da dare al Codice.[13] Prima di passare all’analisi delle parti e dei singoli titoli, l’autore dedica un pubblico elogio alle due figure che maggiormente lo ispirarono per la stesura del saggio ovvero “l’immortale Montesquie, e l’amico dell’umanità il celebre Beccheria, entrambi questi due profondi filosofi, ci somministrano de’ lumi sulla sezione dei delitti ma noi non dobbiamo servirci delle scoverte altrui, che per accelerare de’ nuovi sviluppi” e conclude affermando “Io venero sempre i pensieri de’ Maggjori ma non mi credo affatto in dovere di restringere in me, la facoltà di pensare”, sottolineando la propria figura di giurista leale ai propri ideali, quasi in maniera autocelebrativa.[14]

La prima parte è dedicata ai casi di reato e prevede nove titoli, in merito al primo titolo relativo “ai delitti in generale”, il giurista espone le modalità di commissione dei reati elencando “il dolo, ex impetu gli incapaci di dolo, e colpa.” Continua nello spiegare contro chi “i delitti possono contrarsi” ed ancora “come s’estinguono i delitti” e “conchiude con la remissione dell’offeso”. Per ciò che concerne le accuse, Rocchetti decide di non menzionarle in quanto crede che “come in qualche Progetto, poiché non intendendosi per accusa che l’intera precedura, trattasi dovea della sue parti nel Codice di procedura”.[15] Passando al secondo titolo, l’autore enuncia quando sia “illecita o permessa la forza privata”, declina invece con il terzo titolo i delitti posti in essere avverso l’ordine statuale della nazione come “i Delitti di perduellione, dei delitti di Maestà e in secondo capo dei delitti ledenti la Religione”.[16] Nel quarto titolo vengono enunciati “i delitti ledenti la persona”, con riferimento ai quali il giurista si sofferma in un primo momento sul reato di omicidio descrivendo analiticamente “come si commette il delitto di omicidio; l’attentato omicidio; dell’omicidio colposo; dell’omicidio permesso” ed elencando poi il reato di “patricidio, dell’assasinio, del plagio, dell’ingiurie nel corpo e del danno colposo nel corpo dell’uomo”.[17] Il quinto titolo riguarda i reati contro l’onore e qui l’elenco che l’avvocato Rocchetti propone comprende “i delitti come le ingiurie fuori il corpo, del libello famoso, dell’adulterio, dello stupro, dell’incesto, del lenoncinio, del ratto e de’ matrimonj clandestini”. L’autore enuncia che i reati contro la proprietà privata o il possesso, ricompresi in un corposo e dettagliato sesto titolo, sono rappresentati dai casi di “furto semplice, furto qualificato, il delitto expilatae hereditati, la concussione, l’abigeato, gli animali erranti, la vendita o l’estrazione illecita degli animali, lo stellionato, il sagrilegio, il peculato, il delitto de residuis, il delitto repetundarum, lo spoglio violento, e le violenti convenzionj o ultime volontà, l’amozione de’ segni divisorj, la falsità, i danni recati alla cosa altrui, l’incendio, il taglio furtivo degli alberi, ed il danno cagionato da una turba di persona, o coadunati più Uomini.[18] Nel titolo settimo, riguardante i reati contro l’ordine pubblico, l’avvocato palermitano ricorda che tra questi rientrano “i delitti di sedizione, il tumulto contro un Magistrato, lo sparo in Città d’arme di fuoco, l’esimenza, e gli altri impedimenti prestati ad un Magistrato nell’esercizio del suo Ufficio, l’effrazione e fuga dalla carceri, i delitti attentati, la trasgressione del mese d’eumaggio, la spreta pena, la ricettazione de’ rei, la cota della lite, l’istituzione d’un Collegio o Corpo senza il permesso del Principe, il delitto d’annona, le vendizioni di derrate con mancanza di peso, le vendizioni di derrate con pesi o misura senza il pubblico bollo, le vendizioni di derrate più del prezzo legale, l’omissione del rivelo de’ generi annonarj in caso di carestia dopo l’interpellazzione con bando, l’acquisto di Magistrature con denaro o altri mezzi illeciti, la violazione del sepolcro, l’apportazioni di arme proibite, i giochi proibiti, la vagabondità, la stampa nei casi proibiti, il contrabando, la pesca, la caccia ne’ luoghi vietati, la trasgressione delle legi di sanità, l’usurpazione delle pubbliche strade, il taglio degli alberi di olivo o di altra cima senza licenza del Re, gli atti de’ Notari inculpatorj o esculpatorj, la disdetta de’ testimonj, la calunnia.[19] Da ultimo il titolo ottavo è dedicato a “i complici dei delitti, […] si parla del mandante un delitto, del consigliere e dell’ausiliatore d’un delitto.[20]

La seconda parte del Codice, relativa alle pene da applicare, vede concentrare l’autore sul primo titolo che prevedeva le pene da comminare ai vari casi di reato come “alle pene capitali, all’esasperazione delle pene capitali, all’infamia, alle prestazioni pecuniarie nei delitti, alla confiscazione de’ beni, ed alle regole sulle pene non capitali de’ Nobili, e Civili.[21] Nel secondo titolo il giurista si limita ad affermare che “enuncia brevemente il titolo secondo le pene del delitto di forza” mentre per ciò che concerne il titolo terzo enuncia che le pene ivi stabilite sono “ledenti lo Stato, come il delitto di perduellione, dei delitti di Maestà in secondo capo e dei delitti ledenti la Religione.”[22] Giungendo all’analisi del quarto titolo, relativo alle pene riferite ai reati contro la persona, l’avvocato palermitano enuncia che “designa le pene dell’omicido con dolo ex proposito, dell’omicidio con eccesso di difesa, dell’omicidio colposo, del parricidio, del veneficio, dell’assassinio, del latrocino, del plagio, dell’ingiurie nel corpo senz’animo d’uccidere e consequente della ferizione, della mutilazione di membro, delle bastonate, delle pietre, del percosse col corpo, pugni, schiaffi, calci ecc. così come degli urti e delle reciproche ferizioni, bastonate percosse o urti. Si passa quindi, al ristoro dei danni pel l’ingiurie nel corpo, alla pena del danno colposo nel corpo dell’Uomo ed al ristoro del danno.” All’interno del quinto titolo Rocchetti analizza “le pene ledenti l’onore, incominciando dalle pene di alcune ingiurie fuori il corpo e quindi viene alle pene del libello famoso, dello stupro, dell’incesto, del lenocinio, del ratto e de’ matrimonj clandestini.[23] Di seguito il titolo sesto, coerentemente con la prima parte con la quale Rocchetti enuncia le pene per i reati che ledono la proprietà privata, affermava che “si sanziona la pena del furto semplice, del furto con discassazione, o chiavi adulterine, del furto in tempo di notte, o in un incendio, ruina o naufragio, del furto con violenza, del furto commesso nelle pubbliche strade di campagna, del furto con cattività d’una persona o con lettere di composizione e del furto domestico. Si viene in seguito al ristoro del furto, alla rivendicazione della cosa furtiva, alla responsabilità degli esercitori della Nave, Osteria o Stalla pelle cose ivi rubate, al diritto del marito e moglie, discendenti ed ascendenti pelle cose fra loro sottratte. Seguono le pene della fraudolente decozione, del delitto expilate hereditatis, della concussione, dell’abigeato, dello stellionato, del sagrilegio, del peculato, del delitto de residuis, del delitto reputandarum, dello spoglio violento, delle violente convenzioni o ultime volontà, dell’amozjone de’ segni divisorj, delle falsità e dei danni in genere recati alle cose altrui.” Sempre nel sesto titolo l’avvocato Rocchetti enuncia che ivi sono presenti “le pene dell’incendio, del fuoco nelle ristoppie, del taglio furtivo degli alberi, del danno cagionato in una turba di persone o coadunati più Uomini, del danno cagionato dal gettito delle cose dalle fenestre. Succedanea è la responsabilità degli Esercitori pel danno recato nelle cose immesse nelle Navi, Osterie o Stalle. E si conchiude colla pena del danno fatto sulla cosa da Quadrupedi.[24] Il titolo settimo, dedicato alle pene inflitte per i reati contro l’ordine pubblico, rappresenta per il giurista un passaggio importante a cui riserva una analisi alquanto dettagliata;[25] l’autore in tale titolo enuncia che sono ricomprese “le pene della sedizione e del tumulto contro un Magistrato, la pena dello sparo in Città d’arme di fuoco, la pena dell’esimenza, e di altri impedimenti dati ad un Magistrato nell’esercizio del suo Ufficio, la pena dell’effrazione e fuga dalle carceri, la pena dei delitti attentati, la pena della trasgressione del mese d’eumaggio, la spreta pena, la pena della ricettazione con dolo de’ rei, la pena della cota della lite, la pena dell’istituzione d’un Collegio o corpo senza il permesso del Principe, la pena del delitto d’annona, la pena delle vendizioni di derrate con pesi o misure senza il pubblico bollo, con mancanza di peso o più del prezzo legale, la pena dell’omissione del rivelo de’ generi annonarj in caso di carestia dopo l’interpellazione con bando, la pena dell’acquisto di Magistrature con danaro o altri mezzi illeciti, la pena della violazione del Sepolcro, la pena dell’apportazione d’arme proibite, la pena de’ giochi probiti, la pena della vagabondità, la pena della stampa ne’ casi vietati, la pena del contrabbando, la pena della pesca e caccia ne’ luoghi vietati, la pena delle trasgressioni delle leggi di sanità, la pena dell’usurpazione delle pubbliche strade, la pena del taglio degli alberi d’olivo o alta cima senza il permesso del Re, la pena delle disdette de’ testimonj fuori il processo Criminale e la pena della pecunia.[26] L’ottavo titolo è invece relativo alle pene previste per “i complici dei delitti come del mandato, del consiglio, dell’ausiliatore d’un delitto.”[27] Di seguito Rocchetti dedica rispettivamente il nono titolo “alle pene de’ sospetti dei delitti” ed il decimo titolo “finalmente quelle del reo di più delitti”.[28]

3. Riflessioni conclusive

Nella conclusione del saggio, il giurista palermitano espone la propria tesi in merito alla gradualità delle pene da applicare ai casi di reato, affermando che “non intendendosi per qualità che, la graduazione maggiore o minore d’una cosa nel suo genere, così di ciascun genere di delitto sono state da me in questa seconda parte, constituiti tanti gradi di dolo o colpa quante sono state delle leggi Romane – Sicole considerate le sue qualità, incominciando dall’infima.”[29] L’avvocato Rocchetti continua spiegando che “onde cresce ne’ diversi gradi d’un genere di delitto la qualità, v’ho aumentata anche la pena” e per avere una corretta applicazione della stessa da parte dei giudici afferma che “per essere stabile l’ho in ciascun grado man mano proporzionata alla quantità del danno, senza lasciare arbitrio ne’ Magistrati.” La fondamentale importanza della gradualità delle pene, conclude l’autore, è “la più conveniente pelle Nazioni in cui le leggi constituissero la base della libertà, e sicurezza del Cittadino, pelle Nazioni, in cui l’arbitrio de’ Magistrati, riducendosi a dispotismo, verrebbe a rovesciare e destrurre la base medesima.[30] Nelle righe finali del saggio l’avvocato palermitano, lancia un monito ben preciso; egli teme che un codice alla francese possa portare ad una deriva interpretativa dei giudici, visti come possibile mano armata di un despota quale era per lui il Bonaparte. Sottolinea pertanto quanto pericolosa possa essere la costruzione di un Codice penale privo di quei pesi e contrappesi che ne garantiscano l’equità nella sua applicazione. Un Codice che sia garanzia per il cittadino e che riesca a tutelarne le libertà.

 

 

 

 

 

 


[1] D.G. CHANDLER, Le campagne di Napoleone, Milano, 1992.
[2] Carlo Emanuele IV e Ferdinando IV, furono gli unici sovrani di stati preunitari italiani che riuscirono a salvare almeno in parte i rispettivi troni. Il primo fuggito da Torino e riparato a Cagliari nel 1799, garantì in tal modo la continuità territoriale e la sopravvivenza stessa del Regno di Sardegna. Il sovrano della dinastia borbonica invece giunse in Sicilia nel 1806, perdendo il trono napoletano ma preservando quello dell’Isola, grazie all’ausilio della Royal navy. Il Regno di Sicilia era de jure autonomo da quello di Napoli ma de facto entrambe le corone si trovavano in uno stato di unione personale per Ferdinando, il quale in Sicilia esercitava le proprie legittime prerogative dinastiche e regnava usando un diverso nominale ovvero quello di Ferdinando III rex Siciliae. Per approfondimenti si veda D. PERRERO, Gli ultimi reali di Savoia del ramo primogenito ed il principe Carlo Alberto di Carignano. Studio storico su documenti inediti, Torino, 1889 e H. ACTON, I Borbone di Napoli (1734-1825), Firenze, 1997.
[3] N. PALMIERI, Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia infino al 1816, con un’appendice sulla rivoluzione del 1820; pubblicato postumo con una introduzione e annotazioni di Michele Amari, Losanna, 1847. Amari definirà la prima Carta fondamentale siciliana come “l’effimera riforma costituzionale del 1812” in quanto essa, secondo l’autore, rappresenta una falsa vittoria dei lumi contro l’assolutismo borbonico. Certamente la Costituzione del 1812 seppur influenzata attraverso l’adozione di principi liberali, propri del “modello inglese”, risulta essere più un patto tra i baroni contro il potere regio; una Carta applicata in un Isola che si dimostrava essere ancora acerba per le dottrine illuministiche e in cui vigeva un sistema economico e sociale semi-feudale. Ad ogni il ruolo fondamentale svolto da pochi ma illuminati esponenti dell’aristocrazia isolana quali Carlo Cottone di Castelnuovo e Giuseppe Emanuele Ventimiglia di Belmonte che alleati di Lord Bentinck, tentarono invano di dare alla Sicilia la necessaria svolta liberale per affrancarla dalla miseria materiale e spirituale in cui versava la stragrande maggioranza della popolazione. M. SAIJA, M. D’ANGELO, R. LENTINI in Il decennio inglese (1805 – 1815) bilancio storiografico e prospettive di ricerca, Catanzaro, 2020.
[4] G. B. ROCCHETTI, Prospetto del codice criminale proposto per la Sicilia dall’avvocato Rocchetti con delle riflessioni sul Codice criminale di Francia, Palermo, 1814. Il saggio del giurista palermitano è pubblicato dalla stamperia del capoluogo Barravecchia, alla quale Rocchetti aveva già ricorso per ulteriori pubblicazioni. Per ciò che concerne la vita personale del giurista, nato a Palermo nella seconda metà del ‘700, è noto che compì “assidui studi di diritto” ed esercitò dapprima la professione di causidico nel foro della sua città d’origine per poi passare, una volta giunto ad un elevato grado di notorietà, a quella più prestigiosa di avvocato. Prolifico autore di scritti che spaziavano diversi temi giuridici, una volta acquisita maggiore autorevolezza iniziò a tenere, presso la propria abitazione, dei corsi che si prefiggevano in due anni di “conseguire la Laurea Dottorale in Legge e fare perfettamente gli Avvocati”; per maggiori approfondimenti sul funzionamento degli alunnati in Sicilia si veda G. PACE GRAVINA, Le periferie della codificazione, in Avvocati a Messina. Giuristi tra foro e cattedra nell’età della codificazione, Messina, 2007 e per ciò che concerne nello specifico i corsi tenuti dall’avv. Rocchetti si veda A. CAPPUCCIO, La toga, uguale per tutti. Potere giudiziario e professioni forensi in Sicilia nella transizione tra antico regime e restaurazione (1812-1848), p. 214, Bologna, 2018.
[5] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 1.
[6] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 2. Appare evidente quanto Rocchetti ritenga antitetica la sua proposta codificatrice rispetto al modello introdotto dal Codice napoleonico del 1810. Quest’ultimo, composto da 484 articoli, rifletteva la chiara volontà di Napoleone di unificare il sistema giudiziario penale con il preminente intento di stabilire una giustizia forte, efficace e temuta. Il testo tendeva ad un grande spirito di severità ed intimidazione e si apriva con la regolamentazione delle pene, stabilendo il ritorno di quelle afflittive perpetue, rifiutate dalla Costituente, e accrescendo in modo esponenziale il numero di reati ivi contemplati. Venivano confermate le pene maggiormente severe già previste dal Codice rivoluzionario del 1791 fra le quali la pena capitale, i lavori forzati, la deportazione, la berlina e il bando. Per ciò che concerne la pena di morte, la V Repubblica francese fu l’ultimo Stato dell’Europa occidentale ad abolirla; difatti sino al 1981 il Codice Penale prevedeva una larga casistica di reati che risultavano passibili di uso della ghigliottina.
[7] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 2. Qui il giurista continua la propria esposizione rimandando  al diritto romano affermando che “[…] non era presso i Romani, sotto la libera Repubblica, l’accettazione di una legge penale proposta da’ Magistrati Maggiori, che l’effetto delle più serie discussioni ne’ i pubblici comizj” aggiungendo che “[…] l’opera della ragione la famosa legge Giulia, contenuta nel Titolo delle Pandette Ad legem Juliam Majestatis, onde caratterizzarsi per delitti di Stato gli atti, che con effetto turbano l’ordine intero di Società.”
[8] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 2. Le preoccupazioni espresse dell’avvocato Rocchetti sono frutto del suo modus operandi tipico di un giurista conservatore, filo borbonico e strenuo difensore dell’arbitrium iudicis, elemento questo proprio del diritto comune. Il suo animus giuridico è profondamente legato alle tradizioni del diritto “romano siculo”, il quale era in completa antitesi rispetto alle idee giusnaturalistiche ed esegetiche dei codici introdotti da Napoleone, reo quest’ultimo di aver stravolto gli assetti politici e sociali del mondo in cui fino a qualche anno prima Rocchetti aveva vissuto. M.MECCARELLI Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano, 1998. Inoltre emerge in Rocchetti una lealtà di sentimenti, dimostrata con non poca adulazione, nei confronti della dinastia napoletana in un passaggio delle sue memorie, pronunciate dinnanzi al parlamento siciliano, egli stesso afferma che “il premiare le virtù è stata una delle principali note caratteristiche dell’Augusta famiglia Borbone”. G.B. ROCCHETTI, Memorie dell’avvocato Rocchetti alla Camera dei comuni del 1814, Palermo, 1814.
[9] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 4. L’autore sottolinea come le “nostre leggi”, quelle che lui considera propriamente di diritto comune sono intrinsecamente diverse rispetto ai dogmi esegetici francesi proposti dal Codice penale napoleonico e che da quest’ultimi bisogna rifuggire.
[10]   G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 4. Nel prendere le difese del diritto comune siculo Rocchetti agisce tutelandolo contro la mole di nomina iuris proprie dell’epoca codificatrice napoleonica.
[11] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 4. Il rispetto delle tradizioni giuridiche, della gradualità delle pene da applicare ai reati è la chiave di lettura fondamentale per Rocchetti per giungere alla costruzione del suo Codice.
[12] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 4. A tal proposito il giurista spiega che “L’ordine, onde ho caratterizzato i delitti, è stato quello stesso da me adottato nel mio Codice Criminale, scritto con metodo privato, dato alle stampe nel 1810”. Rocchetti rivela che già negli anni precedenti, aveva progettato e compilato un prospetto di Codice penale che verosimilmente ha avuto la funzione, come lo stesso spiega, di fungere da base per la stesura del suo Codice nel 1814.
[13] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 5. Rocchetti così scrivendo vuole rimarcare la personalizzazione dell’impronta che ha voluto dare al Codice.
[14] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 6. Citando due grandi giuristi del pensiero illuminato quali Montesquieu e Beccaria, l’avvocato palermitano rimarca quali siano le basi di partenza per la stesura del proprio Codice salvo poi correggere il tiro, affermando di non voler rimanere ancorato alle idee dei due grandi maestri.
[15] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 7
[16]G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 7. La perduellio, nel primo diritto romano, era il reato di alto tradimento e veniva considerato come tale qualunque atto contro lo Stato, la pace pubblica, l’integrità, l’indipendenza e la dignità della patria. Rocchetti compie un’opera di traslazione volta a rimarcare il filo conduttore che lega il diritto comune siciliano alle tradizioni romanistiche.
[17] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 8.
[18] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 8.
[19] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 9.
[20] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 9.
[21] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 9.
[22] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 9.
[23] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 9.
[24] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 10.
[25] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 10.
[26] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 11.
[27] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 11.
[28] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 11.
[29] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 12. L’autore rimarca ancora una volta il legame privilegiato che ha con lo ius commune nella sua visione codificatrice.
[30] G. B. ROCCHETTI, op. cit., p. 12. Rocchetti si dimostra premonitore di quello che accadrà nel 1819 con le Leggi penali e le Leggi di Procedura nei giudizi penali del Regno delle Due Sicilie ma ancor più con il “Codice insanguinato”, così come l’ha definito Pace Gravina, ovvero lo Statuto penale militare per lo Regno delle Due Sicilie. Quest’ultimo promulgato anch’esso nel 1819, divenne il mezzo tramite l’istituzione di tribunali speciali, per attuare una politica repressiva e di terrore in una Sicilia ribelle e insofferente nei confronti del governo napoletano, colpendo gli autori di reati politici e di ribellione. G. Pace Gravina, Il codice e la sciabola, la giustizia militare nella Sicilia dei Borbone tra repressione del dissenso politico ed emergenza penale (1819- 1860), Acireale – Roma, 2015.

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Agostino Zito

Dopo aver conseguito la laurea magistrale in giurisprudenza, marzo 2019, presso l'Università degli studi di Enna "Kore" ha condotto studi approfonditi sulla storia del diritto medioevale e moderna ed in particolar modo sul periodo costituzionale e rivoluzionario della Sicilia nell'ottocento, ulteriori temi di ricerca sono stati lo ius feudale siculo e il diritto nobiliare. Da gennaio 2020 è assistente presso l'Università degli studi di Messina in Storia del diritto, da Ottobre 2022 è dottore di ricerca con borsa presso il dipartimento di Scienze Politiche, cattedra di Storia delle Istituzioni sempre all'interno dell'ateneo peloritano. Dalla primavera del 2019 ricopre il ruolo di consulente legale presso la Società agricola Zito, storica azienda agricola di famiglia. Post laurea ha seguito un master in english for business a Cambridge (UK), giugno - luglio 2019; un master part - time sul diritto agroalimentare presso la business school del Sole 24 ore sede di Milano, ottobre - dicembre 2019; ed un E- Course in agribusiness erogato dalla University of Adelaide (Australia), marzo 2021. Da settembre 2021 è autore di contributi scientifici con la rivista Salvis Juribus.

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