Rischio e differenti generi di danno negli ambienti di lavoro
di Ciro Punzo[1], Francesca Di Santo[2], Rocco Antonio Albanese[3]
Sommario: 1. Lo speciale regime di responsabilità: il principio del parziale esonero – 1.1. Il rischio professionale – 1.2. L’art. 10 del d.P.R. 30/06/1965 n. 1124 – 2. Il danno – 2.1. Danno risarcibile – 2.1.1. Danno patrimoniale – 2.1.2. Danno morale – 2.1.3. Danno biologico – 2.1.4. Danno esistenziale – 2.2. L’assicurazione obbligatoria: oggetto e prestazioni – 2.2.1. Infortunio professionale – 2.2.2. Malattia professionale – 3. Le azioni di risarcimento – 3.1. Le azioni di rivalsa dell’INAIL: regresso e surroga – 3.1.1. La surroga – 3.1.2. L’autotutela – 3.1.3. L’azione di risarcimento verso il responsabile civile
Il presente lavoro mira ad analizzare nello specifico gli istituti del danno e dell’infortunio negli ambienti di lavoro.
1. Lo speciale regime di responsabilità: il principio del parziale esonero
1.1. Il rischio professionale
Verso la fine del 1800 il grande sviluppo del settore industriale produsse, accanto ad un forte sviluppo economico, un consistente aumento del fenomeno infortunistico, con conseguenze sociali di altissimo rilievo. La situazione, di grande drammaticità, costrinse l’intera collettività a confrontarsi con il problema inerente il risarcimento dovuto agli infortunati o ai loro superstiti, acquisendo la consapevolezza che si rendeva necessaria una particolare protezione verso i soggetti colpiti (all’epoca chi subiva un infortunio sul lavoro veniva aiutato, alla stregua di tutti gli altri indigenti, dagli istituti di assistenza e beneficenza).La dottrina e la giurisprudenza, in applicazione alle disposizioni comuni previste agli artt. 1151 e seguenti del vigente codice civile del 1865, ricondussero inizialmente il fondamento dell’indennizzabilità degli infortuni ad una responsabilità extra contrattuale. L’infortunio sul lavoro era considerato un illecito comune, sottoposto pertanto alle generali regole in ordine all’onere della prova: il soggetto leso era tenuto a dimostrare la colpevolezza del datore di lavoro (o di terzi) nel determinismo dell’evento e rimaneva privo di qualsiasi riparazione tutte le volte in cui l’evento dannoso fosse imputabile al soggetto stesso o a forza maggiore[4]
Come intuibile, l’inadeguatezza della tutela offerta al lavoratore – derivante essenzialmente dalle esigue possibilità di accertare la responsabilità datoriale (anche in assenza di norme specifiche per la prevenzione degli infortuni), dai lunghi tempi processuali e dalle forti implicazioni psicologiche della lite si palesò rapidamente – e, con il costante sviluppo del settore industriale, parte della dottrina si avviò verso un’interpretazione di segno opposto, individuando nella responsabilità contrattuale il fondamento del risarcimento al prestatore d’opera, con una totale inversione dell’onere della prova, stavolta a carico del datore di lavoro.
Nonostante l’attribuzione di questa responsabilità “aggravata”, va osservato che, qualora il datore di lavoro avesse dimostrato l’utilizzo dell’ordinaria diligenza al fine di evitare il danno, sarebbe stato considerato non responsabile dell’evento lesivo, con conseguente inefficacia dell’azione promossa dal lavoratore.
Ci si rese tuttavia conto che anche quest’interpretazione, peraltro non condivisa da molte parti, – soprattutto in virtù del fatto che, nel completo silenzio della legge non potesse desumersi a carico del datore di lavoro un’obbligazione di protezione e sicurezza – non era di per sé sufficiente a tutelare l’alto numero di soggetti infortunatisi in occasione di lavoro. Si fece strada la convinzione che gli infortuni, se considerati nel loro complesso, apparivano non più imprevedibili, ma come accessori inevitabili e ricorrenti, individuando un vero e proprio rischio professionale.
Nell’ambito della dottrina venne pertanto sempre maggiormente in considerazione l’idea che “l’imprenditore, il quale spera di ricavare lucro dall’azione combinata di tutti gli strumenti necessari per la produzione, debba anche sopportare i rischi per i danni che fortuitamente, in causa o occasione dell’industria, possa colpire quegli elementi”[5].
Si aprì dunque un importante dibattito che portò all’emanazione della legge 17/03/1898 n. 80, che tradusse il principio del rischio professionale in una forma transattiva, costituendo la prima legge di tipo “sociale” del nostro ordinamento, non solo per i suoi contenuti, ma anche per la sua forma.
Il contenuto del compromesso elaborato in dottrina venne dunque tradotto in legge, divenendo applicabile nei confronti di alcuni soggetti (la tutela non si estese a tutti gli operai, ma solo a coloro che erano addetti ad attività industriali ritenute particolarmente pericolose sia per la loro natura intrinseca che per l’utilizzo di macchine “mosse da agenti inanimati o da animali”), che venivano finalmente indennizzati anche per gli infortuni che fossero derivati da forza maggiore, caso fortuito o dalla stessa colpa del lavoratore, fattispecie sino ad allora completamente escluse dalla tutela (tale indennizzo era tuttavia determinato in forma prestabilita, normalmente inferiore al risarcimento che sarebbe spettato secondo i comuni criteri civilistici) .
Dal canto suo il datore di lavoro traeva un indubbio vantaggio poiché, accollandosi il pagamento del premio assicurativo, si liberava di qualsiasi responsabilità nei confronti dell’operaio.
L’attuazione del principio del rischio professionale presentava un carattere di forte originalità, disciplinando la tutela infortunistica in modo del tutto differente da quanto avvenisse per le altre assicurazioni sociali, poichè teneva in considerazione soprattutto il nesso eziologico al lavoro ed il suo complesso e peculiare determinismo.
Si era dunque, seppur con una soluzione compromissoria, riusciti a coniugare l’esigenza di garantire la tutela infortunistica (evitando il rigoroso sistema probatorio prima in capo al prestatore d’opera) e l’esonero, seppur entro determinati limiti, del datore di lavoro dalla responsabilità civile.
Rimanevano a questo punto privi di tutela gli infortunati nel solo caso in cui, in mancanza di regolare copertura assicurativa, il datore di lavoro risultasse insolvibile.
Tale lacuna venne sanata dal Regio Decreto 17/8/1935 n. 1765, con l’affidamento delle funzioni assicurative ad un ente di diritto pubblico e con l’introduzione dell’automatismo assicurativo, grazie al quale anche qualora la procedura amministrativa non fosse stata regolarmente avviata, il lavoratore avrebbe comunque potuto fruire, in tutta la loro portata, delle prestazioni previste per legge.
Al regime di eccezione che, rispetto al diritto comune, era disposto in favore del datore di lavoro, vennero apportate critiche dopo l’emanazione del codice civile del 1942 ed una parte della dottrina ritenne che l’art. 2087 C.C., con il suo ampio respiro, avesse abrogato l’art. 4 del R.D. 1765/19635, posizione che venne respinta dalla giurisprudenza e dalla dottrina dominante.
1.2. L’art. 10 del d.P.R. 30/06/1965 n. 1124
Il D.P.R. 1124 del 30/06/1965 (TU delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali) accolse tutti questi principi e sviluppò ulteriormente l’automatismo assicurativo, garantendo al lavoratore infortunato un indennizzo da parte dell’ente pubblico sul presupposto oggettivo di un rapporto di lavoro, indipendentemente dall’avvenuto adempimento da parte del datore di lavoro.
Anche dopo l’approvazione di tale legge, vennero ribaditi alcuni dubbi sulla costituzionalità di tale automatismo, rilevando un’ipotesi di illegittimità costituzionale del sistema indennitario ove, non sottoponendo il datore di lavoro alle comuni disposizioni in materia di responsabilità civile, si sarebbe sottratto al lavoratore infortunato il diritto al risarcimento del danno.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 9/3/1967 n. 22 ritenne non fondata la questione in riferimento agli invocati artt. 3, 35 e 38 della Costituzione, argomentando che la peculiarità del sistema assicurativo garantisce al lavoratore infortunato una tutela “più ampia di quella consentita dal diritto comune, indennizzandolo per il danno professionale subito anche nelle ipotesi di caso fortuito o colpa”. La Corte ritenne invece costituzionalmente illegittimi:
l’art. 4 3° comma dell’art. 4 RD 1765/1935, nella parte in cui limitava la responsabilità datoriale al solo fatto commesso dai dirigenti e dai preposti e non anche dagli altri dipendenti del cui fatto dovesse rispondere, ai sensi dell’art. 2049 Civ.;
l’art. 4 comma 5° nella parte in cui consentiva al giudice civile di accertare che il fatto che aveva cagionato l’infortunio costituiva reato soltanto nelle ipotesi di estinzione dell’azione penale per morte dell’imputato o per amnistia, senza considerare quella di prescrizione del reato (che opera con la stessa efficacia delle altre ipotesi invece espressamente considerate);
l’art. 10 T.U. 1124/1965, comma 3° e 5°, poiché riproducevano integralmente le due ipotesi sopra La Giurisprudenza costante, uniformandosi a tale criterio, ha pertanto ridisegnato la sfera di applicazione della regola del parziale esonero, per cui si è in presenza di una responsabilità civile del datore di lavoro non solo quando sussista, in ordine al fatto che ha dato luogo all’infortunio, “la responsabilità penale di lui o di persona che egli abbia incaricato della direzione o della sorveglianza del lavoro, ma anche quando una responsabilità penale venga accertata a carico di un altro suo dipendente, del cui fatto egli debba rispondere secondo le norme del Codice civile (artt. 2043 e seguenti c.c.)”.
Tale ampliamento comporta, in sé, una corrispondente estensione del diritto di regresso dell’istituto assicuratore, del quale la responsabilità civile costituisce un presupposto.
Il citato articolo 10 è stato oggetto di altre due importanti pronunce della Corte Costituzionale, la quale
con sentenza 102 del 29/4/1981 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 5° della disposizione nella parte in cui non consente che l’accertamento del fatto-reato possa essere svolto dal giudice civile anche nei casi in cui il procedimento penale si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia procedimento di archiviazione (la pronuncia aveva per oggetto l’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL, che era stato precluso);
con sentenza 118 del 24/4/1986, riaffermando il contenuto della sentenza 102, ha stabilito che l’accertamento della responsabilità civile in seguito ad infortunio sul lavoro deve seguire gli stessi criteri, tanto per l’INAIL, quanto per l’infortunato stesso. L’accertamento del fatto-reato può essere oggetto di giudizio civile anche nei casi in cui, non essendo stata promossa l’azione penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, vi sia procedimento di archiviazione e quando il procedimento penale nei confronti del datore o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede.
L’intero quadro di questi rapporti è stato modificato dalla Corte Costituzionale e riadattato dal c.p.p., che ha superato il principio della pregiudizialità penale, accentuando la differenza tra i due procedimenti.
Secondo il 5° comma dell’art. 10 TU, è dunque il giudice civile, su domanda proposta a pena di decadenza dagli interessati entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza penale, a decidere se, per il fatto che avrebbe costituito reato, sussiste responsabilità civile a carico del datore di lavoro. Il giudice civile dovrà pertanto accertare: se il fatto da cui è derivato l’infortunio costituisca un reato perseguibile d’ufficio, se per tale reato si sarebbe dovuta emettere sentenza penale di condanna ove non fossero intervenute le ipotesi di amnistia, morte dell’imputato.
Nell’effettuare tale accertamento il giudice dovrà attenersi al principio della causalità materiale (art. 40 c.p. e 41 c.p. nell’ipotesi di concause) disciplinato nel codice penale. Passando ora ad esaminare, in relazione all’indennizzo spettante al lavoratore, i comportamenti del datore di lavoro (o di un terzo) che abbiano avuto un’efficacia causale rispetto all’infortunio, va osservato come, più volte evidenziato, che l’art. 10 del TU riafferma il principio del parziale esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile conseguente agli infortuni dei propri dipendenti.
Si tratta di una norma speciale ed in quanto tale non suscettibile di estensione analogica. Non è dunque applicabile nei confronti di un terzo responsabile ed è invocabile dal datore di lavoro (compresa la Pubblica Amministrazione), per il sopra espresso automatismo, anche qualora questi non abbia provveduto a regolare il premio assicurativo.
Va in ultimo rilevato che il parziale esonero dalla responsabilità civile opera erga omnes e non soltanto nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro. Ne consegue “che il terzo corresponsabile dell’infortunio non può agire in rivalsa contro il datore di lavoro per la quota di responsabilità di questi; al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 10 T.U. manca, infatti, il titolo della responsabilità civile del datore di lavoro e quindi anche della sua corresponsabilità ex art. 2055 c.c.”.
Si può quindi concludere, come autorevolmente affermato, che il meccanismo presuntivo derivante dal combinato disposto degli artt. 2087 e 1218 c.c. (giusta il quale incombe al datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie, secondo l’esperienza e la tecnica, ad evitare l’evento dannoso) può, dunque, operare solo al di fuori dell’ambito di applicazione della garanzia assicurativo sociale e, quindi, della regola di cui all’art. 10 TU la quale subordina, appunto, il riconoscimento della responsabilità civile del datore all’accertamento – in sede penale o, eventualmente, di una colpa in ogni caso effettiva.
2. Il danno
Nell’ambito di applicazione dell’art. 10 del TU, perchè possa darsi luogo ad un risarcimento, è necessario che il giudice adito riconosca che l’entità del danno subito dal lavoratore, a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale, corrisponda ad un importo superiore a quanto già indennizzato dall’INAIL.
Al fine dunque di determinare in cosa consiste questo danno “differenziale”, è opportuno identificare, seppure in estrema sintesi – come imposto dalla trattazione in questa sede – la composizione del danno il cui ristoro compete al lavoratore infortunato e quali siano le prestazioni erogate dall’INAIL.
2.1. Danno risarcibile
Il codice civile aveva racchiuso il concetto di danno risarcibile nella dicotomia disciplinata agli articoli 2043 e 2059 c.c., le cui previsioni individuavano rispettivamente il danno patrimoniale ed il danno morale.
2.1.1. Danno patrimoniale
E’ identificabile in un pregiudizio di carattere meramente economico, che può distinguersi, a seconda della relazione, diretta o indiretta con l’evento, in danno emergente (perdita di reddito ed esborso di somme) e lucro cessante (perdita di un futuro vantaggio).
Mentre il danno emergente deve essere liquidato secondo l’equo apprezzamento del giudice, ex art. 2056, il lucro cessante è da quantificarsi ex art. 1223 c.c. secondo le circostanze del caso.
Per lungo tempo il risarcimento del danno alla persona veniva in considerazione per la sola patrimonialità delle conseguenze e pertanto valutato secondo il concetto astratto di “capacità lavorativa generica”, cioè in relazione alla perdita, causata dalla lesione subita, di una generica capacità di produrre reddito. Venivano così risarciti tutti quei pregiudizi che diminuivano il valore della persona senza tuttavia intaccarne il reddito e, proprio per tale motivo, ne erano destinatari tutti i soggetti, indipendentemente dallo svolgimento di un’attività lavorativa in senso proprio (studenti, casalinghe, ecc.).
Per la liquidazione di tale danno il giudice poteva procedere all’assegnazione di una somma, alla determinazione di una rendita o ad una capitalizzazione del mancato guadagno in relazione alla presunta durata della vita lavorativa.
La prassi che andò tuttavia consolidandosi utilizzava il metodo della capitalizzazione anticipata. Ipotizzando che la percentuale di invalidità accertata si ripercuotesse in egual misura sulla generica capacità lavorativa si procedeva alla valutazione del futuro pregiudizio attraverso un calcolo che teneva in considerazione il guadagno, la percentuale di menomazione e l’età. Tale quantificazione non poteva tuttavia ipotizzarsi come equa, risarcendo allo stesso modo anche soggetti che, in concreto, non avevano subito lo stesso pregiudizio.
2.1.2. Danno morale
L’art. 2059 c.c. venne considerato, dalla sua introduzione, come norma legittimante il riconoscimento del solo danno morale soggettivo, cioè di quel patema d’animo e quella sofferenza di origine psichico che il leso è costretto a sopportare in conseguenza dell’illecito. Il risarcimento veniva infatti qualificato come pretium doloris e veniva inscidibilmente collegato all’art.185 c.p., limitandone quindi il riconoscimento alle sole ipotesi di fatto-reato indipendentemente dalla componente volontaria dell’azione e dall’esistenza di una condanna penale. La previsione di una condanna al pagamento di una somma era riconducibile, nelle intenzioni del legislatore, alla volontà di rafforzare la sanzione principale.
Titolari del diritto al risarcimento del danno morale sono il danneggiato stesso ed i suoi familiari, iure proprio , mentre i legittimati passivi sono, in solido, l’autore dell’illecito ed il responsabile civile (nel caso di sinistro stradale, ad esempio, il conducente, il proprietario del veicolo e l’assicuratore).
Il danneggiato non è tenuto a quantificare il pregiudizio arrecatogli ma gli sarà sufficiente, ai fini risarcitori, dare prova del fatto che ha prodotto le lesioni.
A seguito di alcune importanti sentenze della Corte di Cassazione risalenti al 2003, al danneggiato è stato inoltre riconosciuto il diritto al riconoscimento del danno morale anche qualora si fosse in presenza di una mera presunzione di colpa (es. art. 2054 2° comma). Tale orientamento è stato avallato dalla Corte Costituzionale che con la sentenza 11.7.2003 n. 233, ha ricompreso “la fattispecie corrispondente nella sua oggettività all’astratta previsione di una figura di reato, con la conseguente possibilità che, ai fini civili, la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge”
Il giudice civile può autonomamente procedere al riconoscimento ed alla successiva liquidazione del danno morale, ma l’accertamento del fatto è imprescindibile e va attuato secondo i criteri che governano il procedimento penale. La liquidazione del danno morale compete al giudice e viene affidata alla sua concreta valutazione; potrà, ai fini della quantificazione, utilizzare criteri “tabellati” (normalmente ancorati ad una frazione del danno biologico – da ¼ ad ½ a seconda della gravità del caso), ma dovrà apportare i correttivi necessari a valorizzare la specificità del caso.
Diverso dal danno morale è il danno psichico, vera e propria malattia (ed in quanto tale componente autonoma del danno alla salute) che consiste nella rinuncia ad attività esistenziali ed è accertabile solo attraverso un giudizio medico legale.
2.1.3. Danno biologico
In antitesi al vecchio sistema risarcitorio previsto dal nostro codice, la giurisprudenza di merito avvertì l’esigenza di valutare il soggetto leso nella totalità della sua persona e non solo per la sua capacità economica e, in conseguenza, vennero in considerazione altri elementi che connotavano il danno realmente subito. A partire dal 1974 si individuò un tertium genus, che traeva la sua origine dall’art. 32 Cost. ed è identificabile con l’integrità psico-fisica di per sé considerata, la cui lesione è comune ad ogni soggetto e va indennizzata in modo equanime, rapportando l’entità del danno ad un parametro uniforme.
L’ipotesi del c.d. tertium genus venne presto abbandonata e l’obbligo del risarcimento del danno biologico venne ricondotto al vasto contenuto dell’art. 2043 c.c., che contempla l’obbligo generale di risarcimento del danno ingiusto, cioè della lesione di un interesse giuridicamente tutelato. La rinnovata interpretazione si fondava sull’immediata precettività dei diritti primari ed assoluti – quali il diritto alla salute – nell’ambito dei rapporti intersoggettivi, così come confermato dalla stessa Corte Costituzionale.
Parte della magistratura riteneva tuttavia che sussistesse comunque un dubbio di costituzionalità, ex art. 2059 c.c., considerando come tale norma potesse comunque limitare la già affermata posizione soggettiva direttamente tutelata dalla Costituzione.
La corte Costituzionale, con la sentenza 14/7/1986 n. 184, dichiarò infondata la questione, riconducendo la risarcibilità del danno biologico al combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c..
La motivazione della sentenza era assai articolata e, in sintesi, si affermava che l’art. 2059 c.c. è da riferirsi al solo danno morale soggettivo, mentre l’art. 2043 c.c. è da considerarsi come rappresentazione di una sanzione per chi provoca ad altri un danno ingiusto, ma giacchè non indica espressamente le ipotesi in cui ciò si verifica, affinché queste possano esplicitarsi, dovrà essere fatto riferimento ai diritti soggettivi inviolabili che la Carta Costituzionale individua. Veniva quindi effettuata un’importante distinzione tra il “danno evento”, identificato nel danno biologico, in quanto indipendente dagli arrecati pregiudizi patrimoniali e morali, questi ultimi identificati invece come “danni conseguenze”, dal carattere eventuale ed esterni al fatto illecito.
Dopo tale pronuncia la Corte Costituzionale continuò a valorizzare la sussistenza e l’importanza del danno biologico, seppure con modalità non del tutto lineari, così riassumibili: “ con la sentenza del 1979 la fonte di tutela della salute è ravvisata nell’art. 2059 c.c., nel 1986, per evitare l’abbattimento di tale norma, il risarcimento del danno biologico è affidato all’art. 2043 c.c. combinato con l’art. 32 Cost.; infine nel 1994 e 1996 si adotta un sistema misto, con riferimento all’ipotesi di danno biologico per il decesso del congiunto”.
Tali pronunce in realtà non fecero che confermare la tendenza espressa dalla S.C., ormai orientata verso la risarcibilità del danno biologico come componente del “danno ingiusto”di cui all’art. 2043 c.c.
In un primo momento, sull’esempio della scuola genovese, il danno biologico veniva calcolato utilizzando quale parametro il triplo della pensione sociale, ma ben presto si ritenne questo metodo incongruo poiché, come evidenziato dalla S. C., esso assumeva comunque come parametro un reddito, impedendo una personalizzazione del risarcimento. L’evoluzione di tale orientamento portò all’elaborazione delle tabelle di Pisa e quindi di quelle di Milano che adottarono il criterio del cosiddetto “punto variabile”. La liquidazione del danno assumeva quale base la media del valore risarcito nei procedimenti giudiziari del distretto, rettificato secondo criteri stabiliti non solo in base al sesso ed all’età, ma anche in relazione all’accertato grado di invalidità permanente residuato. Il valore del punto si modifica, dunque, in misura più che proporzionale all’aggravarsi della lesione, mentre diminuisce in misura proporzionale all’età del soggetto. L’importo ottenuto poteva poi essere dal giudice equitativamente aumentato, in considerazione della specificità del caso.
Conformandosi pienamente alle indicazioni della Consulta, il metodo del punto variabile venne adottato in modo pressoché uniforme dalla magistratura.
Va tuttavia rilevato che il principio innovatore di un’autonoma categoria di danno, che andava a risarcire il pregiudizio indipendentemente dalla condizione sociale o dalla capacità produttiva del singolo, si scontrò con la sua concreta applicazione, a causa degli innumerevoli criteri valutativi che i vari tribunali elaborarono e che, ben presto, produssero risultati di assoluta disuguaglianza.
Sebbene la necessità di fornire regole comuni alla determinazione del danno biologico sia assai sentita, il legislatore non ha ancora provveduto ad una disciplina organica sul danno biologico, realizzando solo alcuni interventi in settori specifici.
L’art. 13 del D. Lgs. 38/2000, di cui si parlerà più diffusamente nel seguito, fornisce la prima definizione del danno biologico: “In attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente articolo definisce, in via sperimentale, ai fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come la lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”, mentre il D.L. 28/3/2000 n. 70 (disposizioni urgenti per il contenimento delle spinte inflazionistiche) non convertito in legge e con la successiva legge 5/3/2001 n. 57 che riprende buona parte del suo contenuto, fornisce, all’art. 5, una definizione assai simile: “.. lesione dell’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico legale, il danno biologico è risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato”. (unica differenza è ravvisabile nella valutazione, piuttosto che nell’accertamento medico legale).
Al fine di raggiungere l’auspicata valorizzazione soggettiva, viene introdotta la possibilità per il giudice di deliberare un aumento non superiore ad un quinto, “con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato”.
L’operatività della disposizione è limitata al settore dell’assicurazione obbligatoria RCA ed ha per oggetto, oltre alla inabilità temporanea, le sole cosiddette micropermanenti, ossia le invalidità permanenti accertate in misura inferiore al 9%.
Qualora l’entità della lesione superi tale soglia, in attesa dell’elaborazione della tabella prevista dall’art. 32 della legge 273/2002, ci si continuerà ad affidare alla comune prassi giudiziaria.
2.1.4. Danno esistenziale
Mentre l’introduzione del concetto di danno biologico ha consentito di superare la dicotomia tra danno patrimoniale e danno morale, l’evoluzione giurisprudenziale del concetto di danno ha condotto, negli anni, all’individuazione di nuove tipologie di pregiudizi per la persona che necessitavano di tutela.
La genesi di tale processo è da far risalire alla storica sentenza della Corte Costituzionale 17/7/1986 n. 184 con la quale, al fine di consentire una piena tutela del diritto alla salute evitando le “strettoie” previste dall’art. 2059 cod. civ., si confermò il principio di stretto collegamento tra l’art. 2043 cod. civ. e l’art. 32 della Costituzione.
Estendendo le ipotesi del realizzarsi del danno non patrimoniale, venne gradualmente identificato il pregiudizio identificato come danno esistenziale, risarcibile secondo la giurisprudenza di merito, in base al combinato disposto dell’art. 2043 cod. civ. e articoli 2 e 29 della Costituzione, applicando il medesimo procedimento giuridico a suo tempo utilizzato per riconoscere l’esistenza del danno biologico.
Nella sfera del danno esistenziale vanno contemplati tutti i casi che non possano ricondursi alle fattispecie del danno biologico (inteso come lesione psico-fisica oggetto di accertamento medico legale), del danno morale (pretium doloris) e del danno patrimoniale, che si concretizzano, in definitiva “nella perdita di un’attività dell’esistenza rappresentativa di un interesse tutelato dall’ordinamento, la cui lesione crea un danno ingiusto e quindi risarcibile, per l’art. 2043 cod. civ.”
Questa nuova figura riassumerebbe dunque in sé tutti i pregiudizi ulteriori rispetto al danno biologico e morale, prevedendo ciò che il nostro ordinamento di fatto non contempla, cioè la risarcibilità, in senso generale, di qualsivoglia pregiudizio di carattere non patrimoniale. Come intuibile, l’accoglimento senza riserve di tale orientamento condurrebbe ad un coacervo di situazioni non direttamente connesse all’ambito normativo.
La Corte di Cassazione, recepito il rischio di questa indeterminatezza e la spinta ad un’esasperata risarcibilità, ha puntualizzato la necessità di accertare, in concreto, se la persona abbia subito un danno a causa di un comportamento incidente su diritti inviolabili ( ed in quanto tali ben specificati nell’ambito del nostro ordinamento).
Ma, mentre le sentenze della Cassazione non nominano esplicitamente la figura di danno in oggetto, la Consulta, con la sentenza 223 del 2003, “rileggendo” l’art. 2059 cod. civ., vi ricomprende ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione di valori inerenti alla persona, riferendosi tanto al danno biologico in senso stretto quanto al “danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.
Come autorevolmente osservato, la corretta identificazione degli interessi di rango costituzionale assume dunque un ruolo di assoluta centralità, poiché “il rischio, assai concreto, è infatti quello di una costituzionalizzazione strisciante ed indiscriminata di ogni aspetto della personalità sotto il comodo riparo offerto dalla previsione contenuta nell’art. 2 Costituzione, specie se intesa come norma aperta”.
Correttamente, dunque, il danno esistenziale può essere definito come un “danno di carattere non patrimoniale e che attinge a beni ed interessi costituzionalmente tutelati, inerenti l’esistenza dei singoli e la qualità alla vita o comportanti la lesione di vari beni immateriali”.
2.2. L’assicurazione obbligatoria: oggetto e prestazioni
L’ente pubblico è stato chiamato a svolgere nel nostro ordinamento una funzione indennitaria, che “rappresenta, come è noto, l’eliminazione del danno, non il risarcimento di esso in senso tecnico” nei confronti di tutti quei lavoratori che abbiano subito un infortunio sul lavoro o abbiano contratto un malattia professionale.
Oggetto della copertura assicurativa è la tutela degli infortuni e delle malattie professionali.
2.2.1. Infortunio professionale
L’art. 2 T.U. 1124/1965 offre una definizione di infortunio professionale, qualificando come tale l’infortunio “avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni”.
I requisiti essenziali affinché all’evento possa conseguire un indennizzo da parte dell’assicuratore sociale sono dunque rappresentati dall’esistenza di una lesione, dalla causa violenta e dall’occasione di lavoro. Più precisamente:
per lesione deve intendersi ogni alterazione, sia esterna che interna, apparente o no, anatomica o funzionale, sofferta dall’organismo fisio-psichico del lavoratore;
per causa violenta veniva inizialmente inteso qualunque fattore esterno che in modo subitaneo, concentrato nel tempo ed imprevedibile, arrecava al lavoratore una Successive pronunce della suprema corte hanno invece esteso la portata di tale concetto, tanto da valutare violenta anche quella causa che non sia determinata da un fattore esterno, ma dall’attività normalmente svolta dal lavoratore;
l’occasione di lavoro condiziona il carattere professionale dell’evento, in quanto ne rappresenta la particolare eziologia e si configura in presenza del cosiddetto “rischio specifico”: l’infortunio diviene cioè indennizzabile solo quando l’evento lesivo risulti direttamente relazionabile agli elementi che costituiscono le condizioni oggettive dell’attività Vi rientrano pertanto tutti i fatti verificatisi nell’ambiente lavorativo, anche a causa di macchine e/o persone presenti (inclusi i terzi).
Se di norma il verificarsi del cosiddetto rischio generico – definibile come il rischio comune a tutti gli individui, cioè indipendente dalle peculiari condizioni lavorative – si ritiene interrompa il nesso di causa, va segnalata qualche pronuncia giurisprudenziale che valuta in modo estensivo il concetto di “occasione di lavoro”, facendovi rientrare anche quegli eventi in cui possa rilevarsi un rischio aggravato e quelli verificatisi durante un’azione prodromica o consequenziale alla propria attività lavorativa.
L’infortunio in itinere rappresenta una particolare situazione, da ricondursi ad un “generico” rischio della strada, che incombe certamente non solo sul lavoratore. Tuttavia tale rischio può essere aggravato da elementi che possono di fatto strettamente collegarlo al concetto di occasione di lavoro. Sul tema gli orientamenti circa l’indennizzabilità erano tutt’altro che univoci e, a dirimere la questione, è intervenuto il D. Lgs. 38/2000 che comprende gli infortuni subiti dalle persone assicurate durante il normale tragitto di andata/ritorno dall’abitazione al luogo di lavoro (e, in assenza di servizio mensa, anche nella pausa del pranzo, per il tragitto compreso tra il luogo di lavoro e quello ove si consuma il pranzo) anche utilizzando un mezzo di trasporto privato, purchè necessitato. Non rientrano in ogni caso tra gli infortuni in itinere, ma sono al contrario inquadrabili come infortuni sul lavoro quegli eventi che, pur originati dal rischio stradale, accadano nell’arco di spazio e di tempo riferibili alla normale prestazione lavorativa ed in collegamento con la stessa.
2.2.2. Malattia professionale
L’indennizzo della malattia professionale, cioè di ogni alterazione dello stato di salute non dipendente da infortunio, è prevista dagli art 3 e 211 T.U.
Il T.U. prevede un “numero chiuso” di malattie professionali e l’allegato 4 specifica, per le sole attività di tipo industriale, le patologie che godono di tutela ed il periodo massimo della loro indennizzabilità dalla data di cessazione del lavoro (la medesima disciplina si applica per il settore agricolo, ex art. 211 e tabella 5 del T.U.).
L’assicurazione contro le malattie professionali opera dunque a condizione che la patologia sia insorta e si sia sviluppata a causa dell’esercizio dell’attività lavorativa tutelata.
La tecnopatia si caratterizza e si differenzia rispetto all’infortunio, fra l’altro, anche per la natura del rapporto eziologico, poiché non è sufficiente al suo manifestarsi, un rapporto di occasionalità tra lavoro ed evento, ma è necessario un rapporto di causalità. Ulteriore differenza si ha in relazione alle modalità in cui si verifica la lesione: nell’infortunio la causalità ha una manifestazione violenta (subitanea, concentrata nel tempo), mentre nella tecnopatia il tratto caratteristico è dato dall’esposizione al rischio ripetuta nel tempo.
La sentenza della Corte Costituzionale 18/2/1988 n. 179 ha dichiarato, in riferimento all’art. 38 e 3 della Costituzione, l’illegittimità costituzionale degli artt. 3 e 211 T.U., nelle parti in cui non veniva prevista la tutela di quelle malattie che, pur non essendo incluse nelle tabelle allegate al T.U., erano comunque state causate da lavorazioni soggette a tutela INAIL. Veniva dunque così introdotto nel nostro ordinamento il c.d. “sistema misto”, che prevede una diversa procedura per la richiesta del riconoscimento di un indennizzo per aver contratto una malattia professionale, a seconda che si tratti di una malattia “tabellata” (cioè inclusa tra le patologie espressamente indicate nelle tabelle di legge, causata dalle lavorazioni ivi indicate) o di una malattia“non tabellata”. In quest’ultimo caso, non sussistendo alcuna presunzione legale d’origine, il lavoratore potrà vedersi riconosciuta qualsiasi malattia contratta a causa delle lavorazioni protette di cui al T.U., ma solo nel caso in cui egli dia prova dell’origine professionale di tale patologia.
Tale prova deve essere valutata in termini di ragionevole certezza; può essere cioè ravvisata solo in presenza di un elevato grado di probabilità (e non di mera possibilità), da accertarsi caso per caso.
Il D. Lgs. 38/2000, anche in adempimento alle raccomandazioni CEE degli ultimi anni, ha previsto, all’art. 10, l’istituzione di una commissione scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica dell’elenco delle malattie professionali (con decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il ministero della Sanità, sentite le OO.SS. nazionali di categoria maggiormente significative).
Il D.M. 27/4/2004 ha introdotto un elenco delle malattie professionali per le quali è obbligatoria la denuncia per ogni medico che ne riconosca l’esistenza e lo suddivide in tre liste, a seconda che l’origine lavorativa sia di elevata o limitata probabilità, oppure possibile.
Nell’ambito delle nuove patologie denunciate all’ente al fine del riconoscimento della malattia professionale, particolare rilievo assume il fenomeno definito Mobbing.
Va operata al proposito una preliminare definizione del Mobbing in senso proprio, che deve intendersi come un’organizzazione volontaria lesiva che pone in essere atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo a danno di lavoratori da parte del datore di lavoro (bossing) o di colleghi, attuati in forma persecutoria ed aventi effetto sulla psiche.
Diversa sotto il profilo della volontà è la costrittività organizzativa, che si realizza attraverso un insieme di azioni che inducono sì sofferenza emotiva nel lavoratore, ma senza predeterminazione.
Entrambe le situazioni sono oggetto di tutela, ex art. 2087 c.c.,in quanto si individua in capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro ma, al fine di distinguere le due tipologie di sofferenza psichica realizzata in ambiente lavorativo, l’INAIL ha individuato una serie di parametri che ne consentano l’esatta qualificazione (frequenza, durata, tipo di azione, l’andamento secondo fasi successive – modello di EGE- l’intento persecutorio). Altrettanto pacifica è l’estensione di responsabilità civile del datore, oltre che per l’ipotesi di bossing anche nel caso in cui il comportamento vessatorio sia imputabile ai suoi collaboratori (ex art. 1228 c.c.), superiori gerarchici del lavoratore, a prescindere dalla conoscenza e persino dalla conoscibilità delle condotte realizzate dagli ausiliari e dalla diligenza profusa per controllarne l’operato.
Le prestazioni erogate dall’INAIL, ai sensi dell’art. 66 del T.U. sono costituite da:
un’indennità giornaliera per inabilità temporanea;
una rendita per inabilità permanente qualora l’invalidità accertata fosse superiore all’11% (ora modificata dal D.Lgs. 38/2000);
un assegno per assistenza personale continuativa, una rendita ai superstiti una tantum in caso di morte;
cure mediche e chirurgiche (compresi gli accertamenti clinici;
la fornitura di apparecchi sanitari.
Mentre alcune forme indennitarie non hanno subito sostanziali modificazioni, il sistema infortunistico pubblico, che si ricollega al diritto comune sotto i due profili della responsabilità e del danno attraverso le azioni dell’Istituto e dell’infortunato (artt. 10 e 11 T.U.), non poteva restare indifferente alla problematica del danno biologico, il cui riconoscimento si era via via consolidato nella prassi quotidiana.
Con il citato D. Lgs. 38/2000 si è pertanto provveduto ad un radicale riassetto del sistema indennitario, anche alla luce della vasta elaborazione di dottrina e giurisprudenza ed in particolare della sentenza della Corte Costituzionale 15/2/1991 n. 87.
E’ ora previsto un indennizzo base per il danno biologico qualora venga accertata una lesione dell’integrità psicofisica pari o superiore al 6%. Tale indennizzo è determinato senza alcun riferimento alla retribuzione del soggetto leso e ad esso andrà cumulato, in caso di invalidità permanente pari o superiore al 16%, una quota anche a titolo di danno patrimoniale.
Quindi, ove si accerti una invalidità permanente biologica inferiore al 6% nulla viene corrisposto oltre all’indennità per la inabilità temporanea e le eventuali spese; nella fascia valutativa dal 6 al 16% viene erogata un’indennità in capitale (e pertanto in un’unica soluzione) per il solo danno biologico; oltre la soglia del 16% viene corrisposta una rendita il cui importo è calcolato integrando il danno biologico con un quid di danno patrimoniale determinato in modo automatico, in via presuntiva, senza una verifica reale della diminuita capacità lavorativa.
Il sistema, che segna la fine di un’epoca durata circa un secolo, ristora un danno tenendo in considerazione l’individuo non più solo per la sua capacità di produrre reddito, ma anche sotto il profilo della integrità e validità. Da ciò trae beneficio non solo il lavoratore, ma indirettamente anche il datore di lavoro, che vede ampliata l’area di esonero dalla comune responsabilità civile.
3. Le azioni di risarcimento
La profonda trasformazione del concetto di danno risarcibile, che aveva come obiettivo il ristoro integrale dei pregiudizi subiti dalla persona lesa ha di fatto provocato, come illustrato, duplicazioni e talvolta un raddoppio degli indennizzi.
Il legislatore ha tentato, con alcuni interventi (v. l’introduzione del danno biologico con il D.Lgs. 38/2000 tra le prestazioni dell’INAIL), di avvicinare i due sistemi, civile e previdenziale, ma i criteri che li sovrintendono non sono ancora sovrapponibili e pertanto viene determinato un diverso ammontare dei risarcimenti.
Mentre in linea generale in ambito civilistico il soggetto leso deve essere integralmente risarcito nella sua individualità, l’assicurazione obbligatoria ha il fine di liberare dal bisogno l’infortunato ed ottiene tale risultato applicando criteri automatici, di rapida individuazione.
Proprio al fine di evitare le incongruenze rilevabili nella gestione del sinistro verificatosi in ambito lavorativo, la giurisprudenza, con un ormai consolidato orientamento, ha chiarito la necessità di evitare duplicazioni del danno e perciò ha attribuito al soggetto leso la possibilità di agire solo per la quota di danno “differenziale” che residua dalla quantificazione civilisticamente dopo la soddisfazione del credito vantato dall’INAIL.
3.1. Le azioni di rivalsa dell’INAIL: regresso e surroga
All’istituto competono due distinte azioni da esercitare nei confronti del responsabile dell’infortunio o della malattia professionale, genericamente definite azioni di rivalsa.
Si distinguono, a seconda del soggetto passivo, in:
azione di regresso, esercitabile nei confronti del datore di lavoro, anche per persone delle quali debba rispondere
azione di surroga, prevista nei confronti del terzo responsabile, estraneo al rapporto di lavoro
L’azione di regresso, il cui il tratto distintivo è dato dalla possibilità, per chi ha pagato il debito di un altro soggetto, di agire nei confronti di quest’ultimo per il recupero dell’importo, è limitata nel nostro ordinamento ad ipotesi ben determinate e tassative.
Trova, per il settore del quale ci si occupa, il suo fondamento nell’art. 11 del TU 124/1965 ove si è conservato, accanto alla funzione tipica dell’assicurazione infortuni di tutela del lavoratore, l’effetto “riflesso di un parziale esonero da responsabilità quale corrispettivo dell’integrale onere dei premi imposto al datore”.
L’ente pubblico, anche se obbligato da un rapporto previdenziale nei confronti dell’assistito, in sostanza paga un debito che in realtà competerebbe al datore in presenza del versamento di un premio che, va ricordato, non va a coprire il rischio di infortunio derivante dal concretarsi di un fatto-reato.
Si può pertanto individuare la fattispecie costitutiva del regresso nella sussistenza degli stessi elementi che vanno ad annullare l’esonero: la responsabilità civile del datore di lavoro per un fatto-reato commesso da questi o da un suo collaboratore, la perseguibilità d’ufficio del reato ed il verificarsi di un infortunio sul lavoro (art. 2 T.U.); condizione di esercizio per l’azione è l’avvenuto pagamento delle prestazioni all’assicurato-infortunato. Le decisioni della Corte Costituzionale risalenti agli anni ’90 (87/1991-356/1991- 485/1991) hanno rappresentato una svolta decisiva in merito alla scindibilità del danno risarcibile, ridimensionando le possibili richieste dell’ente.
Mentre sino a quel momento l’INAIL poteva surrogarsi nei diritti del proprio assicurato verso il terzo fino alla concorrenza dell’intera indennità erogata, ai sensi dell’art. 1916 c.c., dopo i citati interventi della Consulta venne dalla giurisprudenza prevalente considerato come, non riconoscendo l’Ente alcun danno biologico ai propri assistiti, solo questi ultimi potevano vantare il diritto, nei confronti del terzo, a vedersi riconoscere questa parte di danno.
In conseguenza, l’INAIL avrebbe potuto agire nei confronti del terzo, entro i limiti del danno civilisticamente risarcibile, per il solo danno patrimoniale.
Con l’introduzione del D. Lgs. 38/2000, come sopra precisato, l’INAIL eroga, in caso di invalidità permanente accertata pari o superiore al 6%, un importo a titolo di danno biologico, con la conseguente cessazione della necessità di scindere i diversi componenti dell’importo complessivamente erogato in caso di rivalsa nei confronti del responsabile civile.
A seguito della “rivoluzione” introdotta dal d. Lgs. 38, il problema dell’esperibilità e dell’oggetto della rivalsa dell’INAIL si è proposto in misura importante.
Ci si è infatti chiesto se, qualora l’INAIL corrisponda una rendita per menomazioni valutate oltre il 16% di invalidità permanente (in relazione alla diminuita integrità psico- fisica), questi possa agire in rivalsa nei confronti del responsabile civile per l’intero ammontare delle sue erogazioni o se, qualora non venisse riscontrata un’effettiva limitazione della capacità lavorativa, le sue richieste debbano trovare il limite del solo danno non patrimoniale riconosciuto. Sulla questione, di non poco valore, poiché dall’oggetto dell’azione esercitata dall’INAIL dipenderà, ovviamente, l’entità del danno “differenziale” da riconoscere al lavoratore, non si è ancora determinata una corrente di pensiero prevalente.
3.1.1. La surroga
L’azione viene esercitata qualora l’infortunio sia cagionato, in tutto o in parte da un terzo estraneo al rapporto assicurativo e l’ente abbia provveduto ad indennizzare il proprio assistito.
In tal caso l’Istituto è legittimato alla successione del diritto di credito del leso, ex art. 1916 cod. civ., ma per l’esercizio di tale azione è tenuto a comunicare al responsabile, esattamente come nell’ipotesi di cessione del credito di cui all’art. 1264 cod. civ., il pagamento dell’indennizzo e la propria volontà di surrogarsi.
Ne deriva che eventuali atti dell’assicurato possano pregiudicare il diritto di rivalsa dell’Istituto solo qualora gli stessi siano stati compiuti anteriormente all’avvenuta comunicazione di surroga.
I termini per l’esercizio dell’azione sono i medesimi applicabili generalmente per il danneggiato:
2 anni nel caso di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli, 5 anni per l’ipotesi di responsabilità extra contrattuale e 10 anni per la responsabilità contrattuale
Sottostando ai principi applicabili in tema di risarcimento del danno, il debitore non può opporre al creditore che le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti del creditore originario (il terzo non può dunque eccepire all’Istituto l’insussistenza dei requisiti necessari per la qualificazione dell’evento come infortunio sul lavoro, trattandosi di un’eccezione contrattuale relativa ad un rapporto in cui non è parte).
Tra le eccezioni che più frequentemente il danneggiante oppone all’Istituto vi è sicuramente l’eventuale concorso di colpa dell’infortunato. Questi, con la sua azione, concausa dell’evento, viene a limitare l’altrui responsabilità ed il conseguente risarcimento, in ossequio al principio generale sancito all’art. 1227 1° comma, secondo cui “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che sono derivate”. Tale eccezione può ovviamente applicarsi alle sole azioni esperite nei confronti del responsabile al fine dell’ottenimento di un risarcimento del danno, a differenza di quanto avviene in ambito pubblicistico, ove non si dà alcun rilievo ad un eventuale concorso di colpa o ad altrui responsabilità prima di erogare la prestazione assicurativa (fatta eccezione per i soli fatti intenzionali, dovuti cioè a dolo e rischio elettivo).
Ne consegue che, in caso di corresponsabilità del soggetto leso, l’Istituto non potrà che surrogarsi nei diritti del danneggiato verso il responsabile civile, fino alla concorrenza dell’indennità pagata, ma sempre entro i limiti del danno civilisticamente quantificato.
3.1.2. L’autotutela
Indipendentemente dal diritto di richiedere un intervento giudiziale, il lavoratore può tutelare autonomamente il diritto allo svolgimento della sua prestazione senza rischio per la sua salute.
Già in passato la dottrina maggioritaria aveva individuato il diritto del lavoratore di astenersi dalla propria prestazione in presenza di un inadempimento del datore di lavoro che non avesse rispettato gli standards previsti in tema di sicurezza.
Un eventuale sciopero, sicuramente legittimo, potrebbe qualificarsi tecnicamente corretto solo qualora il suo scopo sia quello di aumentare il livello di sicurezza generalmente presente mentre, qualora la rivendicazione sia una reazione ad un preciso inadempimento dell’obbligo del datore, sarebbe più opportuno qualificare l’astensione lavorativa come una vera e propria eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c. che, tuttavia, non prevede il diritto alla controprestazione. Per ovviare a tale limite, un orientamento ha individuato nella retribuzione dovuta dal datore di lavoro per il periodo di astensione lavorativa un’obbligazione secondaria di natura risarcitoria.
Vi è poi chi giustifica il comportamento del lavoratore come un effetto della mora in cui il datore di lavoro, inadempiente sotto il profilo della predisposizione di un ambiente sicuro, incorrerebbe automaticamente. Al fine di tutelare il lavoratore da un’eventuale richiesta formale di prestazione, con conseguente messa in mora del datore di lavoro, sarebbe sufficiente la disponibilità (presenza sul luogo) del prestatore di lavoro ad adempiere non appena vengano eliminate le condizioni che rendono insicuro l’ambiente di lavoro.
Altra parte della dottrina, aderendo alla teoria secondo la quale il contenuto dell’art. 2087 c.c. è identificabile con un diritto soggettivo perfetto del lavoratore, ipotizza la possibilità di azionare, accanto al rifiuto della prestazione, la richiesta di adempimento in forma specifica ex art. 1453 c.c.. Ne deriverebbe, sul piano processuale, conseguente alla contrattualità dell’azione, l’onere della prova a carico del datore convenuto.
Tale azione, da esperirsi non con l’ordinario processo di cognizione, ma ex art. 700 c.p.c.-vista l’urgenza dell’accertamento- avrebbe quale fine l’ottenimento di una tutela inibitoria, di carattere preventivo e quindi indipendente dall’avvenuto verificarsi di una lesione del diritto alla salute.
A tale teoria si è comunque opposta la considerazione che, non sussistendo nel nostro ordinamento una tutela inibitoria generale diretta a paralizzare il comportamento illecito e da identificarsi come precipuo strumento di protezione dei diritti a contenuto e funzione non patrimoniale, al lavoratore non rimarrebbe, quale efficace tecnica di autotutela preventiva (ed a fini meramente protettivi) che l’abbandono del posto di lavoro in caso di pericolo grave o immediato e che non può essere evitato (art. 14 d. lgs. 626/1994) – assimilabile allo stato di necessità – o il rifiuto della prestazione lavorativa.
L’autotutela, in quanto tale, non è condizionata dall’accertamento giudiziale, ma ne è sicuramente agevolata. Spetterà pertanto al lavoratore decidere, di volta in volta, in considerazione della gravità dell’illecito del datore e delle conseguenti probabilità di definitiva vittoria in giudizio, se attuare o no in difesa dei propri beni personali una tempestiva autotutela, eventualmente sulla scorta di un provvedimento d’urgenza favorevole.
Sul tema va segnalata un’interessante sentenza della S.C. (7/11/2005 n. 21479) la quale si è pronunciata sul caso di un casellante di una società autostradale che, essendo stato oggetto di ripetute aggressioni a scopo di rapina, aveva più volte segnalato al datore di lavoro la necessità di provvedere ad un miglioramento delle condizioni di sicurezza. Nonostante tale richiesta, nessun provvedimento venne adottato e, a seguito di un’ulteriore aggressione nella quale il dipendente venne ferito con un’arma da fuoco, questi comunicò all’azienda che si sarebbe astenuto dalla prestazione lavorativa sino a quando le condizioni non fossero state adeguate. L’azienda gli intimò il licenziamento, che il lavoratore impugnò.
Evidenzia la S.C., nell’accogliere il ricorso che “….In particolare con riferimento al contratto di lavoro l’ipotesi del sopravvenuto venir meno in modo totale o parziale della prestazione lavorativa tale da giustificare il licenziamento ex art. 18 l. 300/1970 per giusta causa o per giustificato motivo ai sensi dell’art. 3 l. 604/1996 non è ravvisabile se il mancato o non completo adempimento del lavoratore trova giustificazione nella mancata adozione da parte di datore di lavoro delle misure di sicurezza che, pur in mancanza di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell’integrità fisica e psichica del prestatore di lavoro e se quest’ultimo prima dell’inadempimento secondo gli obblighi di correttezza informa il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare a tutela dell’integrità fisica e psichica del lavoratore, sempre che tale necessità sia evidente o, comunque, accertabile o accertata”
3.1.3. L’azione di risarcimento verso il responsabile civile
Il datore di lavoro, nonostante l’esistenza di un rapporto assicurativo sociale, rimane civilmente responsabile per il danno subito dal lavoratore a seguito di infortunio professionale o malattia se il fatto da cui questo è derivato integri gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio.
Va qui evidenziato come, mentre la depenalizzazione realizzata con la legge 689 del 1981 ha subordinato l’azionabilità per il risarcimento di ogni danno derivante da lesioni colpose a querela di parte, gli infortuni sul lavoro continuano a godere di una tutela del tutto particolare, garantita dall’ultimo comma dell’articolo 90 c.p., ove si riafferma la procedibilità d’ufficio per le lesioni colpose gravi o gravissime subite in occasione di lavoro per violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e per le malattie professionali.
Mentre, dunque, per le tecnopatie non si rileva alcun mutamento rispetto al passato, la procedibilità d’ufficio per gli infortuni viene limitata all’ipotesi di violazione di norme antinfortunistiche.
La giurisprudenza, valorizzando il disposto ora illustrato, ha adottato un indirizzo costante, affermando che anche l’art. 2087 cod. civ. deve essere considerata una vera e propria norma di prevenzione, così che la sua inosservanza integra la fattispecie di reato prevista.
Con la sentenza penale di condanna il giudice è tenuto, per effetto della costituzione di parte civile del soggetto leso, a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento, che potrà avere per oggetto il solo danno “differenziale” di cui all’art. 10 T.U.. Solo qualora le prove acquisiste non consentissero la liquidazione del danno, le parti potranno essere rimesse al giudice civile.
L’oggetto della richiesta di risarcimento da parte del lavoratore viene limitata, dai commi 6 e 7 dell’art. 10 T.U. al solo danno differenziale, cioè alla sola differenza tra danno civilistico e indennità pubblicistica erogata. Come già osservato a proposito dell’esperibilità dell’azione di rivalsa dell’ente pubblico, tale differenza non viene più determinata sulla base di una semplice operazione aritmetica, ma dovrà aversi riguardo ai vari elementi che compongono il danno, distinguendo tutte quelle spettanze risarcibili in sede civile e non contemplate in ambito pubblicistico (ad esempio il danno morale e l’inabilità temporanea biologica). Può poi verificarsi l’ipotesi in cui, pur se l’evento può rientrare a pieno titolo nelle ipotesi disciplinate dal T.U., rimane in capo al lavoratore un diritto esclusivo, come nel caso del danno biologico inferiore al 6% e pertanto non indennizzato dall’Ente.
Qualora si tratti di fatto imputabile al datore di lavoro opererà la disciplina “speciale”, mentre qualora la condotta lesiva non sia riconducibile alle ipotesi di esonero o sia attribuibile ad un terzo, il danneggiato dovrà agire in forza dei principi civilistici ed in tal caso verrà sicuramente in considerazione una sua eventuale responsabilità nella causazione dell’evento lesivo.
Sino agli anni ’80 l’orientamento giurisprudenziale era teso a riconoscere la responsabilità civile a carico del datore di lavoro anche qualora l’evento si fosse verificato a causa di un comportamento negligente o imprudente del lavoratore, in considerazione del fatto che le norme anti-infortunistiche avevano, tra l’altro, lo scopo di superare tali comportamenti.
Successivamente, anche a seguito del nuovo ruolo che il lavoratore è stato chiamato a rivestire dal D. Lgs. 626/1994 – che all’art. 93 prevede espressamente sanzioni per i lavoratori al fine di non permettere che con il loro comportamento possano compromettere l’effettività della tutela – si è proceduto a puntualizzare tale concezione, nel senso di valorizzare quale esimente (totale o parziale) della responsabilità civile datoriale, la condotta del lavoratore che possa essere qualificata come abnorme o assolutamente imprevedibile, da valutarsi anche in considerazione dell’esperienza lavorativa del dipendente.
Ovviamente, al fine di valutare se un lavoratore era tenuto ad un determinato comportamento, in svolgimento del generale dovere di cura, andrà preliminarmente accertato se lo stesso aveva ricevuto una adeguata formazione e se gli erano stati impartite adeguate istruzioni.
La vigilanza del datore di lavoro va dunque rapportata in concreto al lavoro da svolgere, all’ubicazione del medesimo, all’esperienza ed alla specializzazione del lavoratore, nonché alla sua autonomia.
La prova della condotta anomala o abnorme è a carico del datore di lavoro e deve essere rigorosa. Solo dopo tale accertamento si potrà verificare in quale misura la condotta vada in concreto ad incidere sulla responsabilità civile del datore.
Ugualmente, non viene considerata di per sé esimente della responsabilità del datore la condotta del dipendente che omette di utilizzare le idonee misure protettive, gravando comunque sul datore l’obbligo di accertare e vigilare affinché queste misure vengono di fatto utilizzate, ma anche in questo caso l’esonero potrà ottenersi qualora venga provata l’abnormità o l’imprevedibilità del comportamento.
[1] Specializzando in Diritto del Lavoro (UNIMC), Post Doc in Diritto Privato
[2] Avvocato, Dirigente ASL
[3] Dirigente ASL
[4] Per un’approfondita analisi del fenomeno v., tra gli altri, Marando G. “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro” Milano 2003, pag. 104 e segg.
[5] Fusinato “Gli infortuni sul lavoro e il Diritto civile” in Riv. It. Scienze giur. 1887 III p. 209, riportato in De Matteis-Giubboni “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano, p.38
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