Scrisse con le feci “a morte i capi”, la Cassazione ne ordina il reintegro
Un lavoratore, dopo aver imbrattato la toilette aziendale scrivendo, con l’uso di feci, “a morte i capi”, viene licenziato per giusta causa.
La sanzione espulsiva irrogata è stata oggetto di doglianza in tutti e tre i gradi di giudizio. Infatti, mentre il Giudice di Prime Cure ha rigettato il ricorso del lavoratore, la Corte di Appello ha dichiarato illegittimo, perché sproporzionato, il licenziamento disciplinare ritenendo che la condotta del lavoratore, sebbene validamente riscontrata, “non è sussumibile nel concetto di giusta causa”.
La Suprema Corte (Sent. n. 17339 del 25/08/2016), richiamando un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza, ha precisato che in tema di licenziamento il Giudice di merito deve valutare, necessariamente, la proporzione tra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, tenendo conto anche delle circostanze oggettive e soggettive della condotta e di tutti gli elementi idonei a consentire l’adeguamento della disposizione normativa dell’art. 2119 c.c. alla fattispecie concreta (per tutte cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., n. 8456/2011).
Spetta al Giudice, infatti, verificare che l’infrazione contestata sia astrattamente sussumibile nell’alveo della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo.
È necessario, inoltre, che l’addebito mosso al lavoratore “rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia in quanto la condotta sia idonea a ledere irrimediabilmente l’affidamento circa la futura correttezza nell’eseguire la prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi che gli fanno carico” (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav. n. 15058/2015).
La Cassazione, nella sentenza in commento, ha inoltre precisato che nella valutazione della condotta bisogna tener conto “di tutti i connotati oggettivi e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell’intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari”.
La Corte di Appello adita dal prestatore d’opera, pur affermando che l’infrazione andava severamente punita con una sanzione di tipo conservativo, ha valutato, in primis, lo stato di salute psichica del lavoratore (affetto da sindrome depressiva reattiva) “come mera circostanza idonea a attutire” la gravità in concreto del fatto.
Inoltre, il modesto livello culturale – desunto dalle mansioni espletate – e l’assenza di precedenti disciplinari nei nove anni in cui si è protratto il rapporto di lavoro, conducono a negare, in concreto la proporzionalità della sanzione espulsiva.
La Cassazione ha quindi dichiarato inammissibile il gravame proposto dal datore di lavoro, confermando la sentenza di appello e la reintegra nel posto di lavoro del lavoratore, con le conseguenze economiche ex art. 18 L. n. 300/1970.
Giuseppe Rossini
Avvocato in Potenza
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