SECONDO LAVORO: non comporta il licenziamento automatico
Cass. civ., Sent., 11 giugno 2015, n. 12120
a cura di Rita Mazzacano
La violazione da parte di un dipendente pubblico del vincolo della esclusività della prestazione lavorativa non determina in modo automatico la decadenza del rapporto di lavoro pubblico; nel caso in esame l’impegno profuso dal dipendente nello svolgimento della attività di collaborazione giornalistica, per la esiguità che lo connota, non determina una situazione di incompatibilità con le funzioni di agente di polizia municipale alle quali egli era addetto in un ente locale.
Il fatto
La Corte di Appello rigettava l’impugnazione proposta da un Comune emiliano-romagnolo confermando la sentenza del Tribunale con la quale era stato dichiarato illegittimo il provvedimento dì decadenza dall’impiego, adottato dal Comune nei confronti di un agente di polizia municipale disponendone la reintegra nel posto di lavoro e condannando l’ente locale al risarcimento del danno in suo favore.
Nel pervenire a tali conclusioni i giudici dell’appello ritenevano, in sintesi, che la decadenza dall’impiego non aveva natura disciplinare, ma presupponeva la perdita dei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se mancanti ab origine, precluderebbero la costituzione del rapporto.
I giudici del merito, in particolare, evidenziavano che in tale ottica andavano riguardati i comportamenti attribuiti al dipendente, al quale era stata addebitata la redazione di articoli di stampa, anche in violazione dei doveri di segretezza connessi al servizio; inoltre, il numero ridotto degli articoli redatti ed il loro contenuto, dimostravano l’esiguità dell’impegno profuso dal dipendente nella attività di collaborazione giornalistica, peraltro previamente autorizzata dal Comune, e la sua compatibilità con le funzioni rivestite di agente di polizia municipale.
Avverso la decisione sfavorevole, il Comune ricorreva in Cassazione.
Il contesto normativo
Secondo la prassi ministeriale (n. 6/2014 Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione), gli incarichi che presentano i caratteri dell’abitualità e professionalità ai sensi dell’art. 60, D.P.R. n. 3 del 1957, sono vietati ai dipendenti della pubblica amministrazione, sicché il dipendente pubblico non potrà “esercitare attività commerciali, industriali, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro“. L’incarico presenta i caratteri della professionalità laddove si svolga con i criteri dell’abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità, senza necessariamente comportare che tale attività sia svolta in modo permanente ed esclusivo.
Sono escluse dal divieto di cui sopra, ferma restando la necessità dell’autorizzazione e salvo quanto previsto dall’art. 53, comma 4, D.Lgs. n. 165 del 2001: a) l’assunzione di cariche nelle società cooperative, in base a quanto previsto dall’art. 61, D.P.R. n. 3 del 1957; b) i casi in cui sono le disposizioni di legge che espressamente consentono o prevedono per i dipendenti pubblici la partecipazione e/o l’assunzione di cariche in enti e società partecipate o controllate (si vedano a titolo esemplificativo e non esaustivo: l’art. 60, D.P.R. n. 3 del 1957; l’art. 62, D.P.R. n. 3 del 1957; l’art. 4, D.L. n. 95 del 2012); c) l’assunzione di cariche nell’ambito di commissioni, comitati, organismi presso amministrazioni pubbliche, sempre che l’impegno richiesto non sia incompatibile con il debito orario e/o con l’assolvimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro; d) altri casi speciali oggetto di valutazione nell’ambito di atti interpretativi di indirizzo generale (ad esempio, circolare n. 6 del 1997 del Dipartimento della funzione pubblica, in materia di attività di amministratore di condominio per la cura dei propri interessi; parere 11 gennaio 2002, n. 123/11 in materia di attività agricola). Sono, inoltre, vietati, gli incarichi che, sebbene considerati singolarmente e isolatamente non diano luogo ad una situazione di incompatibilità, considerati complessivamente nell’ambito dell’anno solare, configurano invece un impegno continuativo con le caratteristiche della abitualità e professionalità, tenendo conto della natura degli incarichi e della remunerazione previsti.
La decisione
L’ente comunale si lamentava del fatto che i giudici del merito avessero concentrato la propria attenzione esclusivamente su tre episodi, tralasciando di considerare, come desumibile già dal provvedimento di decadenza, che il dipendente aveva pubblicato in meno di due mesi, un numero di articoli ben superiore, pari a venticinque.
Facendo leva sui concetti di ampiezza delle prestazioni e di intensità della collaborazione, l’ente locale riteneva che la condotta assunta dal dipendente fosse idonea a distoglierlo dalle proprie mansioni di agente di polizia municipale in modo da pregiudicarne il rendimento.
Ebbene, la Corte ha chiarito, in primis, che quando nel ricorso per Cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate, o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, il motivo è inammissibile, poiché non consente alla Corte di Cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione.
Nel caso in esame il Comune pur deducendo che i giudici del merito, avessero male interpretato la disposizione normativa indicata nella intestazione del motivo, in realtà, si limitava a censurare l’interpretazione delle risultanze di causa ritenuta inadeguata, sollecitando e cercando di superare quelli che sono i limiti del giudizio di Cassazione, un nuovo giudizio di merito su quelle stesse risultanze.
Gli Ermellini hanno, invece, affermato che la motivazione della Corte d’Appello, congrua e completa, muove da una critica della disposizione di cui all’art. 6, D.P.R. n. 3 del 1957, con la quale i giudici del merito hanno mostrato di conoscere e condividere l’indirizzo tracciato dalla Cassazione secondo cui in materia di pubblico impiego, la disciplina della incompatibilità prevista dagli artt. 60 e seguenti, D.P.R. n. 3 del 1957, applicabile a tutti i dipendenti pubblici contrattualizzati e non, a norma dell’art. 53, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001, nonché ai dipendenti degli enti locali in virtù della abrogazione dell’art. 241, R.D. n. 393 del 1934, ex art. 64, L. n. 142 del 1990, da cui discende l’istituto della decadenza dal rapporto di impiego, è estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all’art. 55, D.Lgs. n. 165 del 2001.
La motivazione, dunque, procede alla analitica disamina degli episodi oggetto di specifica censura da parte appellante, rimanendo coerente nei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa, e pervenendo alla conclusione secondo cui l’impegno profuso dal dipendente nello svolgimento della attività di collaborazione giornalistica, per la esiguità che lo connota, non determinava una situazione di incompatibilità con le funzioni di agente di polizia municipale alle quali egli era addetto.
Rita Mazzacano
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