Salvataggi in mare: un obbligo giuridico tra convenzioni ONU e normative nazionali
di Valentina Spata* e Christian Catera
Ogni anno, migliaia e migliaia di persone salpano dalle coste africane in cerca di un futuro migliore, attraversando il Mediterraneo e affrontando traversate piene di pericoli. Se si consideri, oltretutto, che spesso tali viaggi vengono effettuati con imbarcazioni di fortuna, vecchie e sovraffollate, sotto la gestione del sempre crescente numero di trafficanti di persone, i pericoli si moltiplicano a dismisura, comportando non pochi naufragi che necessitano, giocoforza, di un soccorso quanto più immediato possibile.
Negli ultimi anni, l’obbligo di salvare vite umane in mare ha rappresentato probabilmente uno dei pilastri fondamentali del diritto internazionale. Gli Stati firmatari dei più importanti trattati riguardanti gli obblighi del soccorso in mare sono vincolati al rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNDUM), della Convenzione per la salvaguardia della vita in mare (SOLAS) e, ancora, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso (Convenzione SAR).
La Convenzione SOLAS rappresenta la principale trattazione internazionale in materia di salvaguardia della vita umana in mare. Il capitolo V del regolamento 33 sancisce un obbligo: il “comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione…”.
Ogni Governo, pertanto, ha il dovere di permettere il trasporto su proprie navi di persone la cui incolumità fisica è minacciata. Interessante, ai fini della trattazione, il comma due del capitolo V della Convenzione. Se da un lato viene definito l’obbligo di soccorso in mare di persone in difficoltà, dall’altro viene sottolineato il concetto per la quale i Governi non perdono il “diritto di controllo” della propria sovranità quando queste navi approdano nei loro porti o, meglio ancora, presso le zone inerenti al loro mare territoriale. Infatti, possono impedire il transito e l’approdo di queste navi nei casi in cui non sono “inoffensive”.
Gli articoli 17 ss. della Convenzione di Montego Bay definiscono inoffensivo il passaggio che non pregiudichi la pace, il buon ordine o la sicurezza dello Stato rivierasco. Per cui, la dottrina ha, all’unanimità, comunemente concordato che l’inoffensività di una nave nei confronti di uno Stato costiero si misura non in base a fatti interni alla nave (si pensi, ad esempio, le infrazioni disciplinari commessi dai membri dell’equipaggio nei porti di riferimento), ma ad una serie di condizioni disciplinate dall’art. 19 c.1 della Convenzione UNCLOS. In primis, secondo tale Convenzione, le conseguenze del reato devono estendersi allo Stato costiero; in secondo luogo, il reato deve turbare la quiete pubblica del Paese o il buon ordine del mare territoriale (art. 19 c.2). Per cui, si desume che ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori in ingresso nel suo mare territoriale, fatto salvo, il già ricordato principio di ricorrere al dovere di pronto soccorso alle navi e ai profughi in difficoltà. In Italia, l’art. 10 ter del d.lgs. 286/9832 ribadisce che – anche in seguito ad attraversamento irregolare della frontiera esterna – lo straniero soccorso, ricondotto nello Stato territoriale in seguito ad operazioni di salvataggio che sono appunto obbligatorie, una volta espletate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e di segnaletica, sarà a lui garantita l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità al ricorso del rimpatrio volontario assistito.
Parimenti l’art. 489 del Codice della navigazione dispone che “Il comandante di nave, in corso di viaggio o pronta a partire, che abbia notizia del pericolo corso da una nave o da un aeromobile, è tenuto nelle circostanze e nei limiti predetti ad accorrere per prestare assistenza, quando possa ragionevolmente prevedere un utile risultato, a meno che sia a conoscenza che l’assistenza è portata da altri in condizioni più idonee o simili a quelle in cui egli stesso potrebbe portarla”. In modo ancor più stringente il successivo art. 490 dispone che “Quando la nave o l’aeromobile in pericolo sono del tutto incapaci, rispettivamente, di manovrare e di riprendere la rotta o il volo, il comandante della nave soccorritrice è tenuto, nelle circostanze e nei limiti indicati dall’articolo precedente, a tentarne il salvataggio, ovvero, se ciò non sia possibile, a tentare il salvataggio delle persone che si trovano a bordo”.
Tutte le disposizioni in materia, comprese quelle del nostro Codice, sono conformi a quanto prevede la Convenzione Onu sul diritto del mare (UNCLOS) che all’articolo 98, paragrafo 1 dispone che “Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa”.
In tal senso, la giurisprudenza ha stabilito che deve sussistere un’effettiva situazione di pericolo, la cui gravità deve essere valutata ex ante dal comandante della nave soccorritrice, il cui pericolo non deve essere necessariamente attuale ed immediato, essendo sufficiente che la nave sia esposta al pericolo di danno. Alle persone in pericolo, necessitanti di assistenza in mare, ogni Stato deve esigere che il comandante di una natante battente la sua bandiera, qualora non sussistano situazioni di pericolo nei confronti della nave e del suo equipaggio, presti immediato soccorso e senza indugio a tali individui. È necessario, altresì, che ciascuna operazione di soccorso in mare sia istituita presso una struttura di coordinamento (M.R.S.C.: Maritime Rescue Sub Center) nello Stato costiero coinvolto nella vicenda. Tali attività rispettano i principi e i diritti riconosciuti dagli articoli 2 e 6 del trattato sull’Unione Europea (TUE). Una volta localizzati i natanti in difficoltà, le unità partecipanti comunicano immediatamente alla cabina di regia dello Stato di riferimento non solo tutte le informazioni necessarie all’attivazione delle modalità atte ad assistere e soccorrere le persone in difficoltà e di procedere immediatamente, qualora si ravvisi la necessità, l’assistenza medica urgente, ma anche potenziali attività illecite in mare. In particolare, quando l’imbarcazione e le persone a bordo necessitino di assistenza immediata in situazioni di pericolo come, ad esempio, la compromissione del raggiungimento della destinazione finale, la scarsità di carburante acqua e cibo a bordo, la presenza a bordo di persone decedute o di donne gravide o di bambini, l’avversità delle previsioni meteorologiche e marine. Il tutto garantendo l’assoluta incolumità delle persone ed evitando che si possa aggravare la situazione o far aumentare le probabilità di lesione alle persone o favorire la perdita di vite umane.
Gli obblighi di ricerca e soccorso trovano nella Convenzione SAR il principale riferimento della disciplina. La Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, adottata nella Conferenza di Amburgo del 27 aprile 1979, costituisce il punto di arrivo all’obbligatorietà degli Stati ad assicurare assistenza verso le persone in pericolo in mare.
Tutto ciò viene contenuto in un apposito piano SAR, propedeutico all’allestimento delle operazioni SAR, il cui inizio coincide con una fase di “allertamento” della ricezione di un messaggio di soccorso e la cui fine con la fase di soccorso della fase di intervento dei mezzi e del loro coordinamento.
Le navi di ricerca e soccorso sono caratterizzate dalla presenza di un sistema informativo chiamato “Ship reporting system”, la cui telecomunicazione con il centro di coordinamento di riferimento permette di ridurre il lasso di tempo fra la perdita di contatto con la nave e l’inizio dell’operazione di ricerca, di individuare prontamente le navi in condizioni di prestare assistenza, di individuare l’area di ricerca, di fornire adeguata e pronta assistenza medica alle navi sprovviste o deficitarie di personale sanitario. Per “centro di coordinamento di salvataggio” si intende quella struttura che assicura e coordina l’organizzazione efficiente dei “servizi”. Le “unità di salvataggio”, formate da personale addestrato e dotato di strumenti adeguati atti all’esecuzione rapida delle operazioni di ricerca e salvataggio, possono garantire il loro servizio in fasi di emergenza, in cui, cioè, via sia il sospetto, il timore, o un grave e imminente pericolo per la sicurezza di una nave o delle persone che vi sono a bordo.
La questione relativa al Place of Safety ha assunto negli ultimi anni una vasta eco politico-giurisprudenziale. L’individuazione del POS, quindi del porto sicuro, si collega necessariamente all’obbligo di salvare vite umane in mare e di garantire che le stesse siano trasferite in un luogo sicuro. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare – Risoluzione Msc.167 (78) del 2004 – adottate sotto l’egida dell’Imo (Organizzazione marittima internazionale) e ratificate dall’Italia, affermano che gli Stati devono «fornire un luogo sicuro o assicurare che tale luogo venga fornito» ai naufraghi. Nella medesima risoluzione viene definito come «porto sicuro» (o Place of Safety, Pos) il luogo in cui si considerano terminate le operazioni di salvataggio. In detto luogo, i sopravvissuti non si trovano più esposti ad un rischio per la loro vita, possono accedere a beni e servizi (cibo e acqua, cure mediche), nonché, nel caso dei migranti, a tutte le procedure per poter ottenere un passaggio verso la destinazione finale o la più vicina, ad esempio potendo presentare richiesta di asilo. Ma può considerarsi Pos anche una nave o una piattaforma petrolifera, in attesa di una successiva destinazione.
Il luogo o porto sicuro, quindi ospitante, deve tendere alla tutela dei diritti umani, al rispetto dell’obbligo di non-refoulement, saper gestire eventuali crisi pandemiche, accedere a un sistema di asilo efficiente, garantire uno sbarco sicuro ed efficiente e che, ai sensi dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra (che tutela i rifugiati e i richiedenti asilo) non può coincidere come quel luogo in cui essi rischierebbero torture o trattamenti inumani e degradanti. La Convenzione di Ginevra pone infatti, al suo art.33, la disciplina del principio di non refoulement, impedendo l’espulsione o il respingimento dei cosiddetti “rifugiati” in quei Paesi in cui le loro libertà sarebbero minacciate a causa della loro razza, della loro religione, della loro cittadinanza, della loro appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle loro opinioni politiche. Se facciamo riferimento alla ratifica del Trattato di amicizia a Bengasi nel 2008, tra il Governo italiano e libico – che stabilisce la procedura di respingimento verso la Libia di migranti intercettati dalle autorità italiane in alto mare, violando il diritto internazionale, sovranazionale e costituzionale – l’Italia si rende responsabile della violazione del diritto di asilo e del principio di non respingimento. La Corte Europea dei diritti dell’uomo, infatti, nel 2019 si è espressa condannando il Governo italiano. Si evince, dunque, una palese violazione dell’art. 33 della Convenzione in esame, in quanto il nostro Paese, respingendo in Libia i migranti soccorsi, ha sottoposto gli stessi a trattamenti crudeli, inumani e degradanti. La Libia, dunque, non avendo ratificato la Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, non può considerarsi un porto sicuro.
* Analista Geopolitica specializzata in Medioriente e Africa subsahariana. Specializzata in terrorismo internazionale. Esperta in Diritto delle Migrazioni e Diritti Umani. Collaboratrice ONU.
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