Separazione e divorzio: ribadita dalla Cassazione la piena autonomia, anche processuale, tra i due procedimenti

Separazione e divorzio: ribadita dalla Cassazione la piena autonomia, anche processuale, tra i due procedimenti

Cass. civ., Sez. VI–I, Ord. 04 maggio 2022, n. 14035

La Corte di Cassazione ha affermato che tra il giudizio di separazione giudiziale e quello di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio non vi è alcun rapporto di pregiudizialità o di interdipendenza e ciò sia ai fini della decorrenza del termine per la proposizione della domanda, sia ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio, per cui la circostanza che sia pendente, su iniziativa di uno dei coniugi in lite nel giudizio di divorzio, un procedimento rivolto a conseguire una pronuncia di addebitabilità della separazione, non può essere invocata né per paralizzare la domanda di divorzio, né per conseguire la sospensione del processo di divorzio, a norma dell’art. 295 c.p.c., difettando il requisito della pregiudizialità dell’una rispetto all’altra controversia.

Riflessioni e spunti critici di commento. Con questa recentissima ed interessante pronuncia la Corte Suprema ha attestato, anche sotto un profilo squisitamente processuale, l’assoluta indipendenza tra i due principali procedimenti giudiziali della crisi coniugale.

Dopo avere, infatti, ripetutamente affermato la ormai indiscussa ininfluenza delle decisioni di natura economica assunte in sede di separazione rispetto a quelle derivanti dal successivo procedimento di divorzio, i Giudici di legittimità sono intervenuti, con chiarezza ed efficacia, anche per dirimere una questione che evidentemente ancora oggi trova spazio nelle nostre aule giudiziarie.

Nonostante, invero, la distinzione ontologica tra le due diverse fattispecie sia ormai molto chiara, risiedendo essa non solo nel mantenimento o meno del vincolo matrimoniale, giuridicamente inteso nella sua portata negoziale ed obbligatoria, ma anche e soprattutto nei differenti presupposti di diritto che contraddistinguono il contributo di mantenimento rispetto all’assegno divorzile, sotto il profilo processuale necessitava tale esaustivo intervento della giurisprudenza di legittimità.

La giusta precisazione oggi apportata dalla Cassazione, dunque, diventa l’ulteriore tassello di demarcazione tra i due istituti poiché va ad interessare un contesto in cui troppo spesso le vicende personali e coniugali si intrecciano tra loro scontrandosi anche con le differenti necessità pratiche dei coniugi contendenti.

Oggi, invece, la Corte Suprema va a dirimere una controversia che nasce da una sentenza non definitiva del Giudice di primo grado dichiarativa della sola separazione personale dei coniugi con contestuale distinta ordinanza di disposizione del prosieguo del procedimento in via istruttoria per la delibazione sulle altre questioni, con particolare riguardo alla dichiarazione di addebito ed alla regolamentazione degli aspetti economici della coppia.

Si tratta, del resto, di una delle più comuni e ricorrenti prassi processuali in uso nei nostri Tribunali, da sempre giustamente indirizzati, nel precipuo interesse delle parti a godere quanto prima della separazione invocata anche per intuibili profili pratici e di vita corrente, a disciplinare da subito la predetta separazione per poi concentrare tutte le forze ed i tempi dell’attività di udienza sugli aspetti più complicati e contrastanti della cessazione dell’unione matrimoniale.

Nel caso in commento, dunque, a seguito della sentenza non definitiva di separazione veniva ritualmente promosso il giudizio di divorzio che ugualmente veniva deciso, sempre con sentenza non definitiva, solo con riguardo alla immediata declaratoria di cessazione degli effetti civili del matrimonio, sottoponendo poi a sospensione gli altri capi di domanda in attesa dell’esito della definizione della separazione ed in particolare della domanda di addebito avanzata in questa sede.

La particolarità del caso in commento, però, giustamente poi rimesso all’esame della Cassazione, è determinata dal fatto che, emessa dal giudice della separazione la sentenza definitiva di questa fase della crisi coniugale con declaratoria anche di addebito e correttamente avanzata, nel procedimento di divorzio,  istanza ex art. 297 cpc di riassunzione del giudizio sospeso, quest’ultima veniva ritenuta inammissibile per il mancato passaggio in giudicato, per intervenuto appello, della anzidetta sentenza di separazione dichiarativa dell’addebito.

Avverso tale decisione di inammissibilità, infatti, veniva proposto ricorso per regolamento di competenza sul presupposto che i primi giudici avessero in tal modo violato la disciplina della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c.

E’ dunque su questo specifico punto, come è evidente non di poco conto per le implicazioni pratiche che lo stesso inevitabilmente comporta, che la Corte Suprema ha assunto una posizione netta e, dobbiamo dire, anche condivisibile ed appropriata.

Gli Ermellini, infatti, riprendendo oltretutto un conforme e recentissimo orientamento addirittura delle Sezioni Unite[1] hanno opportunamente precisato come “salvi i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione normativa specifica che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c.”.

La Corte, dunque, nella particolare fattispecie in commento, ha parlato testualmente di “pregiudizialità tecnica” del procedimento di separazione rispetto a quello del divorzio, certamente volendosi riferire unicamente alla necessità che il primo provvedimento sia stato dichiarato, anche solo appunto con sentenza non definitiva, perché sia proponibile ed attivabile quello di cessazione degli effetti civili del matrimonio, senza tuttavia alcuna influenza e/o rilevanza di sorta tra i due giudizi che rimangono, secondo lo spirito autentico del Legislatore, assolutamente autonomi ed indipendenti tra loro.

Per questa ragione, pertanto, la Cassazione ha stigmatizzato apertamente la decisione assunta dal giudice del divorzio di sospensione del giudizio a lui rimesso e precisa chiaramente come, al contrario, sia legittimo in tal caso proporre istanza di prosecuzione dello stesso per il chiaro disposto normativo di cui all’art. 297 c.p.c. e, se disattesa questa, procedere anche a regolamento necessario di competenza, come del resto avvenuto nella vicenda processuale in esame.

La sicurezza con la quale risulta esprimersi la Corte di Cassazione è, del resto, tale da prevedere, nella pronuncia in commento, come un eventuale sopravvenuto verificarsi di conflitto tra giudicati possa e debba essere tranquillamente definito nel rispetto dei principi di cui all’art. 336 comma 2 cpc[2].

Il ragionamento logico e giuridico seguito dai Giudici di legittimità si fonda, invero, sulla piena libertà per il giudicante di disporre la sospensione del procedimento di divorzio, ovviamente nell’esercizio del proprio potere officioso, ma ponendo a base di detta determinazione presupposti di diritto totalmente differenti rispetto a quelli individuati nella fattispecie in esame.

Secondo la Corte, infatti, non è ammissibile parlare in questi termini di “sospensione necessaria” del processo di divorzio motivandola con la permanenza dell’applicazione dell’art. 295 c.p.c., per intenderci quello che regolamenta proprio la pregiudizialità di un giudizio rispetto ad un altro, ed ancor meno è consentito sostanziare tale sospensione sul presupposto, ritenuto errato, che nella causa asseritamente ex se pregiudicante, relativa alla separazione personale dei coniugi, la sentenza di primo grado dichiarativa dell’addebito non abbia acquisito efficacia di cosa giudicata per effetto dell’appello proposto.

Secondo la Cassazione, invece, sarebbe legittimo semmai sospendere il processo che sia ritenuto dipendente, in pratica quello del divorzio, ma unicamente ai sensi dell’art. 337 c.p.c. che disciplina i casi di “sospensione dell’esecuzione e dei processi”, più comunemente nota come “sospensione facoltativa”.

L’intento, infatti, della Corte è quello di indurre il giudice di merito a non volersi “acquietare” su un concetto, aprioristico, di sospensione necessaria del giudizio di divorzio in attesa della definitività della pronuncia di addebito della separazione, ma, al contrario, spingerlo a determinarne, di volta in volta, i presupposti della pregiudizialità in maniera effettiva e concretamente sussistente, motivandone adeguatamente la decisione[3].

La distinzione messa in luce dai giudici di legittimità in ordine alle due richiamate disposizioni normative non è di poco conto e, soprattutto, non scaturisce da mere, semplici disquisizioni interpretative poiché non è certamente un caso che l’art. 295 c.p.c. sia collocato nel Titolo I del Libro Secondo e quindi nell’alveo delle norme che regolamentano il procedimento dinanzi al Tribunale, mentre l’art. 337 trovi sia posizionato entro il Titolo Terzo dello stesso Libro disciplinante “Le impugnazioni”.

Già solo, infatti, da questa differente sistemazione per c.d. “logistica” nella più ampia architettura del nostro Codice di Procedura Civile si denota la finalità ultima che muove il ragionamento seguito dalla Corte di Cassazione, poiché si vuole in tal modo conferire alle decisioni assunte, anche in via non definitiva o comunque non con efficacia di cosa giudicata, nei due diversi procedimenti della crisi coniugale il ruolo autonomo, e soprattutto distintivo, che esse meritano.

Se dunque l’intento precipuo dei fautori della tesi dell’applicabilità della sospensione necessaria è quello dell’esigenza di evitare un possibile conflitto di giudicati, è evidente come nel tempo questa posizione si sia progressivamente ridimensionata andando ad inglobare ulteriori, e superiori, principi di ordine costituzionale e sovranazionale quali, in primis, quello della tutela della ragionevole durata del processo o ancora quello della effettività della tutela giurisdizionale.

Si vuole, in definitiva, in tal modo combattere lo stato di incertezza in cui i giudizi pregiudicante e pregiudicato finirebbero per trovarsi, destinato appunto a soccombere in presenza di una sentenza che abbia deciso il primo, indipendentemente dal fatto che essa sia non definitiva o che comunque non sia passata in giudicato, proprio per la provvisoria esecutorietà che le deriva dal disposto di cui all’art. 282 c.p.c.

Il tema, oltretutto, non è nuovo e soprattutto spazia oltre i confini dello specifico contesto processuale entro il quale ci muoviamo con la sentenza in commento, poiché già con ordinanza n. 362 del 13 gennaio 2021 la Sesta Sezione della Corte Suprema rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione relativa proprio al rapporto tra la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. e quella facoltativa di cui all’art. 337 2° comma stesso Codice.

I Giudici di legittimità, invero, si erano già pronunciati[4] nel senso di ritenere che, alla luce di una interpretazione sistematica dell’art. 282 c.p.c., come riformato dalla Legge n. 353/1990, in presenza di un rapporto di pregiudizialità tra due procedimenti sia possibile la sospensione di quello pregiudicato solo ai sensi dell’art. 337 comma 2 c.p.c. quando quello pregiudicante sia stato definito con sentenza, anche non avente efficacia di giudicato.

In tal modo, dunque, la Corte Suprema limitava coerentemente l’ambito di operatività della “sospensione necessaria” ex art. 295 c.p.c. “al solo spazio temporale delimitato dalla contemporanea pendenza dei due giudizi di primo grado, senza che quello pregiudicante sia stato ancora deciso”, dal momento che, una volta intervenuta in questo una sentenza, si aprirebbe soltanto il varco all’applicazione della “sospensione facoltativa” ex art. 337 2° comma c.p.c.

Naturalmente, è evidente come la rimessione della questione alle Sezioni Unite manifesti il contrasto tra detta posizione e quella assunta dalla successiva giurisprudenza di legittimità a sezioni semplici e persino da una parte della Dottrina che ovviamente non si è sottratta ad un approfondimento critico e dibattuto del tema[5].

Ecco dunque enucleato, e come abbiamo ribadito, il fondamentale principio secondo il quale, dunque, “tra il giudizio di separazione giudiziale e il giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio non vi è alcun rapporto di pregiudizialità o di interdipendenza e ciò sia ai fini della decorrenza del termine per la proposizione della domanda, sia ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio[6].

Tale concetto, invero, oltre ad essere rispondente alla più volte ricordata interpretazione orientata degli istituti della crisi coniugale, ci appare in ogni caso pienamente conforme ed in totale sintonia con il principio di economia processuale giustamente declinato anche dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU e con quello della effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost. laddove si rimetta ad una decisione valutata del giudice del processo pregiudicato e non ad automatismi normativi la determinazione circa l’efficacia e l’autorità della sentenza pronunciata nella lite pregiudicante.

Il tutto, si badi bene, in ossequio al disfavore che il Legislatore ha chiaramente manifestato verso il fenomeno sospensivo in quanto tale proprio con la essenziale riforma del 1990 e con la posizione, altrettanto critica, ripetutamente assunta anche dalla Corte Costituzionale[7].

 

 

 

 

 


[1] Vedi Cass. Civ. S.U. n. 21763 del 29 luglio 2021 e conforme Cass. Civ. Sez. VI sentenza n. 17936 del 9 luglio 2018
[2]Effetti della riforma o della cassazione – ….La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”
[3] La Cassazione richiama in proposito la sentenza delle proprie SS.UU. n. 10027 del 19 giugno 2012
[4] Vedi sempre Cass. SS.UU. n. 10027 del 19 giugno 2012
[5] Vedi Zuffi “Le S.U. ammettono la sola sospensione discrezionale del processo sulla causa dipendente allorché la causa pregiudiziale sia stata decisa con sentenza di primo grado impugnata”, in Corriere Giur., 2012, 1322 segg. o Menchini “Le Sezioni Unite sui rapporti tra gli articoli 295,297 e 337, comma 2, cpc: una decisione che non convince”, in Riv. Dir. Proc., 2013, 689 segg.
[6] La Corte si rifà alle proprie sentenze n. 2009 del 1981 e n. 3529 del 1977
[7] Vedi Corte Cost. sentenze n. 182 del 31 maggio 1996 e n. 132 del 12 aprile 2005 di non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 279 comma 2 n. 4 e comma 4, 277 e 295 cpc

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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento. All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento. Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo. Dà voce al proprio pensiero per il tramite degli articoli pubblicati sul proprio sito - SLS – StudioLegaleSodo (www.studiolegalesodo.it) nonché attraverso i rispettivi canali social ( FaceBook e LinkedIn ) ed è autrice di vari articoli e note a sentenza su riviste telematiche del diritto di primario interesse nazionale.

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