Scriminante culturale: limite all’integrazione o passaggio necessario?
Sommario: 1. Cenni introduttivi – 2. Nozione di scriminante culturale – 3. Le soluzioni proposte – 4. Conclusioni
1. Cenni introduttivi
La questione delle Scriminanti Culturali (altrimenti definite reati culturalmente orientati) si ripropone nella sua connotazione più attuale alla luce di recenti fatti di cronaca che pongono in luce, più che mai, situazioni caratterizzate da una contrapposizione tra ordinamento giuridico e morale. Ciò alla luce del nucleo di valori e del bagaglio culturale che ciascuno di noi porta con sé e che assume un aspetto più problematico laddove tale background attiene ad una cultura diversa, e potenzialmente contrastante, con l’insieme di valori riconosciuti dal nostro ordinamento e che rinvengono un fondamento costituzionale negli artt. 2 e 3 Cost.
Sovente accade, difatti, di trovarsi tristemente ad apprendere notizie di fatti delittuosi commessi da soggetti stranieri in ragione di un proprio credo (religioso, culturale, morale, ecc.) mediante la realizzazione di comportamenti ammessi, riconosciuti e, talvolta, incentivati, nei propri Paesi d’Origine ma che incontrano limiti invalicabili all’interno di quello Accogliente.
Ebbene, il nucleo fondante la questione in parola è rappresentato proprio dall’analisi del momento patologico di incontro/scontro tra i due Paesi (di Appartenenza e d’Accoglienza) ovvero dalle modalità attraverso le quali il fenomeno delle scriminanti culturali, fino ad ora posto al margine dei temi più complessi del nostro scenario giuridico-sociale, debba essere affrontato e risolto.
Difatti, il fenomeno in parola, lungi dal rappresentare una mera problematica teorica, assume una rilevanza fondamentale all’interno di una società come la nostra, caratterizzata da flussi migratori che hanno determinato l’insorgere di un assetto sociale fondato sul multiculturalismo.
Tale questione coinvolge differenti aspetti che non possono e non devono, a parere di chi scrive, esaurirsi su un piano esclusivamente giuridico e, in particolare, penalistico dacchè, al fine di essere davvero compreso, necessita di una valutazione sociale e sociologica oltre che comunicativa. Ad esempio, di fondamentale rilevanza si pone il concetto di “cultura” posto che più pregnante ed incidente si ritiene possa essere lo stesso, maggiore sarà la rilevanza che produrrà sulla capacità del soggetto di autodeterminarsi.
Occorre, inoltre, valutare se i c.d. reati culturalmente orientati e la maggior frequenza con la quale il nostro ordinamento si trova a gestire dette situazioni, costituisca espressione di una incapacità sistematica di organizzazione e gestione del “diverso” o se siano un aspetto necessario dell’integrazione. Ed inoltre, se proprio il processo di integrazione possa ritenersi un metro significativo per misurare la penale responsabilità nella commissione di reati accettati dalla cultura originaria ovvero se la presa di posizione dell’ordinamento ospitante possa configurarsi come limite a detto processo.
2. Nozione di scriminante culturale
Sul punto, al fine di procedere nell’analisi della questione che ci occupa, si ritiene necessario preventivamente chiarire cosa si intenda con l’espressione scriminante culturale (o reati culturalmente orientati) e quali fattispecie possano concretamente esservi ricomprese.
Non esiste una nozione generale della fattispecie in parola posto che la stessa espressione potrebbe ritenersi di per sé fuorviante in ragione dell’assenza di un esplicito riconoscimento in tal senso nel nostro ordinamento. In via generale, vengono ricompresi nell’alveo dei reati culturalmente orientati tutti quei fatti antigiuridici commessi da un soggetto agente il quale agisce in virtù di convinzioni culturali (religiose, etniche, ecc.) generalmente riconosciute da un gruppo di appartenenza riconducibile al Paese da cui proviene.
E’ evidente che il fenomeno in parola rappresenti un precipitato logico della globalizzazione e del processo di multiculturalismo che da anni interessa il nostro paese e che, in taluni casi, determina un contrasto tra convinzioni culturali del soggetto straniero, legittimate da una regola extra giuridica (morale, culturale, religiosa) e precetto legale racchiuso in una norma giuridica del Paese Ospitante.
Per tale ragione, centralità assume la nozione di cultura posto che solo la valutazione dell’incidenza prodotta dalla stessa sulla capacità di determinazione del soggetto potrà fornire una risposta ai dubbi sollevati da più fronti in merito all’ammissibilità o meno di una scriminante culturale.
E’ infatti noto che il diritto, ancor più il diritto penale, risenta fortemente della cultura del popolo da cui promana e, pertanto, inevitabilmente delle modifiche e delle variazioni subite negli anni dallo stesso.[1] Proprio al fine di adeguare il diritto penale alle mutate esigenze del dinamismo culturale, la stessa Corte di Cassazione ha, a più riprese, affermato che “occorre promuovere un approccio esegetico che abbia in considerazione il mutamento del costume e sentire sociale in continuo divenire, di modo che le decisioni si mostrino come il prodotto di una interpretazione contestualizzata in relazione al momento storico, più che una tralatizia ripetizione di concetti (il comune sentire; la pubblica decenza) ritenuti scontanti e immutevoli” .[2]
Ebbene, nell’ambito che qui interessa, si ritiene che il concetto di cultura possa individuarsi come l’insieme di valori, credenze, usanze e comportamenti socialmente riconosciuti, da parte di una pluralità di soggetti, accomunati dal legame di appartenenza, ad un gruppo omogeneo. E’ infatti da escludere che possa attribuirsi rilevanza scriminante, anche in senso putativo, a mere consuetudini riconducibili soggettivamente al solo soggetto agente posto che, in tal caso, si difetterebbe del requisito necessario di omogeneità del gruppo che si riconosce in un insieme di valori.
E’ evidentemente un concetto che può assumere accezioni differenti soprattutto rispetto all’ambito che si sceglie di analizzare e che riverbera i suoi problemi interpretativi in relazione alle differenti fattispecie riconducibili nell’ambito delle ipotesi di reati culturalmente orientati.
In tale concetto, infatti, confluiscono una molteplicità di differenti comportamenti contraddistinti altresì da una differente incidenza sul bene giuridico tutelato, il quale quanto più assume rilevanza nella scala dei principi riconosciuti dal nostro ordinamento, tanto più determina uno sbarramento all’ammissibilità della scriminante culturale.
Infatti tra le ipotesi di reati culturalmente orientati rientrano sicuramente i delitti contro la famiglia relativamente a quelle culture nelle quali si sconta una visione maschilista e con centralizzazione dei poteri nelle mani del capo famiglia (maltrattamenti in famiglia; violazione degli obblighi di assistenza familiare); contro la persona e la libertà sessuale in ragione di una visione limitativa dell’autodeterminazione della donna; contro i minorenni posto che spesso la concezione dell’età non è comune ai diversi ordinamenti da cui si proviene; contro l’ordine pubblico, al fine di adempiere a credenze religiose proprie del gruppo di appartenenza.[3]
Una tale pluralità di situazioni e di valori coinvolti ha indotto a propendere per una valutazione non stereotipata o aprioristicamente individuata da parte del legislatore che rimette l’accertamento ai giudici i quali, di volta in volta, mediante un bilanciamento degli interessi coinvolti, hanno assunto decisioni differenti e talvolta apparentemente contrastanti, come si vedrà nel proseguo.
3. Le soluzioni proposte
Il fenomeno in parola rappresenta una questione che travalica i confini nazionali posto che accomuna tutti i paesi verso i quali si sono diretti i flussi migratori che hanno caratterizzato gli scorsi anni e sono tornati ad investire prepotentemente l’attuale panorama.
Da ciò deriva l’avvertita necessità per i vari Paesi Ospitanti di elaborare delle soluzioni volte a contemperare i differenti interessi in gioco facenti, rispettivamente capo, allo straniero ed al Paese Ospitante.
A tal proposito, rilevanza fondamentale ha rivestito la matrice culturale di ciascun paese che ha evidentemente orientato la scelta di predisporre un sistema piuttosto che un altro volto a regolamentare le potenziali situazioni di conflitto. Sulla base di ciò, si possono individuare due modelli:
– Assimilazionista, di matrice francese, il quale è caratterizzato da una politica volta alla omogeneità culturale ovvero al riconoscimento della centralità del nucleo di valori comuni al contesto maggioritario rispetto al quale il soggetto straniero deve adeguarsi. Attraverso l’applicazione del presente modello è evidente che lo Stato attua una forma di integrazione culturale attraverso l’associazione ed assorbimento dell’individuo con il contesto culturale nel quale quest’ultimo sceglie liberamente di vivere. In tali contesti, l’esistenza di un nucleo di valori d’origine viene interpretato come un elemento di diversità idoneo a determinare un isolamento del soggetto ovvero ad impedire il processo di integrazione, necessario per la realizzazione di una convivenza pacifica. Nel modello assimilazionista la paventata possibilità di riconoscere la scriminante culturale viene chiaramente interpretato quale limite all’integrazione e per ciò solo escluso dal panorama legislativo e giuridico.
– Multiculturalista, di origine inglese, che si configura quale modello volto a riconoscere ed accettare le diversità culturali partendo dal presupposto contrario rispetto a quello assimilazionista ovvero che non può esservi integrazione senza riconoscimento della diversità. In particolare, nei Paesi aderenti all’applicazione di siffatto modello le diversità culturali, in attuazione al principio di uguaglianza sostanziale, vengono tutelate ed assicurate al fine di non consentire al soggetto straniero una perdita della propria identità originaria. In tal modo, l’ordinamento riconosce la tutela del nucleo culturale di appartenenza di ciascun individuo ed ammette la possibilità di configurare forme di esclusione o attenuazione della pena.
Ebbene, se i due modelli sopra riportati rappresentano i sistemi elaborati a livello normativo dai Paesi maggiormente interessati dal fenomeno del multiculturalismo, non può tacersi la circostanza secondo cui esistono nella realtà una serie di altri sistemi che non possono ricondursi univocamente ad uno dei due, posto che mitigano a proprio interno soluzioni miste ovvero che necessitano di una valutazione caso per caso.
Tipico esempio in tal senso è rappresentato dal nostro Paese che non può ritenersi riconducibile al modello assimilazionista né a quello multiculturalista. In assenza, invero, di un’espressa presa di posizione da parte del legislatore[4], l’analisi delle soluzioni prospettate dal nostro Paese deve necessariamente essere esperito volgendo lo sguardo alla giurisprudenza.
In tal senso, è il caso di rilevare come l’orientamento giurisprudenziale in materia di scriminante culturale non possa ritenersi univoco bensì risulta caratterizzato da un’ampia valutazione concreta riferita alla fattispecie sottesa al caso oggetto di valutazione.
E’, tuttavia, possibile valorizzare come l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sia partita da un approccio totalmente rigoristico tale da ritenere assimilabile al modello di derivazione francese, ad un’apertura che consentirebbe di ritenere che il nostro ordinamento si frapponga nel mezzo dei due modelli esaminati, quale sistema assimilazionista-multiculturalista o misto.
Invero, secondo un primo orientamento, sancito in maniera evidente con sentenza del 31 marzo 2017, n. 24084, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato l’impossibilità di riconoscere una valenza esimente alla cultura d’origine dalla straniero nella misura in cui quest’ultima si ponga in contrasto con il nucleo essenziale di principi riconosciuti dal nostro ordinamento. Tale compromissione sarebbe giustificata dalla scelta libera effettuata dal soggetto agente di entrare a far parte del Paese Ospitante con conseguente tacita accettazione dei valori pregnanti lo stesso e stigmatizzato all’interno di norme giuridiche[5].
E’ possibile, dunque, ravvisare tra le parole del Collegio un’ideologia riconducibile a quella del modello francese che identifica nel riconoscimento della diversità un limite all’integrazione dello straniero nel Paese di origine.
A tale approccio maggiormente rigorista si affiancano pronunce nelle quali, invece, si abbandona il riconoscimento aprioristico di una “superiorità” dei principi e valori propri del Paese ospitante, in un’ottica più pragmatica ossia finalizzata ad una valutazione concreta, caso per caso, delle differenti situazioni. Ciò in ragione della possibilità di riconoscere alla cultura di cui è portatore il soggetto agente una valenza tale da incidere sulla rilevanza penale del fatto costituente reato ed è in tal senso che occorre porre particolare attenzione alla nozione di cultura da acquisire ai fini penalistici.
Infatti, si è ritenuto che il background culturale di cui il soggetto agente è portatore possa incidere sulla colpevolezza escludendo la volontarietà del fatto di reato posto che il verificarsi dell’evento non sarebbe voluto dall’autore dello stesso (si dovrebbe pertanto escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo nella forma del dolo). In assenza di un’indicazione normativa, tuttavia, la soluzione descritta non è stata l’unica proposta.
Vi è stato, infatti, chi ha paventato la possibilità di ricondurre la scriminante culturale nell’ambito applicativo dell’art. 5 c.p. che, come noto, sancisce la scusabilità dell’ignoranza inevitabile della legge[6]. Ancora vi è stato chi ha ritenuto che nei reati culturalmente orientati difetterebbe altresì l’elemento dell’antigiuridicità ammettendo in tal modo la possibilità di riconoscervi gli estremi di cui all’art. 51 c.p. ovvero l’esercizio di un diritto. Segnatamente, si è ammessa la possibilità di ritenere configurabile la scriminante di cui all’art. 51 c.p. nell’ottica dell’esercizio del diritto alla libertà religiosa di cui all’art. 19 Cost. Tale ultimo orientamento, tuttavia, è stato ben presto espunto dal panorama giuridico proprio dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza n. 24084/2017 la quale ha affermato che “proprio la libertà religiosa, garantita dall’articolo 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’ ordine pubblico; e la stessa Corte costituzionale ha affermato la necessità di contemperare i diritti di libertà con le citate esigenze. Come osserva il Giudice delle leggi nella sentenza numero 63 del 2016 Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto – nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra – sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza”[7].
Pertanto, la soluzione oggetto di discussione nelle aule di tribunale riguarda la possibilità che nei reati culturalmente orientati si difetti dell’elemento soggettivo nella forma del dolo.
Ebbene, come si è anticipato, la risposta ad una tale questione è da commisurarsi sulla base del valore pregnante riconosciuto alle concezioni culturali di un individuo in relazione all’autodeterminazione di quest’ultimo. Quanto più si riterrà incidente il complesso di valori culturali di cui il soggetto è portatore, tanto più risulterà scemata la volontà e coscienza dello stesso nella realizzazione della fattispecie delittuosa.
Sul punto, interessante e risolutivo di molteplici dubbi si pone l’intervento realizzato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 29613 del 29 gennaio 2018 nella quale vengono dettati dei criteri guida da tenere presente al fine di individuare la rilevanza che le concezioni culturali del soggetto possono avere nella commissione di reati culturalmente orientati.
Centralità assoluta viene riconosciuta alla valutazione della natura della norma culturale dalla quale discende il comportamento realizzato ovvero se la stessa è di nauta giuridica o se di matrice religiosa nonché il grado di adesione che il gruppo sociale di appartenenza manifesta nei confronti della stessa. Al fine, infatti, di evitare di attribuire rilevanza scriminante a comportamenti isolati e per nulla rappresentativi di un gruppo omogeneo, si richiede un’indagine approfondita del comportamento e dell’origine dello stesso nel Paese di Appartenenza del soggetto agente nonché il grado di autodeterminazione in esso riconosciuto[8].
Tali valutazioni non possono tuttavia, in alcun caso, prescindere da un contemperamento con il bene giuridico tutelato dalla norma ovvero la rilevanza che lo stesso assurge all’interno del nostro ordinamento. Detta procedura dovrà avvenire mediante il bilanciamento di interessi in gioco nei quali il Collegio precisa che ruolo di rilevanza dovrà altresì essere attribuito proprio a quell’aspetto che, a parere della scrivente, rappresenta il fulcro per la risoluzione della questione in parola: il grado di integrazione del soggetto agente. In particolare, afferma la Corte che “assumerà rilievo, come pure evidenziato dalla dottrina, il grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d’arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine, aspetto relativamente indipendente dal tempo di permanenza nel nuovo Paese”. Tale approfondimento potrà, dunque, consentire di affermare se il soggetto agente fosse in grado di conoscere e comprendere l’esistenza di un precetto che vietava il comportamento consentito e accettato nel suo Paese d’Origine e adattare, di conseguenza, il proprio comportamento.
Tale visione sembra preferire ad un modello assimilazionista, implicito nelle affermazioni poco più risalente della medesima Corte, una soluzione di apertura concentrata più sul futuro e che riconosce alla diversità, promanata da una differente cultura, un elemento attraverso il quale consentire l’integrazione che diventa, per tale fatto, esso stesso parametro di valutazione.
L’approdo giurisprudenziale realizzato in tal senso costituisce la cornice entro la quale il giudice dovrà poi esperire il suo ruolo di interprete del diritto e contemperare i principi forniti con la specialità del caso di specie. Ragion per cui, non è dato rilevare pronunce univoche in ordine al riconoscimento di una scriminante culturale dovendo la stessa essere riconnessa ai valori che con la condotta criminosa sono stati violati.
In tal senso, una più recente pronuncia di legittimità ha escluso la causa di giustificazione culturale nei reati contro la persona o la famiglia rappresentando il fulcro dei valori costituzionalmente riconosciuti e cristallizzati nell’art. 3 Cos.[9] Alla luce dei quali dovrà sempre essere ispirata la valutazione di merito.
4. Conclusioni
Ebbene, la ricostruzione, per nulla esaustiva, condotta fin qui consente di evidenziare la centralità che un tema come quello della scriminante culturale assurge all’interno di un ordinamento come il nostro, destinatario di notevoli flussi migratori intensificatisi con gli eventi più recenti. Una questione che non può più essere rimandata ad una risoluzione caso per caso da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità ma che richiede una presa di posizione da parte del legislatore.
Al di là, infatti, della riconducibilità in schemi aprioristici o eccessivamente rigidi, si ritiene che la problematica in questione non possa essere più riservata ai margini dei temi di discussione, né si può ritenere che la soluzione possa gravare solo ed esclusivamente sugli interpreti del diritto che, con i loro sforzi, sono riusciti a disegnare una cornice di massima entro la quale si agita il concreto.
Sebbene, infatti, scelte preventive ed astratte possano, sotto alcuni aspetti, non risultare idonee a risolvere uno scenario in continua mutazione, si ritiene che neppure un’applicazione differenziata di precetti interpretativi possa ritenersi conforme al nostro ordinamento ponendo questioni di lesione del principio di eguaglianza sotto il profilo sostanziale e di certezza del diritto.
Si avverte la necessità di una soluzione sul piano normativo che consenta di definire in maniera certa ed univoca quali concezioni culturali possano assumere rilevanza ai fini penalistici di modo che lo stesso soggetto che decida di vivere nel nostro ordinamento possa conoscere ed effettuare una scelta ponderata e definibile libera in quanto consapevole.
I tempi sono maturi per valutare davvero se l’insieme di valori culturali potenzialmente contrastanti con quelli del paese ospitante possano rappresentare un limite all’integrazione ovvero se costituiscono un passaggio necessario per l’integrazione con conseguente riconoscimento all’interno del nostro ordinamento.
[1] In tal senso, ne sono un chiaro esempio figure delittuose che per anni hanno assunto una rilevanza penalistica nel nostro ordinamento e che sono poi state abrogate in ragione del riconoscimento di valori superiori nonché del mutato comune sentire che disconosceva rilevanza penale a determinati fatti. Si pensi, quale caso emblematico, al c.d. delitto d’onore che rinveniva un esplicito riconoscimento nell’art. 587 c.p. intitolato “Omicidio e lesione personale a causa d’onore” abrogato dall’art. 1, della L. 5 agosto 1981, n. 442 . Altri chiari esempi sono tutte le ipotesi delittuose investite dal processo di depenalizzazione con conseguente trasformazione delle stesse in illeciti amministrativi o civili.
[2] Si v. Cass. Pen., Sez. III, 29 gennaio 2018, n. 29613; Cass. Pen., Sez. III 23 aprile 2014, n. 39860.
[3] Sintomatico in tal senso è stato il caso del porto in luogo pubblico del coltello tradizionale dei Sikh, analizzato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24084 del 31 marzo 2017.
[4] Il quale, in relazione alla tematica dei reati culturalmente orientati, può ritenersi che sia intervenuto nettamente e drasticamente in relazione all’introduzione del reato di “Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili” di cui all’art. 583-bis c.p. ad opera dell’art. 6, c. 1, della Legge 9 gennaio 2006, n. 7.
[5] Nello specifico, in sentenza si legge che “Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto essenziale dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. E’ quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di confermare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”.
[6] Così come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 24 marzo 1988, n. 364.
[7] Sulla base di ciò, è pervenuta all’affermazione del seguente principio di diritto “nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere”.
[8] Si legge, infatti, che “la categoria dei reati culturalmente orientati, tutt’altro che uniforme nella casistica, potrà essere valutata dall’interprete solo sulle premesse dell’attento bilanciamento tra il diritto, pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali, ed valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta. Al tempo stesso al fine di valutazione l’incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell’agente, sarà utile, come suggerito dalla dottrina più recente, la valutazione della natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato, se di matrice religiosa, o giuridica (come accadrebbe se la norma culturale trovasse un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto positivo vigente nell’ordinamento giuridico del Paese di provenienza dell’immigrato, dovendosi ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e quindi alla colpevolezza del fatto commesso), e del carattere vincolante della norma culturale (se rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o, piuttosto, desueta e poco diffusa anche in quel contesto). Infine, assumerà rilievo, come pure evidenziato dalla dottrina, il grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d’arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine, aspetto relativamente indipendente dal tempo di permanenza nel nuovo Paese”.
[9] Si v. Cass. Pen., Sez. III, 5 marzo 2020, n. 8986 secondo cui: “Va in ogni caso ribadito il principio – condiviso dal Collegio ed affermato in una vicenda analoga a quella qui in esame – secondo cui, in tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare – in linea con l’art. 3 Cost. – la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica”. Nello stesso senso, si v. Cass. Pen., Sez. III, 29 gennaio 2015, n. 14960)
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Antonella Zecchino
Dottoressa in Giurisprudenza con lode, laureata presso l'Università del Salento discutendo una tesi in diritto penal-tributario dal titolo "Crisi di Liquidità e Rilevanza Penale degli Omessi Versamenti di Imposte". Successivamente, consegue il Diploma di Specializzazione per le Professioni Legali con il massimo dei voti presso la SSPL "V. Aymone" dell'Università del Salento con una dissertazione in diritto tributario dal titolo "La difesa del Contribuente nell'Accertamento Sintetico - La prospettiva della difesa". Abilitata all'esercizio della professione forense ed amante del diritto.
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