Rimessa alle Sezioni Unite la questione inerente il rapporto tra lo stalking e l’omicidio aggravato ex art. 576, co. 1, n. 5.1, c.p.
Sommario 1. Premessa – 2. Il concorso di reati: il regime sanzionatorio e le diverse tipologie – 3. Il concorso apparente di norme – 4. Il reato complesso – 5. Il contrasto – 5.1 Il precedente: Cassazione n. 20786 del 2019– 5.2. Il revirement: Cassazione n. 30932 del 2020 – 6. Considerazioni conclusive
1. Premessa
La V sezione della Corte di Cassazione, all’esito dell’udienza del 1° Marzo 2021, ha deliberato la rimessione del ricorso alle Sezioni unite affinché queste chiariscano «se, in caso di concorso tra i fatti-reato di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., sussista un concorso di reati, ai sensi dell’art. 81 c.p., o un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., che assorba integralmente il disvalore della fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente ai danni della medesima persona offesa».
La rimessione si è resa necessaria a seguito di un contrasto interpretativo venutosi recentemente a creare in relazione all’aggravante prevista per il delitto di omicidio ai sensi dell’art. 576 comma 1 n. 5.1 del codice penale. In particolare, la norma prevede che “si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’articolo precedente è commesso: dall’autore del delitto previsto dall’articolo 612-bis nei confronti della stessa persona offesa”.
La questione, non di poco contro, riguarda l’inquadramento dogmatico della fattispecie. Nello specifico, ci si chiede se la norma indicata configuri un reato complesso ai sensi dell’art. 84 c.p. ovvero vi un concorso tra il delitto di omicidio e quello di atti persecutori. Sul punto, due recenti pronunce della suprema corte si son poste in posizioni antitetiche. Con la sentenza numero 20786 dell’aprile 2019, gli ermellini hanno negato l’esistenza di un rapporto di specialità ex art. 15 c.p. tra le fattispecie, con conseguente concorso tra i due reati. Al contrario, con la pronuncia 30932 del 2020 la suprema corte ha affermato l’esistenza di un concorso apparente di norme ai sensi dell’art. 84, co. 1 c.p. Alla luce di tale contrasto, la V sezione ha ritenuto opportuno rimettere la questioni al supremo consesso nomofilattico.
Per comprendere al meglio la questione oggetto di rimessione, appare utile delineare brevemente il fenomeno del concorso di reati e del reato complesso.
2. Il concorso di reati: il regime sanzionatorio e le diverse tipologie
Si ha il concorso di reati quando un soggetto abbia violato più volte la legge penale e, pertanto, deve rispondere di più reati.
Emerge ictu oculi come la prima problematica che un tale fenomeno pone in rilievo attiene al regime sanzionatorio. In astratto, in un diritto penale ispirato a finalità general-preventive, le soluzioni possibili sono tre: il cumulo materiale, il cumulo giuridico e l’assorbimento. Con il primo si applicano tante pene per quanti sono i reati secondo lo schema del tot crimina tot poena; il cumulo giuridico prevede l’aumento proporzionale della pena prevista per il reato più grave tra quelli concorrenti; con l’assorbimento, invece, si applica la pena del reato più grave sull’assunto che la pena prevista per questo assorba in sé anche quella minore, poena major absorbet minorem. La scelta per l’uno o l’altro sistema sanzionatorio muta a seconda delle intenzioni intendono perseguirsi. Infatti, con il cumulo materiale si vuole rendere maggiormente efficace la sanzione, con il cumulo giuridico, invece, si vuole “premiare” il delinquente che, nonostante abbia violato più norme penali, abbia ceduto ai motivi a delinquere una sola volta. Non a caso, il regime del cumulo giuridico opera con riferimento al reato continuato ed al concorso formale.[1]
Ciò posto, la plurima violazione della legge penale da parte del medesimo soggetto, che prende il nome di concorso, raggruppa diverse ipotesi. Il riferimento è al concorso materiale e formale, al reato continuato nonché, per certi versi, al reato complesso. Son tutte ipotesi nelle quali il soggetto attivo viola diverse norme incriminatrici. Nel reato complesso, in realtà, il reato è unico ma si caratterizza per essere composto da due reati autonomi che una volta uniti configurano l’unico reato. Fenomeno diverso, invece, è il concorso apparente di norme. Quest’ultimo si configura quando la condotta posta in essere dal soggetto attivo sembrerebbe rientrare in più fattispecie incriminatrici ma, in realtà, la norma applicabile è solo una.
Chiarito quanto sopra, il concorso materiale si realizza allorché il soggetto attivo compia più azioni o omissioni che configurino più reati. Ove i plurimi reati siano i medesimi si parla di concorso omogeneo, mentre nel caso di reati diversi il concorso è detto eterogeneo. In tal caso il regime sanzionatorio previsto è il cumulo materiale.
Si parla di concorso formale, invece, nel caso in cui il soggetto abbia commesso più di un reato ma con una sola azione. Anche in tal caso il concorso sarà omogeneo o eterogeneo a seconda della medesimezza o meno della norma incriminatrice violata. In tal caso, però, il regime sanzionatorio sarà il cumulo giuridico.
Il cumulo giuridico è previsto anche per il reato continuato, che si configura in presenza di una pluralità di azioni e di reati posti in essere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. In sostanza si è in presenza di un concorso materiale con l’aggiunta del medesimo disegno criminoso che lega tutti i reati. Tale elemento aggiuntivo giustifica la scelta per il cumulo giuridico, ritenendosi meno riprovevole la circostanza che il reo si sia determinato a delinquere solo inizialmente, quando ha deciso di perseguire il suo disegno criminoso.[2]
Un’ulteriore tipologia di concorso di reati è costituita dai reati connessi che, secondo autorevole dottrina, costituirebbero le vere ipotesi di concorso sostanziale di reati. Il riferimento è: alla connessione teleologica, nella quale un reato-mezzo, è commesso al fine di eseguirne un altro detto reato-fine; alla connessione consequenziale, che si realizza quando un reato è commesso per conseguire o assicurare il profitto, prezzo, prodotto del reato[3]. In queste ipotesi si sarebbe in presenza di una manifestazione del reato, emergendo chiaramente il collegamento tra le diverse unità criminose. Ciò, a differenza di quanto accade nel concorso materiale, che più he configurare un istituto autonomo viene preso in considerazione dal legislatore solo nell’ottica di una unificazione delle sanzioni e nel quale manca tale nesso ontologico tra le vicende.[4]
3. Il concorso apparente di norme
Il conflitto, o concorso, apparente di norme si verifica quando un fatto sembri integrare diverse fattispecie incriminatrici ma, in realtà, solo una di esse è applicabile e l’agente dovrà rispondere solo di un reato. Il punctum dolens di tale fenomeno è certamente l’identificazione del o dei criteri utilizzabili al fine di identificarlo.
A tal proposito, l’unico criterio previsto a livello legislativo è quello di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p. secondo cui “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.”.
Dunque, il criterio principale è certamente quello strutturale. In particolare, la specialità ricorre allorché tutti gli elementi costituivi di una fattispecie, detta generale, siano contenuto all’interno di un’altra fattispecie, detta speciale, la quale però contiene anche ulteriori elementi specializzanti.[5]
Il criterio strutturale, tuttavia, non è l’unico. Alla luce delle innegabili lacune che derivano dall’applicazione del solo criterio di specialità, la dottrina ha ritenuto di doverne elaborare diversi, detti “di valore”, quali quello di sussidiarietà e dell’assorbimento.
Il criterio di sussidiarietà intercorrerebbe tra le norme che prevedono stadi e gradi diversi di offesa di un medesimo bene, ragion per cui l’offesa maggiore assorbe quella minore e, pertanto, esclude l’applicabilità dell’altra norma.
Il terzo criterio, quello dell’assorbimento, trova il suo fondamento nel generale principio del ne bis in idem ed è invocabile per escludere il concorso di reati quando la commissione di un reato comporta la commissione di un secondo reato il quale, in base ad una valutazione normativo-sociale, appare assorbito dal primo.
Sussidiarietà e assorbimento costituiscono dei criteri di valore, che prescindono dall’analisi strutturale delle fattispecie e sono oggetto di forti critiche da parte della giurisprudenza maggioritaria che opta, invece, per il criterio di specialità. Le critiche riguardano essenzialmente la mancanza di un fondamento normativo che giustifichi l’applicazione di tali criteri, nonché il possibile contrasto con i principi di legalità e determinatezza in quanto basati su una valutazione intuitiva e discrezionale dell’interprete.[6]
4. Il reato complesso
Ai sensi dell’art. 84 c.p. il reato complesso si configura “quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato”.
In particolare, l’art 84 c.p. distingue il reato complesso “del primo tipo”, costituito da due autonome fattispecie che si fondono e danno vita ad un terzo e diverso reato. Si pensi al delitto di rapina, che non è altro che il risultato della fusione della fattispecie di furto e di violenza privata. Nel reato complesso circostanziato, invece, uno dei due reati viene considerato una mera circostanza aggravante dell’altro; si pensi a quanto previsto dall’art. 576, co. 1, numero 5 c.p., dove la commissione di uno dei reati indicati dalla norma costituisce un’aggravante della fattispecie di omicidio. La ratio del reato complesso, pertanto, dev’essere individuata nella necessità di considerare in maniera unitaria condotte condotta che, pur integrando diverse fattispecie incriminatrici, presentino una forte connessione tra loro tale da giustificare un trattamento unitario. Il legislatore, in altri termini, ha voluto evitare che l’interprete applichi il regime del concorso di reati in presenza di una unificazione normativa di fatti che, se non esistesse il reato complesso, integrerebbero autonome fattispecie incriminatrici.[7]
Ciò posto, per la giurisprudenza il reato complesso non è altro che una ripetizione del principio di specialità; si ritiene, infatti, che vista l’analoga struttura di tale tipologia di reato, non vi sia nessuna deroga al criterio di specialità. In dottrina, invece, si ritiene che l’art. 84 c.p. sia un’espressione del principio di consunzione, ragion per cui l’ambito di applicazione del concorso apparente di norme includerebbe tutte quelle ipotesi nelle quali in concreto si fondono due fatti costituenti reato ma, alla luce della condotta complessiva, uno di essi, ed in particolare quello più grave, assorbe l’altro.[8]
La continenza, tuttavia, ha un limite. Il reato complesso, infatti, non può assorbire anche quei fatti criminosi che siano più gravi della fattispecie complessa. Infatti, il reato ex art. 54 c.p. non potrà mai essere punito in maniera minore rispetto ad un reato che lo compone. Si pensi all’omicidio commesso durante una rapina, in cui il primo assorbirà certamente il disvalore del reato complesso. Ciò posto, quid iuris nel momento in cui i limiti indicati vengano superati? Certamente, in ragione del ne bis in idem, deve escludersi il concorso formale tra il reato complesso ed il reato semplice, perché in tal caso si punirebbe l’agente due volte per il medesimo fatto. Pertanto, la soluzione migliore sembrerebbe essere quella della scomposizione della fattispecie con conseguente concorso tra i reati. Quindi, nell’esempio dell’omicidio commesso nel corso di una rapina, aderendo a tale impostazione l’agente verrebbe punito per furto e per omicidio in concorso tra loro, ma mai per rapina.[9]
5. Il contrasto
Come già anticipato in premessa, in data 1° marzo 2021 la V sezione della suprema corte ha rimesso alle sezioni unite la risoluzione di un contrasto sorto in relazione all’art. 576, co. 1, n. 5.1 del codice penale. La norma costituisce una circostanza aggravante speciale del delitto di omicidio e prevede l’ergastolo nel caso in cui la condotta omicidiaria sia stata posta in essere “dall’autore” del delitto di stalking. Tale previsione è stata inserita nell’art. 576 c.p. ad opera della legge che ha introdotto nel nostro ordinamento il delitto di atti persecutori ai sensi dell’art. 612-bis c.p., la numero 38 del 2009. La ratio della previsione va individuata nella volontà del legislatore di punire in maniera più rigorosa l’omicidio posto in essere dallo stalker a “conclusione” della sua attività persecutoria.[10]
Ciò posto, la formulazione, poco felice, della norma ha dato adito a diverse perplessità. Non è chiaro, infatti, se tra la precedente attività persecutoria e l’omicidio debba sussistere o meno una connessione oggettiva, nel senso di esigere che l’omicidio avvenga e rappresenti il momento culminante della precedente condotta persecutoria.[11]
Tali dubbi, evidentemente, non sono stati chiariti dalla giurisprudenza successiva all’entrata in vigore della norma, il che ha reso necessario il ricorso alle Sezioni Unite.
5.1 Il precedente: Cassazione n. 20786 del 2019
La questione è giunta presso la corte di cassazione nell’aprile del 2019. La vicenda fattuale vedeva imputato un soggetto che, dopo aver scoperto il tradimento della fidanzata grazie ad un accesso abusivo all’account facebook della donna, dapprima la molestava e minacciava con assidui contatti telefonici e informatici, per poi ucciderla tramite strangolamento e distruggerne il cadavere carbonizzandolo. In primo grado il Tribunale condannava l’imputato all’ergastolo per il delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, co.1 n.5.1 c.p.; in Appello la pena veniva rideterminata in anni trenta di reclusione ai sensi dell’art. 84 c.p. e ritenendo il delitto di atti persecutori assorbito in quello aggravato ai sensi dell’art. 576, co.1 n.5.1 c.p.
Proposto il ricorso in cassazione, la corte con la sentenza n. 20786 del 2019 ha affermato che “Il delitto di atti persecutori non è assorbito da quello di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1, c.p., non sussistendo una relazione di specialità tra tali fattispecie di reato.”
La suprema corte, pertanto, ha negato che la fattispecie costituisca un reato complesso, dovendosi porre in rilievo la connotazione tipicamente soggettiva della norma. Gli ermellini sostengo che il legislatore, nel far riferimento “all’autore del delitto previsto dall’art. 612-bis cp” non abbia inteso sanzionare la condotta persecutoria poi sfociata in omicidio, ma la mera commissione del fatto da parte dello stalker. Ciò deriva dal fatto che il legislatore ha posto l’accento sull’identità dell’autore del reato di omicidio e di quello di atti persecutori e non, invece, sulla connessione oggettiva tra i due fatti.[12] Sul punto la corte è chiara e afferma chiaramente “In riferimento alla previsione che ora è d’interesse, il disvalore aggiuntivo di cui si colora il fatto dell’omicidio è invece posto in diretta derivazione dall’essere l’autore colui che prima, non importa quando, ha oppresso la vittima con atti persecutori, e ciò perchè in tal modo riceve una deplorevole e particolare spinta criminosa proprio dal contesto di sopraffazione in cui si è strutturata la relazione con la vittima.”.
Gli ermellini, inoltre, rimarcando le differenze esistenti tra i due delitti hanno escluso l’esistenza di un rapporto di specialità tra i due delitti. Infatti, mentre lo stalking si concretizzano in minacce e molestie tali che siano causali ad uno dei tre eventi alternativi previsti dalla norma, l’omicidio prescinde da simili condotte e si qualifica solo per l’evento tipico della morte.[13] Ne deriva che, in tale ipotesi, non trovando applicazione il principio di specialità ex art. 15 c.p. per risolvere il concorso apparente di norme, non trattandosi di un reato complesso, si configurerebbe un concorso di reati.[14]
Non poche le critiche. L’interpretazione soggettiva data dalla suprema corte alla norma in esame rischia di richiamare alla mente un diritto penale soggettivo nel quale non si punisce ciò che l’agente pone in essere ma ciò che il soggetto è. Secondo l’interpretazione data dagli ermellini, il legislatore del 2009 ha ritenuto di dover punire in maniera rigorosa non l’omicidio commesso al culmine di una attività persecutoria, ma l’omicidio commesso dallo stalker a prescindere da qualsiasi nesso tra le due condotte riprovevoli. Il che comporterebbe il paradosso di equiparare sotto il profilo sanzionatorio due condotte caratterizzate da diverso disvalore; si pensi al caso di chi uccida la compagna dopo averla precedentemente perseguitata e chi invece, in passato condannato per stalking, sopprima la compagna per ragioni diverse.[15]
5.2 Il revirement: Cassazione n. 30932 del 2020
Con la sentenza n. 30932 del 202, la Suprema Corte ha ribaltato il principio di diritto affermato nel suo precedente appena indicato. La vicenda vedeva riguardava la condanna dell’imputato per i delitti di atti persecutori, sequestro di persona e violenza sessuale, il quale ricorreva in Cassazione asserendo la violazione del ne bis in idem processuale per essere stato già condannato con sentenza irrevocabile a titolo di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 comma 1 n. 5.1 c.p. per i fatti ora contestati a titolo di atti persecutori.[16] La suprema corte si è espressa in senso diametralmente opposto al suo precedente del 2019, statuendo il seguente principio di diritto “tra gli art. 576, comma 1, n. 5.1, e 612-bis cod. pen, sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell’art. 84 comma 1 c.p. e, pertanto, il delitto di atti persecutori non trova autonoma applicazione nei casi in cui l’omicidio della vittima avvenga al culmine di una serie di condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente nei confronti della medesima persona offesa”.
Gli ermellini non hanno condiviso la connotazione soggettiva attribuita dalla precedente pronuncia. In particolare la corte, concentrandosi sul dato letterale dell’art. 576 comma 1 n. 5.1 c.p., ha affermato che “l’infelice e incerta formulazione della norma non può giustificarne un’interpretazione soggettivistica, incentrata sul tipo di autore, senza considerare che la pena si giustifica non per ciò che l’agente è, ma per ciò che ha fatto. In altri termini, ciò che aggrava il delitto di omicidio non è il fatto che esso sia commesso dallo stalker in quanto tale, ma che esso sia stato preceduto da condotte persecutorie che siano tragicamente culminate, appunto, con la soppressione della vita della persona offesa.” In sostanza, secondo la pronuncia, ciò che aggrava il delitto di omicidio, tale da renderlo meritevole dell’ergastolo, è proprio l’averlo commesso dopo aver posto in essere le condotte persecutorie previste e punite dall’art. 612-bis c.p. nei confronti della vittima. Emerge ictu oculi come la pronuncia in commento valorizzi proprio quel nesso oggettivo tra le condotte ritenuto inesistente dall’arresto precedente. Non può non rilevarsi come tale soluzione appaia coerente e con il principio di offensività, il quale richiede che ogni aggravamento di pena trovi giustificazione in una maggiore offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato, e con quello di materialità, il quale ancora la punizione alla commissione di un fatto percepibile nella realtà esterna, chiudendo le porte al diritto penale d’autore che sembrerebbe fare da sfondo nel precedente arresto.[17]
Chiarito quanto sopra, venendo alla quaestio iuris principale, gli ermellini censurano l’interpretazione soggettivistica della norma in esame ritenendo che essa comporti una interpretatio abrogans dell’art. 84 c.p., non essendo rispettosa del generale principio del ne bis in idem che sta alla base del reato complesso.[18] Per tali ragioni, la corte ritenendo che le condotte ex art. 612- bis c.p. fossero già state oggetto di apprezzamento in altro processo dinanzi alla Corte di Assise di Cosenza e, dunque, assorbite nel delitto di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, n. 5.1 c.p., per il quale il ricorrente è stato condannato con sentenza divenuta definitiva.
Pertanto, nonostante la formulazione infelice della norma, si configuri a tutti gli effetti un reato complesso nel quale l’aggravamento di pena è giustificabile in ragione del maggiore disvalore dell’omicidio che sia preceduto da una persecuzione della vittima.
6. Considerazioni conclusive
I due arresti appena illustrati si pongono in posizioni diametralmente opposte e, pertanto, necessitano dell’intervento chiarificatore dell’organo nomofilattico. Tuttavia, nell’attesa che si pronunci il supremo consesso, non possono nascondersi diverse riserve per la tesi sposata dalla pronuncia del 2019. In particolare, ritenere che il legislatore abbia inteso punire più gravemente un soggetto solo in quanto “stalker” appare porsi in contrasto con diversi principi fondamentali del diritto penale. In primo luogo, i principi di materialità e offensività, i quali impongono di punire un soggetto che ponga in essere una condotta materialmente percepibile sul piano oggettivo e che sia offensiva di un bene giuridico protetto dall’ordinamento. Principi che verrebbero irrimediabilmente lesi da un aggravamento di pena comminato per il sol fatto di aver ricoperto il ruolo di soggetto attivo nel delitto ex art. 612-bis c.p., a prescindere da qualsiasi nesso con la condotta omicidiaria. Ma non solo. Violare i principi di offensività, materialità e, di conseguenza, anche quello di proporzionalità della pena si riverbera direttamente sulla funzione educativa sancita dall’art. 27 cost., la quale verrebbe indubbiamente vanificata da una pena sproporzionata. Per tali ragioni, la soluzione accolta nella pronuncia del 2020 appare maggiormente conforme ai principi costituzionali del nostro diritto penale che è, e deve restare, un diritto penale del fatto.
[1] F. Mantovani, diritto penale, CEDAM 2015, pag. 458-500.
[2] G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale parte generale, settima edizione, Zanichelli Editore, p.695-726, Bologna, 2014
[3] Cfr. art. 61, co. 1, n. 2 c.p. “l’avere commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di un altro reato”.
[4] F. Mantovani, op. cit.
[5] Cfr. M. Santise – F. Zunica, coordinate ermeneutiche di diritto penale, quarta edizione 2018, Giappichelli Editore, Napoli 2018.
[6] F. Mantovani, op. cit.
[7] G. Fiandaca, E. Musco, op. cit.
[8] M. Santise – F. Zunica, op. cit.
[9] F. Mantovani, op. cit.
[10] Cfr. F. Caringella, A. Salerno, A. Trinci, Manuale ragionato di diritto penale parte speciale, pag. 67-68, Dike Giudirica, Roma, Ottobre, 2020.
[11] Cfr. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale parte speciale, volume II, diritto penale parte speciale, quarta edizione, Zanichelli Editore, p. 16, Bologna, 2016.
[12] Cfr. Cassazione penale, sez. I, sentenza n. 20786 del 2019, in motivazione: “La scelta del legislatore di porre l’accento, nella costruzione dell’aggravante in esame, sulla mera identità del soggetto autore sia degli atti persecutori che dell’omicidio e non sulla relazione tra i fatti commessi non può ritenersi frutto di una casuale modalità espressiva, utilizzata, senza una finalità precisa, in luogo di quella del tipo “se il fatto è commesso in connessione o in occasione”. Non può quindi leggersi la disposizione come se avesse voluto dire che il delitto di omicidio è aggravato se commesso contestualmente o in occasione della commissione degli atti persecutori.”
[13] Cfr. Cassazione penale, sez. I, sentenza n. 20786 del 2019, in motivazione: “Deve allora ritenersi che, siccome “nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 c.p., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie” – Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla ed altro, Rv. 269668 -, non si verifica l’assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di omicidio aggravato, in assenza di una qualsivoglia affinità strutturale tra le fattispecie. In senso contrario non depone la clausola di riserva, o di sussidiarietà, espressa in esordio dall’art. 612 bis c.p. con la precisazione del “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, perchè essa, al di là della questione circa una sua reale ed effettiva utilità, non può aver riguardo al rapporto con il delitto di omicidio, la cui natura istantanea lo pone al di fuori dell’area di possibile interferenza con il reato abituale di atti persecutori. 1.5. In questa direzione interpretativa si è già collocata la giurisprudenza di legittimità che, senza particolari argomentazioni, ha ritenuto scontata la conclusione appena prima formulata, stabilendo la procedibilità d’ufficio del “reato di atti persecutori connesso con il delitto di lesioni, anche nel caso in cui la procedibilità d’ufficio di quest’ultimo sia determinata dall’aggravante di cui all’art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, per essere stato commesso il fatto da parte dell’autore del reato di atti persecutori nei confronti della medesima persona offesa” – Sez. 5, n. 11409 del 08/10/2015, dep. 2016, C, Rv. 266341 -. 2. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma per un nuovo esame sul punto relativo al trattamento sanzionatorio, alla luce del principio di diritto per il quale l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1 non assorbe, per difetto di una relazione di specialità tra fattispecie, il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p.”.
[14] Cfr. C. Cataneo, la Cassazione sull’omicidio aggravato dall’essere stato commesso dall’autore di atti persecutori: reato complesso o concorso di reati?, in Riv. Sistemapenale.it ISSN 2704-8098, https://sistemapenale.it/it/scheda/cassazione-20786-2019-omicidio-aggravato-stalker-concorso-reati.
[15] Cfr. J. Palermo, il rapporto tra l’omicidio aggravato commesso dallo stalker nei confronti della stessa persona offesa e il delitto di atti persecutori, in Riv. Camminodiritto. It, ISSN 2532-9871, https://rivista.camminodiritto.it/public/pdfarticoli/6539_3-2021.pdf.
[16] Cfr. S. Bernardi, la Cassazione torna sul rapporto tra l’omicidio aggravato ex art. 576 c..1 n. 5.1 c.p. e il delitto di atti persecutori: escluso (questa volta) il concorso di reati, in riv. Sistemapenale.it, ISSN 2704-8098, https://sistemapenale.it/it/scheda/cassazione-30931-2020-omicidio-aggravato-stalking-concorso-reati.
[17] Cfr. F. Gregorace, il rapport tra lo stalking e l’omicidio aggravato ex art. 576, co.1, n. 5.1 c.p.; reato complesso?, in Riv. SalvisJuribus.it, ISNN 2464-9775, http://www.salvisjuribus.it/il-rapporto-tra-lo-stalking-e-lomicidio-aggravato-ex-art-576-co-1-n-5-1-c-p-reato-complesso/.
[18] Cfr. Cassazione penale, sezione III, sentenza n. 30932 del 2020, in motivazione “la diversa conclusione conduce ad una interpretazione abrogans dell’art. 84, co. 1 cod. pen,, che non appare rispettosa del principio del ne bis in idem sostanziale, posto a fondamento del reato complesso, il quale vieta che uno stesso fatto venga addossato giuridicamente due volte alla stessa persona, nei casi in cui l’applicazione di una sola norma incriminatrice assorba il disvalore del suo intero comportamento. Seguendo la tesi criticata, infatti, gli atti persecutori sono addebitati all’agente due volte: come reato autonomo, ai sensi dell’art. 612-bis cod. pen,, e come specifica circostanza aggravante dell’omicidio, ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1, cod. pen., sebbene il disvalore della condotta sia già integralmente ed adeguatamente considerato da quest’ultima norma, che commina la pena dell’ergastolo.”.
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