Risponde di truffa chi cela all’acquirente pretese di terzi sull’immobile
Una donna insieme al marito vende un appartamento, acquistato con i soldi di suo padre, celando alla controparte che lo stesso era da anni oggetto di contesa con i fratelli.
Gli eredi, infatti, pretendevano che facesse parte dell’asse ereditario: si configura in tal caso il reato di truffa?
La Suprema Corte si è trovata proprio sul predetto punto a doversi esprimere, ovvero se, a carico del venditore di un immobile sul quale terzi accampino pretese giuridiche che, se accolte, comportino la restituzione del bene anche da parte dell’eventuale acquirente, abbia o meno l’obbligo di comunicare, nella fase delle trattative, al potenziale acquirente la suddetta situazione.
Nel rispondere a tale quesito il Supremo Collegio evidenzia che sia nel diritto penale che in quello civile è consolidato il principio di diritto secondo il quale le trattative devono svolgersi secondo buona fede, proprio al fine di consentire alle parti la libera autodeterminazione che non deve essere fuorviata da elementi che, se conosciuti, le avrebbero indotte ad altre soluzioni. E così, in diritto penale, si è affermato che “la conclusione di un negozio giuridico può integrare gli estremi della truffa, anche se il comportamento contrattuale sia corretto, quando sia preordinato al fine di procurarsi un ingiusto profitto e la rappresentata correttezza sia strumentalizzata allo scopo di sorprendere la buona fede dell’altro contraente sotto la parvenza di una regolare attività negoziale”, sicché anche il tacere o dissimulare fatti o circostanze tali che, ove conosciuti, avrebbero indotto l’altro contraente ad astenersi dal concludere il contratto, integra gli estremi degli artifizi e raggiri di cui all’art. 640 cod. pen.
Nel delitto di truffa, infatti, la condotta fraudolenta consistente proprio negli artifici o raggiri deve necessariamente precedere l’induzione in errore ed il conseguimento dell’ingiusto profitto.
Proprio in tema contrattuale, il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, tra cui la buona fede, unito a condotte artificiose idonee a generare un danno con relativo ingiusto profitto, integra proprio gli elementi del reato di cui all’art. 640 c.p.
Anche la stessa menzogna, con il concorso degli altri presupposti, quando tragga in errore il soggetto passivo può dar luogo al reato in parola.
E’ chiaro, quindi, che nel caso di specie la conoscenza per l’acquirente delle pretese accampate dai fratelli sull’immobile era di fondamentale importanza nella dinamica delle trattative e avrebbe dovuto essere portato a sua conoscenza proprio al fine di consentirle di valutare se continuare o meno nella trattativa assumendosi, quindi, tutti gli eventuali rischi di una causa. E, nel caso di specie, l’obbligo era tanto più cogente ove si consideri che le pretese dei fratelli della ricorrente non erano ictu oculi infondate e pretestuose, ma serissime dato che, l’immobile in questione, era stato, pacificamente acquistato dalla ricorrente con denaro del proprio padre. In altri termini, ciò che rileva è che la parte ricorrente sapesse che sull’immobile era in essere una controversia con i fratelli sicché era suo preciso dovere giuridico informare della questione la potenziale acquirente – al fine di consentirle di determinarsi nell’acquisto in modo libero e consapevole – essendo ininfluente che quelle pretese non fossero state ancora concretizzate in un atto di citazione.
Il giudizio ancora pendente,quindi, per i giudici della Corte non giustifica una condotta che possa indurre in errore l’acquirente e ingeneri, a causa dell’omessa rilevazione che si ha l’obbligo di riferire, un’aspettativa.
La condotta omissiva da parte del venditore ha, infatti, palesemente violato il principio di buona fede contrattuale durante l’iter formativo del contratto, pure in assenza di qualsiasi atto palese destinato a creare un falso convincimento, operando sulla psiche del soggetto ingannato come conditio sine qua non per la conclusione dello stesso.
La Suprema Corte di Cassazione con al sentenza n. 23079 del 23 maggio 2018 ha così stabilito che “Nel caso in cui su un immobile un terzo accampi pretese che, se accolte a seguito di un giudizio, comporterebbero la restituzione del suddetto immobile al rivendicante anche da parte di un terzo al quale sia stato nel frattempo alienato, il proprietario che intenda venderlo, ha l’obbligo giuridico, nella fase delle trattative, di comunicare al potenziale acquirente, la suddetta controversa situazione giuridica – anche se non sia ancora sfociata in una vera e propria causa – al fine di consentirgli di liberamente autodeterminarsi e, quindi, di valutare se accettare o meno il rischio di una eventuale causa.”
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