Rimedi negoziali con carattere punitivo: limiti di ammissibilità e compatibilità con l’ordine pubblico economico

Rimedi negoziali con carattere punitivo: limiti di ammissibilità e compatibilità con l’ordine pubblico economico

Sommario: 1. Inquadramento sistematico – 2. La clausola risolutiva espressa – 3. Raffronto tra l’istituto di cui all’art. 1456 c.c. e la condizione risolutiva di inadempimento –  4. La caparra confirmatoria e la clausola penale – 5. Incidenza della logica “punitiva” sugli istituti sopradetti.

1. Inquadramento sistematico

Lo studio dell’argomento oggetto della presente trattazione necessita di un inquadramento sistematico che non può prescindere dalla definizione di “Risoluzione”.

All’uopo va, in via preliminare, evidenziato che la tutela rimediale sia funzionale ad incidere sul contratto inteso quale rapporto tra le parti che venga –nelle more del suo svolgimento – afflitto da una patologia (sia essa l’inadempimento di una parte o la eccessiva onerosità sopravvenuta o, ancora, l’impossibilità di adempiere per ragioni non imputabili al debitore) talché risulti particolarmente pregiudizievole, nonché contrario ai principi di buona fede e correttezza, imporre alla parte pregiudicata di rimanere vincolata ad un negozio divenuto, oramai, patologico e afflittivo.

Di tutta evidenza la differenza con la categoria della invalidità in cui si collocano nullità e annullabilità intesi quali rimedi che colpiscono il contratto in quanto atto, stante la patologia genetica – e non sopravvenuta, da cui lo stesso risulti inficiato.

Sempre in un’ottica di inquadramento della questione va precisato che il nostro ordinamento conosce – in punto di risoluzione – due macro categorie: la risoluzione giudiziale e negoziale.

La prima (c.d. risoluzione giudiziale) consente lo scioglimento del vincolo a seguito di una Pronuncia giudiziale, con carattere costitutivo, che intervenga previo accertamento del duplice requisito della riscontrata imputabilità dell’inadempimento nonché della accertata gravità e rilevanza dello stesso.

Invero lo scioglimento contrattuale è tanto importante ed incidente che l’ordinamento ne subordina la validità al rispetto del requisito di cui all’art. 1455 c.c. al fine di scoraggiare azioni pretestuose intentate da soggetti non assistiti dalla gravità e rilevanza del pregiudizio subito.

In posizione diametralmente opposta si collocano gli istituti annoverabili tra i rimedi a carattere negoziale, assistiti dal carattere della tipicità e tassatività potendo, gli stessi, intervenire ove si verifichino determinati presupposti cui le parti abbiano dato rilevanza ai fini del mantenimento del vincolo.

Stante la maggior garanzia che si ritiene assista il rimedio giudiziale questo è stato per lungo tempo riconosciuto quale regola e, conseguentemente, i negozi punitivi quali eccezioni; tuttavia un alacre lavoro svolto parallelamente da Dottrina e Giurisprudenza ha portato ad asserire che – nonostante quanto astrattamente predicato – lo stesso codice all’art. 1453 c.c. consegna un quadro differente per cui la risoluzione del contratto non sarebbe subordinata alla Sentenza pronunciata dal Giudice ma già la stessa proposizione del giudizio porterebbe seco effetti di intangibilità del contratto nella misura in cui alla parte inadempiente sarebbe impedito procedere all’adempimento – seppur tardivo – ove fosse stato raggiunto da citazione a comparire.

Ad onor del vero le preclusioni di cui sopra sono state oggetto di importanti rivisitazioni ad opera del diritto vivente che ne hanno fornito una interpretazione costituzionalmente orientata ai principi di solidarietà e collaborazione di cui all’art. 2 Cost.

Catalizzando l’attenzione ai rimedi negoziali tra essi rientra: la diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.) il termine essenziale (art. 1457 c.c.) la clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.) nonché la caparra confirmatoria (art. 1385 c.c.), riguardo quest’ultima va dato atto di quel formante interpretativo che a buon diritto ha valorizzato il comma 3 di detta norma consentendone l’attrazione tra gli strumenti negoziali di risoluzione del contratto.

2. La clausola risolutiva espressa

L’art. 1456 c.c. disciplina l’istituto della clausola risolutiva espressa: le parti vi ricorrono ove intendano assumere una prestazione quale determinante per la sopravvivenza del contratto talché l’eventuale inadempimento possa costituire condizione di risoluzione dello stesso.

Opera in deroga al principio della risoluzione giudiziale allorché, per determinare l’effetto solutorio di scioglimento del contratto, sarà sufficiente il verificarsi dell’inadempimento.

Va dato atto di un’ulteriore peculiarità propria di detto strumento da rinvenire nella c.d. fuga dal requisito di cui all’art. 1455 c.c.: invero, non sarà necessario verificare che l’inadempimento possegga il presupposto della non scarsa importanza atteso che, convenzionalmente, le parti alla prestazione dedotta in clausola hanno attribuito rilevanza tale che la non esecuzione della stessa possa giustificare il creditore ad accedere al rimedio.

Tuttavia il solo inadempimento non sarà sufficiente a dispiegare l’effetto di scioglimento dovendo essere rispettata la previsione di cui al comma 2 dell’art. 1456 c.c. per cui “(…) la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva” .

Detta precisazione trova la propria ratio nella volontà di tutelare il debitore e il suo diritto alla certezza e stabilità dei rapporti giuridici; invero a fronte dell’inadempimento il creditore – entro il termine di prescrizione ordinario del diritto – è tenuto ove voglia sciogliersi dal vincolo darne comunicazione al debitore di modo che non permanga un contratto sospeso.

Parimenti appare una previsione congrua nella misura in cui la clausola riguarda un avvenimento futuro, incerto e meramente eventuale pertanto – nelle more della sopravvivenza contrattuale – la parte possa anche aver perduto interesse ad avvalersi della clausola medesima.

Una nota di merito va riconosciuta all’apporto pretorio dato a detto istituto: si ritiene lecita – e pertanto ammissibile – la esecuzione della prestazione dedotta in clausola anche con ritardo purché intervenga in un momento antecedente rispetto alla dichiarazione della controparte di avvalersi del rimedio civilistico.

3. Raffronto tra l’istituto di cui all’art. 1456 c.c. e la condizione risolutiva di inadempimento

Trattare della clausola risolutiva espressa dà modo di approfondire la questione circa la ammissibilità, nel nostro ordinamento, della condizione risolutiva di inadempimento.

In via del tutto preliminare occorre collocarne la natura giuridica nella più ampia categoria della condizione di cui agli artt. 1353 e ss. c.c. quale espressione di autonomia negoziale per cui le parti possono convenire di subordinare l’efficacia e permanenza del contratto al verificarsi di un evento futuro e incerto.

In punto si distingue la condizione sospensiva da quella risolutiva il cui tratto differenziale attiene la efficacia del contratto.

Invero, il negozio che sia sospensivamente condizionato è avvinto da inefficacia in senso stretto essendo valido ma sospeso al verificarsi dell’evento dedotto in condizione per la produzione degli effetti da esso dirompenti; diversamente si è in presenza di un contratto sottoposto a condizione risolutiva qualora questo sia immediatamente efficace fintantoché non si verifichi l’evento condizionante che determinerà la interruzione di efficacia giuridica dello stesso.

Fatta detta premessa ricognitiva occorre dare atto dei dubbi di legittimità che hanno sempre animato la Dottrina circa la compatibilità della condizione risolutiva espressa di inadempimento nella misura in cui si collega un effetto determinante, quale quello risolutorio, al verificarsi dell’inadempimento, evento questo che opererà ipso iure sulla permanenza del vincolo contrattuale.

Al fine di sdoganare il ricorso a detto istituto occorre ripercorrere il tracciato individuato dalla Dottrina che, correttamente, ha eseguito un raffronto tra esso e quello di cui all’art. 1456 c.c.

Immanenti le differenze rintracciabili.

Innanzitutto la clausola risolutiva è sottratta a qualsivoglia meccanismo di automatismo che invece radica il funzionamento della condizione di inadempimento. Come sopra evidenziato la parte che intenda avvalersi del rimedio di cui all’art. 1456 c.c. è tenuta a darne comunicazione all’altra.

Ulteriore tratto differenziale attiene il regime degli effetti.

La clausola, invero, vista la sua collocazione nella più ampia categoria della risoluzione, soggiace alla medesima disciplina in punto di effetti statuita dall’art. 1458 c.c. per cui la risoluzione del contratto ha effetto retroattivo tra le parti ma non pregiudica gli effetti medio tempore acquisiti e maturati dai terzi; si parla all’uopo di retroattività reale.

A contrario la condizione risolutiva di inadempimento genera una c.d. retroazione obbligatoria talché la risoluzione del contratto sarà opponibile ai terzi con conseguente pregiudizio dei diritti da essi vantati.

Tuttavia va precisato che detta peculiarità si è ritenuta non contrastante con i principi di ordine pubblico economico atteso che i terzi acquirenti verrebbero, ad ogni buon conto, tutelati dalle norme di circolazione del credito.

Nel caso di acquisto di bene mobile potendo invocare la tutela del possesso vale titolo di cui all’art. 1153 c.c.; ove, invece, si fosse proceduto all’acquisto di bene immobile o mobile registrato, la posizione del terzo verrebbe garantita dalla annotazione apposta al registro delle trascrizioni da cui deve potersi rilevare che il bene oggetto di trasferimento è condizionato talché nessuna tutela potrebbe dispiegarsi verso il terzo acquirente informato.

Viceversa, in caso di mancanza dell’annotazione, non potrebbe invocarsi la opponibilità della risoluzione per non conoscenza di un requisito fondamentale: l’acquisto sarebbe stato compiuto in assoluta buona fede ignorando l’esistenza di una condizione di inadempimento.

Non v’è dubbio che, dalle considerazioni sopra svolte, è proprio detto elemento che porta i contraenti a guardare con favore alla condizione risolutiva di inadempimento poiché da essa dipendono effetti di opponibilità della risoluzione del contratto ai terzi con conseguente caducazione dei diritti medio tempore maturati.

Terza ed ultima divergenza attiene al regime risarcitorio.

Ove le parti si avvalgano della clausola risolutiva non rinunciano al risarcimento del danno che potrà essere assegnato nelle forme e nei limiti previsti dalla legge, la clausola si limita a sciogliere il contratto al verificarsi dell’inadempimento, nulla aggiunge, né deroga, in punto di risarcimento del danno patrimoniale conseguente.

Conclusioni differenti avvincono la condizione risolutiva di inadempimento.

L’apposizione della stessa si traduce in una rinuncia alla tutela risarcitoria, costituisce una forma di limitazione preventiva di responsabilità non tollerabile dall’ordinamento; ritenuta il “prezzo” da pagare per il beneficio derivante dalla opponibilità della risoluzione del contratto in capo ai terzi.

A fronte di svariate critiche, tutte accomunate dalla volontà di stigmatizzare un istituto di tal fatta, è intervenuta la Dottrina – in tempi più recenti – che con un lavoro di comparazione ha cercato di valorizzare detta clausola ritenendo come di essa, aprioristicamente, non possa predicarsi la illegittimità.

L’opera di raffronto è stata compiuta tra la condizione risolutiva di inadempimento e le condizioni risolutive unilaterali, poste nell’interesse di una parte e sempre ammesse, caratterizzate dal regime della c.d. rinunciabilità espressa dalla parte nel cui interesse era stata posta.

Ordunque la migliore Dottrina ha tentato un’opera di estensione analogica del requisito in commento sussumendo in un’unica categoria le due differenti ipotesi di condizioni (risolutiva unilaterale e di inadempimento) talché ben possa ipotizzarsi che al verificarsi dell’inadempimento la parte nel cui interesse la clausola fosse stata posta acconsenta a rinunciarvi e, pertanto, ad avvalersi dell’ordinario regime risarcitorio.

Ne discende che un giudizio di illegittimità scontato sia illogico ma debba attendersi la scelta rimessa esclusivamente al potere dispositivo della parte interessata che, ove rinunci alla condizione – e quindi al regime di opponibilità obbligatoria – consenta di sottrarre la condizione allo scrutinio negativo: non costituendo ipotesi di limitazione anticipata di responsabilità.

4. La caparra confirmatoria e la clausola penale

Sciorinati gli aspetti peculiari dei c.d. rimedi negoziali conosciuti dal nostro ordinamento è opportuno completarne la trattazione con l’analisi della caparra confirmatoria e il raffronto tra essa e la clausola penale.

L’art. 1385 c.c. disciplina un negozio accessorio – così pacificamente conosciuto dagli studiosi – che insiste sul contratto principale con cui una parte (il tradens) consegna all’altra (accipiens) una somma di denaro o una quantità di cose fungibili a titolo di caparra che in caso di inadempimento deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta.

A norma del successivo comma se la parte che ha dato la caparra è inadempiente l’altra può recedere dal contratto trattenendo quanto ricevuto; viceversa se l’inadempimento è imputabile all’accipiens, il tradens potrà ottenere il doppio di quanto corrisposto.

Il dato normativo consegna una lettura di agevole inquadramento: la caparra svolge una triplice funzione.

Innanzitutto posta a garanzia di inadempimento nella misura in cui il soggetto che lo subisce può recedere dal contratto trattenendo il quantum versato o ricevuto; parimenti è espressione di autotutela negoziale atteso che con l’esercizio del diritto di recesso la parte che se ne avvalga tutela in via privata il proprio interesse senza ricorrere all’esperimento del giudizio; da ultimo è mezzo di controllo del risarcimento in quanto ove la parte lesa eserciti il proprio diritto di recesso e trattenimento della caparra, questa costituirà il tetto massimo del risarcibile.

Sul punto merita attenzione il disposto di cui al comma 3 dell’articolo in commento che riconosce alla parte lesa la possibilità di chiedere la esecuzione del contratto o la risoluzione con contestuale accesso alla tutela risarcitoria regolata dalle norme generali (imputabilità e gravità dell’inadempimento).

Proprio detta previsione è stata oggetto di un alacre dibattito dottrinario e giurisprudenziale da ultimo risolto con l’intervento delle Sezioni Unite nel 2009.

Per lungo tempo si è professata la natura fungibile dei due rimedi talché il soggetto non inadempiente avrebbe potuto disporre degli stessi: si riteneva, invero, ammissibile la posizione dell’attore che avesse agito in giudizio con domanda di risoluzione e che, nelle more dello stesso resosi conto del probabile esito infausto, si fosse determinato alla rinuncia dell’azione e contestuale esercizio del diritto di recesso e trattenimento della caparra.

L’intervento delle Sezioni Unite è stato determinante nella misura in cui, plasticamente, hanno riconosciuto la natura alternativa e non disponibile dei rimedi di cui all’art. 1385 c.c.

A contrario, ove si fosse consentita una disponibilità dell’azione in capo al privato, avrebbe significato configurare un’ipotesi di abuso del processo, di lesione dell’affidamento del debitore il quale giammai avrebbe potuto confidare sulla stabilità della richiesta processuale ma sarebbe stato sempre esposto alle volontà mutevoli del creditore; ancor più si sarebbe determinato un effetto sintomatico aberrante: la scommessa sull’esito processuale che avrebbe, giocoforza, consentito una disponibilità dell’effetto solutorio preclusa dall’ordinamento.

La scelta del rimedio è rimessa alla parte che se ne avvalga considerato l’entità del danno patrimoniale per cui possa ritenersi meritevole il quantum corrisposto a titolo di caparra o, viceversa, si ritenga maggiormente soddisfacente l’azione processuale di risoluzione e risarcimento con il congruo rischio di vedersi liquidato un danno inferiore alle aspettative; ad ogni buon conto, nessuna disponibilità e fungibilità dei rimedi può essere ammessa in specie in considerazione del particolare favore con cui l’ordinamento guarda alla caparra confirmatoria quale strumento deflattivo del contenzioso.

In che termini può porsi il raffronto con la clausola penale di cui all’art. 1382 c.c.?

La clausola penale si discosta ontologicamente dalla caparra confirmatoria: la prima è unilaterale a fronte della bilateralità della seconda; in special maniera la clausola introduce una ipotesi di limitazione di responsabilità nella misura in cui dispone l’effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa in caso di inadempimento o di ritardo dello stesso.

La caparra confirmatoria invece non preclude alla parte lesa la possibilità di esperire l’ordinaria azione di risoluzione risarcimento del danno.

Di certo la differenza maggiore attiene alla determinazione quantitativa esistente tra la clausola penale e la caparra.

La prima è rimessa alla volontà negoziale delle parti, la seconda trova un suo tetto massimo nel valore della prestazione che il soggetto è chiamato ad eseguire.

Proprio la maggiore libertà di cui le parti dispongono nell’uso della clausola penale ha portato il Legislatore ad introdurre la tutela di cui all’art. 1384 c.c. che conferisce al Giudice il potere di riduzione della penale ove eccessiva o qualora la prestazione sia stata in parte eseguita.

L’evidenza sistematica, per cui entrambi gli istituti in commento sono contenuti nella medesima sezione, ha portato gli interpreti ad interrogarsi circa la possibilità di estendere analogicamente il rimedio di cui all’art. 1384 c.c. anche alla caparra confirmatoria, consentendone, pertanto, una riduzione equitativa in caso di eccessiva pattuizione.

Due i formanti contrapposti che hanno visto l’affermarsi della tesi positiva e reiettiva alla predetta possibilità, rispettivamente incardinate sul principio di equità nonché sul carattere eccezionale dell’art. 1384 c.c. che conferisce al Giudice il potere di sindacare l’equilibrio contrattuale, sebbene in via del tutto estrema.

Potere questo che nel c.d. contratto civilistico si ritiene precluso al Giudicante in favore di una professata insindacabilità ed intangibilità dell’equilibrio scelto e individuato dalle parti.

La querelle è stata risolta dalle ordinanze Gemelle della Consulta del 2014 che hanno accolto una tesi intermedia: è alquanto difficile che la caparra sia eccessiva atteso il carattere bilaterale e negoziale della stessa pertanto la parte conferente ben può rifiutare la consegna ove la ritenga smoderata e iniqua; conseguentemente, in caso di palese sproporzione, il quantum eccedente e confliggente con il principio di equità, che domina l’ordinamento, verrebbe colpito da nullità talché lo stesso non sarebbe dovuto.

5. Incidenza della logica “punitiva” sugli istituti sopradetti

Alla luce dell’analisi testé svolta circa i negozi rimediali privati che il nostro ordinamento conosce non può prescindersi dall’evidenziare il tratto che li accomuna: il carattere punitivo degli stessi rinvenibile, in specie, nell’uso della clausola penale che limita la risarcibilità del danno alla prestazione promessa cui uno dei contraenti è tenuto in caso di inadempimento o di ritardo nell’eseguire la prestazione.

Immediata l’evocazione alla funzione che il risarcimento del danno svolge nel nostro ordinamento.

Sin da principio, invero, si è ritenuto vi fosse una funzione meramente compensativa e ripristinatoria connessa alla responsabilità civile attorno alla quale graviterebbe, parimenti, una funzione deterrente e sanzionatoria, seppur latente e non evidente.

Con medesima convinzione, tuttavia, si escludeva la possibilità che la responsabilità civile potesse svolgere funzione meramente punitiva per cui il quantum corrisposto a titolo di risarcimento si ritenesse non soltanto parametrato alla perdita di capitale ma fosse calcolato in base alla riprovevolezza della condotta sciorinata alla luce dell’elemento soggettivo, dolo o colpa, con cui il danneggiante avesse agito.

La questione si è posta in tutta la sua dirompenza a far data dal 2007, per culminare con la pronuncia a Sezioni Unite del 2017, con riferimento al processo di delibazione interna verso Sentenze straniere che riconoscessero i c.d. danni punitivi.

A fronte di un orientamento fortemente negazionista sorto nel 2007 e poi confermato nel 2012 si è radicato un successivo formante la cui pietra miliare è stata rappresentata dall’ordinanza di rimessione del 2016 della Cassazione Sezione I al Primo Presidente perché rimettesse la questione alle Sezioni Unite.

Se è pur vero che la responsabilità civile si connota per la sua funzione ripristinatoria, detta natura non può assurgere a principio di ordine pubblico tale da ostacolare l’ingresso di Sentenze in cui il risarcimento persegue parimenti funzione sanzionatoria.

Del resto va dato atto delle aperture normative che il nostro codice di rito conosce circa una natura deterrente propria della responsabilità civile: si veda, all’uopo, la previsione di cui all’art. 96 c.p.c. in materia di lite temeraria e quella di cui all’art. 614 bis c.p.c. – con cui il Legislatore ha introdotto le c.d. astreintes – volto a comminare un aumento di pena pecuniaria al debitore che, raggiunto da sentenza di condanna all’adempimento, perpetui nel ritardo ingiustificato e oltraggioso verso il creditore della prestazione infungibile.

Le considerazioni testé riportate, che hanno trovato ampio respiro nella ordinanza di rimessione, hanno condotto le Sezioni Unite ad una maggiore apertura verso la concezione della responsabilità civile con funzione punitiva purché sorretta dal principio di legalità e di proporzionalità al fine di evitare che essa diventi strumento sanzionatorio privo di controllo e di argini ma rimesso unicamente alla determinazione di colui che subisce il danno.

Chiave di volta per questa lettura c.d. internazionalizzata della responsabilità civile è stata l’evoluzione pretoria del concetto di ordine pubblico non più da intendere quale insieme dei principi supremi di ordinamento interno, ma comprensivo di quei cardini che reggono la comunità internazionale.

Gli Ermellini hanno, dunque, sposato una concezione rimediale della funzione risarcitoria, ammessa anche ove comminata con funzione punitiva purché ancorata a norma di legge e proporzionalmente comminata atteso che la corresponsione del quantum liquidato giammai può configurare un ingiustificato arricchimento.

La riproduzione del percorso giurisprudenziale così compiuto consente l’applicazione delle conclusioni avanzate anche ai negozi privati risolutori di cui si è trattato nel presente contributo.

Per cui ben può ipotizzarsi un risarcimento del danno superiore o una clausola penale maggiorata – seppur nel rispetto del principio di equità – purché detta eccedenza rispetti i principi desumibili dall’art. 25 Cost.


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Avv. Maria Erica Gangi

Laureata presso l'Università degli Studi di Palermo il 26.10.2012 con votazione 110/110; ha conseguito l'abilitazione forense in data 29.10.2015; iscritta all'albo Avvocati del Tribunale di Agrigento in data 10.12.2015. Tutt'oggi impegnata nell'esercizio della professione forense e nello studio e conseguente preparazione del concorso in Magistratura.

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