Riserva di legge e normativa europea. L’Unione Europea ha una specifica competenza in materia penale?

Riserva di legge e normativa europea. L’Unione Europea ha una specifica competenza in materia penale?

La risposta al quesito è negativa; nessun organo europeo è legittimato a disciplinare autonomamente in materia penale, come affermato per la prima volta dalla stessa Corte di Giustizia (CGUE) nella sentenza Kolpinghuis Nijmegen del 1987[1].

Ciononostante, in tempi più recenti l’emanazione di numerosi atti e norme comunitarie di rilievo penale ha spinto l’Italia ad un “ripensamento” circa l’inderogabilità della riserva di legge di cui all’art 25 Cost.

Se in passato l’Unione europea era solita prevedere un generico obbligo in capo agli Stati di sanzionare condotte illecite, dal Trattato di Lisbona in poi la precedente indeterminatezza europea ha lasciato il posto al dovere di una più precisa risposta sanzionatoria da parte degli ordinamenti nazionali. A riprova di ciò, l’art 83 TFUE riconosce all’UE la competenza a stabilite “norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni[2]in presenza di due presupposti, quali la particolare gravità dell’illecito e la sua dimensione transnazionale.

Accertata quantomeno l’influenza del diritto e della giurisprudenza europei su quelli nazionali in materia penale, è necessario individuarne gli effetti sull’ordinamento italiano, che si è soliti distinguere in espansivi e limitativi.

Nel primo caso, ci si riferisce all’ampliamento dei beni giuridici che lo Stato è tenuto a tutelare, posto che il diritto dell’UE prevede il dovere degli Stati di assicurare la salvaguardia non soltanto dei beni di interesse nazionale, ma anche di quelli di rilievo comunitario. A tal proposito, l’art 13 par. 2 TUE sancisce il principio di leale collaborazione, per cui i Paesi membri hanno lo specifico obbligo di adottare misure volte a garantire il rispetto delle norme europee ed a sanzionarne eventuali violazioni nello stesso modo in cui reprimono l’inosservanza delle disposizioni nazionali.

In senso opposto, il c.d. effetto limitativo prevede il restringimento dell’area del penalmente rilevante, così garantendo specifici diritti in capo ai singoli o ponendo dei limiti al potere statale di incidere sulla libertà dei privati. Per l’adattamento alle previsioni europee, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la norma interna contrastante con quella comunitaria nel caso in cui riscontri un’antinomia tra le due, in forza della primauté del diritto sovranazionale su quello interno; tuttavia, ciò vale in caso di norme dotate di efficacia diretta, come i Regolamenti e le Direttive self-executing, mentre la questione si complica con riferimento alle disposizioni (o per meglio dire, alle fonti) non direttamente applicabili. In tal caso, il giudice italiano dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale, che dichiarerà illegittima la norma interna contrastante con quella comunitaria, in virtù del combinato disposto degli artt 11 e 117 Cost da cui discende l’obbligo per gli Stati di rispettare i vincoli europei.

Uno dei settori del diritto nazionale che ha maggiormente risentito dell’influsso della normativa dell’UE è quello dell’immigrazione, come dimostrato dal caso El Dridi del 2011 e dalla Direttiva 2009/52/CE.

Il caso El Dridi si annovera generalmente tra quelli che sono stati definiti “effetti limitativi” sulla normativa penale italiana e riguarda la sentenza con cui la Corte di Giustizia ha disposto l’incompatibilità del reato di cui all’art 14 co. 5-ter del Testo Unico sull’immigrazione (Dlgs 286/98) con la Direttiva 2008/115/CE, nella parte in cui prevede l’applicazione di una pena detentiva qualora il cittadino di un Paese terzo permanga in modo irregolare nel territorio nazionale dopo la scadenza del termine entro cui avrebbe dovuto lasciare lo Stato su ordine del questore, ex art 14 co. 5bis.

Secondo i giudici comunitari, una simile previsione confligge con l’instaurazione di un’efficace politica di rimpatrio dei cittadini stranieri irregolari, come previsto dalla suddetta Direttiva, poiché l’eventuale applicazione di una pena privativa della libertà personale non soltanto rallenterebbe il rimpatrio, ma potrebbe addirittura ostacolarlo.

D’altro canto, la Direttiva 2009/52/CE, cui è stata data attuazione con il Dlgs n. 109 del 2012, rientra in quei casi qualificati come “effetti espansivi” sul diritto interno; nello specifico, la Direttiva ha influito sull’art 22 co. 12 del TU sull’immigrazione che punisce con la reclusione e la multa il datore di lavoro che occupa alle sue dipendenze lavoratori stranieri irregolari.

Pur mantenendo inalterata la fattispecie base, il Dlgs 109/2012 ha previsto un aumento della pena da un terzo alla metà in tre specifici casi: se i lavoratori sono più di tre, se sono sottoposti a condizioni di sfruttamento e se si tratta di minori in età non lavorativa. L’introduzione di queste aggravanti è indicativa dell’attenzione posta dal legislatore comunitario sulla libertà e sui diritti umani inviolabili, cui consegue un doveroso inasprimento delle sanzioni nazionali nei confronti dei trasgressori.

Da quanto sinora esposto si deduce che, nonostante l’incompetenza degli organi europei a legiferare direttamente in materia penale, la sempre maggiore influenza del diritto e della giurisprudenza dell’Unione sugli ordinamenti interni ha spinto (e spinge) gli Stati membri ad un continuo adeguamento alle disposizioni di matrice comunitaria, in un’ottica di armonizzazione ed uniformità delle legislazioni penali nazionali.

 


[1] Criminal proceedings against Kolpinghuis Nijmegen BV da https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A61986CJ0080.
[2] Art 83 TFUE, da https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:12012E/TXT:IT:PDF.

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