Riflessioni sulla l. n. 69/2019: effettività della tutela delle vittime di violenza e il fenomeno del c.d. victim blaming

Riflessioni sulla l. n. 69/2019: effettività della tutela delle vittime di violenza e il fenomeno del c.d. victim blaming

A circa un mese dalla celebrazione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, il presente contributo mira a riflettere sulle criticità applicative della Legge 69/2019 alla luce del principio di effettività della tutela delle vittime di violenza.

Mai come oggi il tema della violenza sulle donne è stato centrale tanto nel dibattito sociale quanto in quello legislativo.

Nel nostro Paese, il legislatore è intervenuto in materia con la citata legge –  nota come Legge “Codice Rosso” (L. 69/2919) – disciplinando per la prima volta nel nostro ordinamento specifici interventi sul codice di rito (tesi a rendere più celeri le indagini e i procedimenti giudiziari relativi ai reati di maggiore gravità), introducendo nuove figure di reato e modificando alcuni reati già presenti all’interno del codice penale.

Tale legge è il prodotto di un forte interessamento legislativo verso questa tematica che però ha, dapprima, trovato riscontro a livello internazionale.

In particolare il primo intervento normativo in materia è stato rappresentato dalla “Convenzione di Istanbul” dell’11.5.2011 (ratificata dall’Italia con la L. del 27.6.2013 n. 77) la quale è stata definita “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante – in grado di creare- un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza” essendo incentrata sulla prevenzione della violenza domestica, sulla protezione delle vittime e sulla punibilità dei trasgressori (1).

Solo un anno dopo, con la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, sono state istituite a livello comunitario norme per la tutela dei diritti, per l’assistenza e la protezione delle vittime di violenze domestiche e di genere, rivolgendo ai vari Stati membri la richiesta di intervenire in materia con leggi nazionali conformi agli obiettivi posti dalla direttiva stessa.

Tale direttiva è stata attuata dal nostro Paese con il D.Lgs. del 15.12.2015 n. 212 ma, solo dopo altri quattro anni, il Legislatore è intervenuto sul tema con una  legge specifica, la legge 69/19.

Ebbene lecito, a più di un anno dall’entrata in vigore della richiamata legge, è dunque chiedersi se la stessa abbia fornito una disciplina valida e calzante rispetto a quelli che erano gli obiettivi posti dalla Direttiva Europa di riferimento.

L’art. 1 Capo 1 della Direttiva 2012/29/UE, infatti, stabiliva che <<Scopo della presente direttiva è garantire che le vittime di reato ricevano informazione, assistenza e protezione adeguate e possano partecipare ai procedimenti penali. Gli Stati membri assicurano che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile, personalizzata, professionale e non discriminatoria, in tutti i contatti con servizi di assistenza alle vittime o di giustizia riparativa o con un’autorità competente operante nell’ambito di un procedimento penale. I diritti previsti dalla presente direttiva si applicano alle vittime in maniera non discriminatoria, anche in relazione al loro status in materia di soggiorno>>.

Viene pertanto da domandarsi se tale finalità sia stata assolta, nello specifico, dalla legge c. d. “Codice Rosso” ed in particolare se essa sia stata – e sia oggi- in grado di rispondere al fenomeno della violenza di genere e domestica nel rispetto delle c.d. “4 P” (prevenzione; protezione; perseguimento-azione penale; politiche).

Dal punto di vista strettamente processuale dubbi sorgono riguardo la pronta reazione dell’ordinamento – Forze di Polizia in particolare- alla gestione della notizia di reato registrandosi, invero, una discrasia tra quelli che dovevano essere i tempi contratti ipotizzati dal Legislatore e quelli che invece sono i tempi effettivamente necessari all’espletamento delle attività delegate alle risorse coinvolte (Forze di Polizia, Giudici e personale amministrativo), le quali pur rimanendo numericamente le stesse (spesso non debitamente formate ed aggiornate) sono chiamate a fronteggiare sempre più numerose richieste di più difficile gestione.

Tali aspetti procedurali vengono troppe volte lasciati alla politica interna dei vari Uffici del territorio nazionale della Procura della Repubblica, nonché alle capacità e risorse delle singole stazioni di Polizia.

La nuova normativa di settore ha, infatti, incrementato gli adempimenti e imposto tempi stretti per le attività di indagine, non tenendo però adeguatamente conto delle risorse disponibili, desumendosi da tale assunto che l’attuazione soddisfacente della Legge “Codice Rosso” potrebbe derivare dalla meditata scelta degli Uffici della Procura dei vari Tribunali di investire ingenti risorse per la trattazione dei reati di violenza di genere e sulle donne, oltre che dall’impegno, sacrificio e professionalità della polizia giudiziaria e dei competenti magistrati.

Oltre però a tali criticità applicative e gestionali della Legge 69/19 – che di per sé sono già in grado di minare il principio di effettività della tutela delle vittime di violenza, evidenziando una mancata rispondenza agli obiettivi posti dalle norme sovranazionali- anche dal punto di vista sostanziale emergono perplessità soprattutto con riferimento ad alcuni dei nuovi reati introdotti.

Occorre ribadire che la citata legge, con i suoi 21 articoli, ha apportato sostanziali modifiche al codice penale operanti su due differenti piani.

Da un lato, essa aveva l’intenzione di colmare le lacune in riferimento ad alcune condotte che fino ad allora, pur non essendo del tutto prive di rilevanza penale, non costituivano di per sé reato (quali ad esempio la pratica del revenge porn -precedentemente incriminabile solo se accompagnata da condotte estorsive-, lo stalking, la violazione delle misure cautelari, il crimine di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso o la costrizione o l’induzione al matrimonio).; dall’altro lato, essa ha previsto una modifica di articoli già esistenti attraverso un inasprimento delle pene per i reati commessi secondo gli articoli del codice penale: 572 “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, 609-bis “violenza sessuale” e 609-ter “circostanze aggravanti”, 609-quater “atti sessuali con minorenne”, 609-quinquies “corruzione di minorenne”, 609-octies “violenza sessuale di gruppo”, 612-bis “atti persecutori”, 582 “lesione personale” e 583-quinquies “deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso” nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576 co. 1 n. 2, 5 e 5.1, art. 577 co. 1 n. 1, e art. 577 co. 2 c.p..

Questa duplice valenza innovativa della disciplina di settore aveva, dunque, lo scopo di fornire un’ampia tutela alle vittime di violenza di genere e domestica.

Ponendo l’attenzione su alcuni dei reati introdotti della legge 69/19, dal punto di vista interpretativo-giuridico, tuttavia, giuristi e studiosi non hanno mancato di evidenziare le criticità del sistema normativo così delineato, domandandosi se la tutela apprestata dall’ordinamento in particolare dal reato c.d. Revenge Porn sia davvero effettiva.

L’art. 612 ter, rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, al primo comma stabilisce che «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro».

Il secondo comma di tale articolo, tuttavia, punisce con «La stessa pena…chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento».

Le fattispecie oggetto dei descritti commi dell’art. 612 ter, dunque, sono identiche per condotta e per oggetto materiale del reato ma divergenti per presupposto e finalità.

Dall’interpretazione letterale di tale norma si rileva, infatti, che la scelta del Legislatore sia stata quella di considerare meno grave la condotta di cui al secondo comma, tanto da riconoscere alla stessa rilevanza penale solo quando realizza il preciso fine di danneggiare la vittima (dolo specifico)!

Deriva da quanto precede la contraddittorietà della norma in esame che, al secondo comma, elimina dall’area del penalmente rilevante – in modo ingiustificato- quelle condotte di trasmissione di materiale audio-visivo sessualmente esplicito compiute con finalità diverse da quella di creare nocumento alla vittima, ad esempio per ragioni ludiche o per motivi di vanto, tuttavia ugualmente lesive della dignità della vittima.

Per non parlare della concreta difficoltà di dimostrare quale sia la finalità per cui agisce il colpevole, derivando da ciò un interrogativo di non poco conto: quale tutela apprestare nei casi in cui la condotta dell’agente venga posta in essere in assenza della finalità illecita?

Le fattispecie tipiche astrattamente applicabili sarebbero, in tali casi, quelle previste prima dell’introduzione dell’art. 612-ter c.p. attraverso cui è punita la condotta del “porno vendicativo”, ovvero il reato di diffamazione ex art. 595 c.p. ed il reato di trattamento illecito di dati personali ex artt. 167, 167bis, 167-ter Codice Privacy).

Dall’analisi complessiva della nuova fattispecie emergono, dunque, notevoli criticità a livello applicativo, ascrivibili ad una rinuncia all’esatta messa a fuoco del fenomeno che si intendeva colpire. L’ambiguità terminologica del neologismo inglese “Revenge Porn”, ossia “Pornovendetta” – che per alcuni sarebbe da abbandonare in favore dell’espressione “pornografia non consensuale” – si è tradotta in alcuni evidenti difetti di compilazione messi in luce nel corso della trattazione. Tra di essi spicca l’estensione del dolo specifico a gran parte della casistica, che rischia di compromettere l’applicazione della nuova norma e lasciare sprovviste di tutela ipotesi di condivisione di immagini sessualmente esplicite profondamente lesive (2).

Sotto questo profilo la richiamata norma, nella sua formulazione ed applicazione, lascia trasparire un senso di scelta e legittimazione alla condivisione da parte della vittima che è, invece, insussistente. L’espressione finisce dunque per alimentare il c.d. “victim blaming”, vale a dirsi la tendenza a biasimare la vittima per la propria condotta, in questo caso consistita nell’essersi prestata ad immortalare i propri momenti di intimità. Ciò avviene in particolar modo in una prospettiva di genere: il neologismo veicola l’idea che la donna, creando materiali sessualmente espliciti, si sia esposta al rischio di vederli diffusi oltre le proprie aspettative (3).

Come evidenziato da autorevoli autori, dunque, quelli appena descritti sono gli alcuni degli esiti paradossali cui è approdato il Legislatore, considerando la severità con la quale lo stesso ha stabilito di punire le condotte tipizzate dall’art. 612-ter c.p.

L’approccio populistico con cui è stato affrontato il problema si è risolto nella creazione di una norma di dubbia efficacia, la quale sembrerebbe presupporre che l’autore della condotta abbia un motivo per vendicarsi e quindi che la vittima sia in qualche modo meritevole di biasimo.

Ciò provoca una distorsione della realtà fattuale che porta a far dipendere la punibilità di una condotta, e quindi l’effettiva tutela della vittima, dalla finalità perseguita dall’autore (vendetta, nel caso previsto al primo comma dell’art. 612-ter c.p., e volontà di creare nocumento alla vittima, nel caso previsto al secondo comma dello stesso articolo).

Alla luce delle evidenziate criticità applicative della legge 69/2019, in conclusione, dovrebbe auspicarsi un puntuale intervento normativo di integrazione e modifica della disciplina legislativa che tenga maggiormente conto delle finalità di tutela, assistenza e protezione della vittima per come previste dalle norme internazionali e comunitarie in materia.

 

 


(1) Cfr “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” su http://www.conventions.coe.int/Treaty/ITA/Summaries/Html/210.htm ;
(2) Cfr “Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di internet. l’art. 612-ter c.p. e l’incriminazione della pornografia non consensuale” di Gian Marco Caletti in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale;
(3) Su tutti questi aspetti, D.K. Citron, A.M. Franks, Criminalizing Revenge Porn, cit., 346; C. McGlynn, E. Rackley, Image-Based Sexual Abuse, cit., 535 ss.

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