Risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo nella giurisprudenza interna e comunitaria
L’ormai assodata qualificazione dell’interesse legittimo come di una situazione giuridica soggettiva suscettibile di piena tutela risarcitoria, oltre che impugnatoria, costituisce il traguardo di un lento e graduale percorso evolutivo che ha animosamente coinvolto, tanto dottrina e giurisprudenza, quanto il legislatore.
Sino ad un passato pressoché prossimo (in particolare, fino all’emanazione da parte del S.U. della sent. 500/1999) la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo era confinata al solo rimedio caducatorio consistente nel mero annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo.A diverse conclusioni non si poteva del resto pervenire giacché la giurisprudenza tradizionale, fortemente permeata di formalismo, concepiva il processo amministrativo come un processo sull’atto, più che sul rapporto intercorrente tra consociato e p.a.Di guisa che ripudiava a quell’originaria impostazione immaginare una qualsivoglia tipologia di tutela la cui finalità esulasse dalla mera eliminazione dal mondo giuridico dell’atto emanato in violazione del dettato normativo.Più in generale, la struttura squisitamente impugnatoria del processo amministrativo costituiva l’approdo necessario di un ragionamento, invalso tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, che tendeva a valorizzare la sola dimensione strumentale dell’interesse legittimo; il che equivaleva a considerare quest’ultimo come una situazione che – a differenza del diritto soggettivo – legittimava il titolare a pretendere che la p.a. agisse conformemente al dettato normativo, del tutto essendo irrilevante per converso l’interesse del titolare al conseguimento dell’utilità finale, o del bene della vita che dir si voglia.
A partire dall’entrata in vigore della Costituzione e dalla conseguente consacrazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale il dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo iniziò a venire gradatamente scalfito. La giurisprudenza tentò, dunque, di elaborare degli escamotages al fine di ammettere a determinate condizioni quella risarcibilità, evitando però che ciò si traducesse in uno stravolgimento della connotazione essenzialmente strumentale dell’interesse legittimo.
Si ammise così in un primo momento la risarcibilità dei soli interessi legittimi oppositivi (tanto di diritti originari quanto di diritti derivati), alla condizione però che venisse previamente annullato il provvedimento amministrativo che aveva ingiustificatamente compresso la sfera giuridica dell’interessato. A ben vedere, quell’annullamento avrebbe determinato, nel caso di interessi oppositivi di diritti originari, una riespansione del diritto ingiustamente affievolito, ovvero, nel caso di interessi oppositivi di diritti derivati, un consolidamento del diritto in capo all’interessato.
Si ammetteva, in sostanza, la risarcibilità di tale categoria di interessi legittimi ricorrendo alla fictio juris di una loro qualificazione come diritti soggettivi perfetti.
La pressione esercitata dal legislatore comunitario – animato dall’esigenza di apprestare adeguata tutela a tutte le situazioni soggettive giuridicamente rilevanti, a prescindere dalla loro formale qualificazione – diede nuova linfa al suddetto percorso evolutivo e sfociò nell’emanazione di un d. lgs. del 1998 con cui veniva assegnata al giudice amministrativo la cognizione di tutte le controversie, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, afferenti a materie di giurisdizione esclusiva. Trattandosi di materie in cui il g.a. conosce indifferentemente di questioni relative tanto a interessi legittimi quanto a diritti soggettivi, diveniva in tal modo irrilevante il problema della annoverabilità della situazione risarcibile nell’una o nell’altra categoria.
Il dogma dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo venne definitivamente scalfito dalla sent. Cass. S. U. 500/1999. La Cassazione, attraverso un’opera di riqualificazione in chiave sostanzialistica della situazione di interesse legittimo e di dilatazione del concetto di “danno ingiusto” rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c. ammise la piena risarcibilità della situazione de qua e ricondusse la relativa responsabilità nell’ambito di quella aquiliana.
Al valore meramente e squisitamente processuale dell’interesse legittimo, quale situazione legittimante la mera proposizione della domanda di annullamento, si aggiunse dunque un valore sostanziale dello stesso che ne consentì la risarcibilità qualora venisse ingiustamente leso l’interesse materiale del titolare al conseguimento di un determinato bene della vita.
Tale insegnamento delle S.U. venne successivamente confermato, dapprima, dalla L. 205/2000, la quale attribuì alla cognizione del g.a. tutte le questioni relative al risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo ivi comprese quelle inerenti alla giurisdizione di legittimità e, successivamente, dagli artt. 7 e 30 del Cod. pr. amm.
Chiarito che la p.a. può essere chiamata a risarcire le conseguenze dannose derivanti dalla lesione di un interesse legittimo e che tale forma di responsabilità è oramai pienamente ricondotta nell’ambito di quella extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., non può tuttavia sottacersi che la connotazione ontologicamente pubblicistica di tale situazione giuridica impone una rielaborazione e un adattamento degli elementi costitutivi di tale forma di responsabilità.
Si allude in primis all’elemento soggettivo della colpa. Soprassedendo da quei minoritari orientamenti della Cass. e del Cons. St. volti a qualificare tale responsabilità come derivante da contratto o da contatto sociale qualificato (il che avrebbe evidentemente reso non necessaria l’individuazione di una colpa in capo alla p.a.), la riconduzione della responsabilità da lesione di interesse legittimo entro gli schemi di quella aquiliana – operata sin dalla sent. S.U. 500/1999 – esige l’accertamento dell’elemento soggettivo, che non può essere considerato in re ipsa nella illegittimità del provvedimento amministrativo. Le S.U. avevano affermato doversi riscontrare la colpa della p.a. ogni qualvolta la stessa avesse violato i “limiti esterni” dell’azione amministrativa, vale a dire i principi di buon andamento e imparzialità ex art. 97 Cost. (la c.d. “colpa di apparato”).
La giurisprudenza successiva, perfezionando tale ragionamento anche alla luce di una interpretazione dell’istituto conforme ai dettami del diritto comunitario, ha optato per una scelta di compromesso che riuscisse a rendere sostenibile per il ricorrente l’onere della prova circa l’elemento soggettivo. Si ricorse, così, ad una inversione dell’onere della prova sul punto, attraverso la previsione di semplificazioni probatorie – tra cui, in primis, l’illegittimità dell’atto amministrativo – che sia atteggiano a presunzioni juris tantum, ovvero che ammettono la prova contraria. Alla p.a., infatti, è riconosciuta la possibilità di provare la sussistenza di un errore scusabile e di andare, di tal via, esente da ogni responsabilità.Di tal via l’illegittimità dell’atto, lungi dall’assurgere a condizione sufficiente affinché possa ritenersi provata la colpa della p.a., costituisce un indizio grave, preciso e concordante che, se corroborato da altri elementi, lascia presumere che la p.a. abbia agito colposamente.Anche laddove operino tali presunzioni di colpa – si torna a ripetere – è comunque concesso alla p.a. di fornire una prova contraria consistente nella scusabilità dell’errore.
Nell’individuare il novero delle situazioni in presenza delle quali possa dirsi scusabile l’errore in cui è incorsa la p.a, il Cons. St. ha tratto spunto dalla giurisprudenza comunitaria. Quest’ultima ha enucleato dei casi tipici in cui la violazione della norma comunitaria non possa considerarsi grave e manifesta; requisito, questo, reputato indispensabile dall’ordinamento comunitario al fine di ritenere integrati gli estremi della responsabilità. Tali casi sono, esemplificativamente, la formulazione non univoca della norma, l’esistenza di contrasti giurisprudenziali o il concorso di colpa del danneggiato.In sostanza, i criteri utilizzati dai giudici comunitari al fine di ritenere grave la violazione normativa sono stati convertiti in negativo dalla nostra giurisprudenza e utilizzati al fine di individuare le ipotesi in cui l’errore della p.a. sia connotato da scusabilità.L’indefettibilità di un accertamento vertente sull’elemento soggettivo viene eccezionalmente meno laddove la controversia inerisca alla materia dei contratti pubblici di rilevanza comunitaria.Dal combinato disposto di cui agli artt. 121 e 124 c.p.a. si evince la possibilità che al pur definitivo annullamento della aggiudicazione non segua la dichiarazione di inefficacia del contratto in forza di quella stipulato e, di tal via, l’accoglimento della domanda di conseguire l’aggiudicazione.Al di fuori dei casi tassativi di cui all’art. 121 c.p.a, la scelta se dichiarare inefficace il contratto è infatti rimessa alla discrezionalità del giudice affinché questi, operando un bilanciamento tra i vari interessi in gioco, pervenga ad una quanto più equa decisione. Laddove non venga dichiarata tale inefficacia, in ogni caso è riconosciuto al ricorrente il risarcimento del danno per equivalente. I giudici comunitari, facendo emergere la valenza meramente succedanea di tale rimedio per equivalente rispetto a quello in forma specifica consistente nell’accoglimento della domanda, hanno affermato che la fruibilità di tale rimedio non può essere subordinata all’accertamento di elementi ulteriori a quelli previsti per ottenere la tutela in forma specifica. La tutela per equivalente avrebbe, infatti, in tal caso un funzione riparatorio-compensativa, più che retributiva. Donde la non necessità della prova dell’elemento psicologico.
La valorizzazione della componente sostanziale dell’interesse legittimo (inteso come aspirazione al conseguimento di un bene della vita) nonché la riconduzione della responsabilità della p.a. entro gli schemi dell’art. 2043 c.c., impongono di annoverare tra gli elementi costitutivi dell’illecito il requisito del danno ingiusto.
L’emersione di quella dimensione sostanziale impone, a ben vedere, di recidere il rapporto di stretta correlazione che in passato si professava sussistere tra la illegittimità del provvedimento e la illiceità del comportamento della p.a.; di guisa che, deve ritenersi non sufficiente la mera illegittimità del provvedimento al fine di affermare la risarcibilità dell’interesse legittimo.Se quest’ultimo si qualifica per l’aspirazione del soggetto a conseguire una determinata utilità finale, è evidente come la sua risarcibilità debba essere ammessa solo laddove, in conseguenza di una condotta illecita della p.a., venga effettivamente e ingiustificatamente lesa quella aspirazione.Del medesimo avviso non è quella parte minoritaria della Cassazione che, valorizzando la dimensione strumentale dell’interesse legittimo, ritiene doversi ammettere la sua risarcibilità per il solo fatto che il provvedimento emanato presenti un vizio di legittimità. Secondo tale orientamento, il pretendere la prova di un danno ingiusto che non si consideri in re ipsa nella illegittimità dell’atto equivarrebbe ad apporre ingiustificatamente una barriera contenitiva alla risarcibilità dell’interesse legittimo.
Chiarito che un danno ingiusto deve necessariamente riscontrarsi, occorre adesso delineare le modalità del relativo accertamento. Esse si modulano differentemente a seconda che l’interesse legittimo di cui si lamenta la lesione sia tipo oppositivo ovvero pretensivo.
Gli interessi oppositivi si sostanziano nella pretesa del soggetto a che si rimuova dal mondo giuridico il provvedimento che comprime un suo bene della vita; bene della vita che preesiste al provvedimento stesso. Proprio in virtù di tale preesistenza, la giurisprudenza aveva in un primo tempo ritenuto che dalla illegittimità dell’atto derivasse automaticamente un sacrificio dell’interesse alla conservazione del bene della vita e, dunque, la produzione di un danno ingiusto.
La sempre più avvertita esigenza di valorizzare il substrato sostanziale dell’interesse legittimo ha progressivamente indotto il Cons. St. a mitigare l’assolutezza di quella impostazione.Si procedette, così, dapprima ad escludere quell’automatismo laddove l’atto fosse inficiato da vizi solo formali. Il riesercizio del potere da parte della p.a., conseguente all’annullamento di un siffatto provvedimento, impone alla p.a. solo l’obbligo di emanare un atto depurato da quei vizi formali che ne avevano determinato l’annullamento e non anche quello di attribuire al ricorrente la pretesa sostanziale. Ne consegue che un danno ingiusto potrà in tal caso tutt’al più valutarsi solo in seguito alla nuova manifestazione de potere.Un recente arresto giurisprudenziale ha chiarito che, laddove non si pretendesse in ogni caso l’accertamento di un danno ingiusto derivante da lesione di interessi oppositivi, si determinerebbe una iperprotezione degli stessi e si rischierebbe di apprestare tutela risarcitoria anche a quelle situazioni nelle quali il bene della vita di cui si chiede il ristoro sia stato originariamente conseguito contra ius.
Passando alle modalità di accertamento degli interessi legittimi pretensivi, occorre innanzitutto chiarire che essi si sostanziano nell’aspirazione del soggetto ad ottenere un provvedimento che ampli la propria sfera giuridica. In tal caso, dunque, per definizione il bene della vita non preesiste al provvedimento; anzi, quest’ultimo costituisce proprio la fonte da cui il bene della vita stesso promana.Dunque, la valutazione circa la sussistenza di un danno ingiusto non può che essere rimessa alla conduzione di un giudizio prognostico volto ad accertare se, sulla base della normativa applicabile al caso concreto, l’istanza del soggetto – volta all’ottenimento di un provvedimento ampliativo – aveva ragionevoli probabilità di trovare accoglimento e non si atteggiava invece a mera aspettativa giuridicamente irrilevante.È facile intuire come tale giudizio prognostico sia agevolmente espletabile laddove si tratti di attività vincolata, dal momento che in tal caso il giudice – ovviamente ai soli fini risarcitori – deve limitarsi ad accertare se sussistano o meno i presupposti di legge per ottenere quel determinato provvedimento ampliativo.La questione diviene più complessa laddove il giudizio prognostico si innesti su materie rientranti nella discrezionalità tecnica (la quale, sebbene sia stata oggi sganciata dal merito amministrativo, presuppone comunque l’espletamento di una complessa attività istruttoria condotta alla stregua di regole non giuridiche) e, a maggior ragione, nella pura discrezionalità amministrativa.
Al fine di individuare i presupposti in presenza dei quali possa dirsi sussistente in tali casi un danno ingiusto si sono in passato contrapposti due diversi orientamenti. Quello più restrittivo professava che tale valutazione non potesse essere effettuata se non dopo che la p.a. avesse riesercitato il potere ed attribuito al soggetto il bene della vita da questi agognato. Secondo la tesi meno restrittiva doveva ritenersi ammissibile l’immediato esperimento dell’azione risarcitoria dal momento che, già in quella sede, la p.a. avrebbe potuto e dovuto esplicitare i presunti motivi di diniego dell’istanza. Ebbene, ove tali motivi non fossero stati ritenuti validi da parte del giudice, questi avrebbe dovuto definire positivamente il giudizio prognostico.
La giurisprudenza ha successivamente affrontato il problema della individuazione del danno ingiusto derivante da lesione di interessi legittimi pretensivi mutuando la disciplina civilistica del danno da perdita di chances e utilizzando le modalità di valutazione di quest’ultimo per la conduzione del giudizio prognostico. La chance, che è un danno attuale ascritto alla voce di danno emergente, consiste nella probabilità di soddisfacimento di una pretesa sostanziale.
Dunque, il giudizio prognostico dovrà avere un esito positivo laddove, sulla base delle circostanze del caso concreto, si possa ragionevolmente affermare che sussistessero consistenti probabilità di accoglimento della pretesa del soggetto.
Secondo prevalente giurisprudenza, non è strettamente indispensabile il raggiungimento di una percentuale di probabilità di accoglimento superiore al 50%, laddove le concrete caratteristiche della vicenda inducano comunque a propendere per l’esito positivo del giudizio.
Ovviamente, se in caso di attività vincolata e di attività tecnico-discrezionale il g.a. può effettuare un preciso calcolo percentuale, lo stesso non può dirsi riguardo le ipotesi di attività discrezionale pura. In tal caso, il giudizio prognostico dovrà avere un esito favorevole, con conseguente affermazione della sussistenza di un danno ingiusto, laddove l’affidamento del soggetto circa il conseguimento del bene della vita fosse stato ingenerato da un complesso di situazioni potenzialmente idonee all’ottenimento di quella utilità.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Giulia Polizzi
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