Rimedi unilaterali di caducazione e adeguamento del contratto. Limiti e spazi dell’autonomia privata
Nel lasso di tempo che intercorre fra la conclusione del contratto e la sua esecuzione, si possono verificare sopravvenienze, che pongono il problema di adeguamento del contratto alla nuova situazione e impongono di chiedersi se vi sia interesse a mantenere il contratto.
A livello concettuale, è anzitutto necessario premettere che vanno distinte le disfunzioni originarie del contratto da quelle sopravvenute: le prime sono vizi dell’atto contrattuale, mentre le seconde sono disfunzioni del rapporto; su questa partizione si basa la dicotomia generale dei rimedi: invalidità vs. risoluzione.
Per affrontare le sopravvenienze, che incidono sulla funzionalità del rapporto contrattuale, è possibile prevedere rimedi c.d. unilaterali ossia casi in cui il potere di sciogliersi dal contratto o di modificarne il contenuto è dato a una parte.
In generale, l’ordinamento prevede rimedi legali di scioglimento unilaterale del contratto, ove occorre di volta in volta stabilire se la disciplina è derogabile o imperativa.
L’autonomia negoziale può però prevedere rimedi convenzionali ovvero di usare rimedi tipici, modificandone il contenuto.
Per quanto concerno lo scioglimento del vincolo, strumento principale è il recesso. Il recesso è atto negoziale unilaterale e recettizio e corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo di sciogliersi unilateralmente dal contratto. si distingue fra recesso legale e convenzionale. L’art. 1372 c.c., che è norma dispositiva, prevede limiti di fattispecie (i contratti bilaterali non eseguiti, con effetti non istantanei) e di effetti (analoghi a quelli previsti dagli artt. 1350 s.s.: retroattività dell’inefficacia a eccezione dei contratti a esecuzione periodica e continuata): ma le parti possono stabilire diversamente, perché la norma non protegge interessi pubblici e si limita a dettare una disciplina suppletiva che risponde a principi logici e razionali. Le parti possono convenire il pagamento di una multa in caso di recesso determinato dall’inadempimento; possono pattuire un corrispettivo per l’attribuzione del diritto di recedere. In ogni caso, il recesso deve essere esercitato secondo buona fede.
Nel recesso legale rientrano tutte le ipotesi di recesso previste espressamente dalla legge. Vanno distinte però categorie molto diverse: il recesso c.d. determinativo o di liberazione, che fa riferimento a tutti i casi in cui la legge, nei contratti di durata stipulati a tempo indeterminato, dà la facoltà alle parti di sciogliersi in qualsiasi momento: il recesso risponde all’esigenza di liberarsi da vincoli perpetui di durata eccessiva, verso cui l’ordinamento esprime una generale disapprovazione; pertanto, il recesso liberatorio si ritiene sempre applicabile analogicamente a tutti i rapporti di durata contratti sine die. Il recesso in autotutela o recesso-impugnazione: ha lo scopo di caducare unilateralmente il rapporto in reazione a vizi originari o funzionali del contratto; è il caso del recesso dell’assicuratore per reticenza dell’assicurato (vizio genetico del rapporto) o del recesso giustificato dall’inadempimento di controparte (vizio funzionale: v. caparra penitenziale). Poiché l’autotutela è un’ipotesi eccezionale, che di norma è vietata ai privati, i casi di recesso previsti dalla legge sono considerati tassativi.
La legge prevede pure casi di recesso ius poenitendi. Si tratta della forma di recesso esercitabile quando l’interesse di una parte a mantenere il contratto è venuta meno ovvero quando è dato al contraente debole un diritto di ripensamento in funzione protettiva: sono ipotesi eccezionali, non applicabili analogicamente ad altre fattispecie.
Oltre al recesso, i contraenti possono anche prevedere strumenti diversi, che consentano di caducare il contratto su iniziativa di uno di essi e, quindi, senza ricorrere al giudice.
Esempi sono la clausola risolutiva espressa; la diffida ad adempiere, la previsione del termine essenziale. Le parti possono inoltre prevedere deroghe all’esercizio del recesso.
Possono infine prevedere strumenti di manutenzione del contratto, ossia rimedi azionabili dall’una o l’altra parte che hanno per effetto non già l’estinzione del vincolo, ma la modificazione del contenuto. Anche in questo caso lo strumento risponde all’esigenza di far fronte a sopravvenienze e a un sopravvenuto mutamento dell’interesse al contratto: le parti decidono allora di modificare il contenuto del contratto per renderlo più adeguato alla nuova valutazione, invece di caducarlo.
Anche qui occorre distinguere fra ipotesi previste per legge e clausole di variazione unilaterale pattuite dai contraenti. Si deve distinguere anche fra clausole di rinegoziazione e ius variandi, ossia fra clausole che obbligano le parti a modificare o trattare per le modifica del contratto e clausole che conferiscono a un solo stipulante il potere unilaterale di modificare il regolamento negoziale.
Quanto alla prima questione, la legge prevede lo ius variandi in ipotesi specifiche (contratto di lavoro, appalto, pacchetto turistico, contratti bancari) e lo sottopone a limiti stringenti e a divieti. Prevede infine dei rimedi a favore della controparte, per bilanciare il potere attribuito al soggetto che ha diritto di modifica. Si conclude che lo ius variandi è eccezionale e non può essere esteso oltre le ipotesi nominate, né può avere contenuto atipico. Secondo altra tesi, le parti possono convenire uno ius variandi a favore di una sola parte quando questa sia sottoposta a limiti a tutela della posizione di controparte; questi limiti, anche se non espressamente pattuiti, vanno individuati nel divieto di abuso nell’esercizio del diritto e, secondo altra condivisibile dottrina, nella predeterminazione del contenuto del diritto. Tale argomento si ricava dai casi in cui la scelta di determinare unilateralmente il contenuto del contratto è ammessa solo se contenuta entro limiti massimi determinati o determinabili (v. obbligazioni alternative): le parti accettano il regolamento conoscendo il limite massimo entro il quale sono obbligate. Il divieto di abuso si evince dal dovere di buona fede ex art. 1333, 1175, 1375 ed in particolare dal dovere di correttezza nell’esecuzione del contratto; la sua violazione si traduce nella violazione di una regola di responsabilità e dà luogo ai rimedi per inadempimento ex art. 1218; inoltre, contro l’abuso è proponibile la exceptio doli generalis.
Lo ius variandi va distinto però dalle clausole di negoziazione, che impongono un obbligo di rinegoziare il contratto in caso di sopravvenienze: qui le parti trattano per concordare la variazione; al contrario, con lo ius variandi una sola di esse ha il potere di determinare la modifica, mentre l’altra resta in posizione di soggezione.
In sintesi, le parti possono prevedere diversi strumenti per sciogliersi dal contratto o modificarlo. La norma generale che attribuisce questa facoltà è senz’altro l’art. 1372 in tema di recesso, da leggere in combinato con l’art. 1322 c.c. La prima norma non ha carattere imperativo, pertanto le parti possono prevedere diverse modulazioni del diritto convenzionale di recesso. Al recesso si affianca però la previsione di altri strumenti pattuiti e azionabili da una (o da entrambe le parti) senza ricorso al giudice; alcune di esse configurano ipotesi di autotutela autorizzate dall’ordinamento (la ritenzione della caparra, il recesso-impugnazione); altri sono strumenti che fanno operare ipso iure la risoluzione (il termine essenziale, la clausola risolutiva). Lo spazio lasciato all’autonomia privata è ampio in materia di recesso convenzionale; meno ampio è quando le parti attribuiscono poteri unilaterali di modifica del contratto.
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Simone Risoli
Gennaio 1991, Avvocato, laureato nel 2015 presso l'Università degli Studi di Milano, già tirocinante presso le sezioni civili e penali del Tribunale di Milano e la Prima Corte di Assise, cultore della materia presso il Dipartimento Beccaria dell'Università degli studi di Milano, già collaboratore presso la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia.
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