Servitù prediali: disciplina e recenti orientamenti in tema di immobile abusivo
Sommario: 1. Diritti reali: classificazioni – 2. Le servitù prediali: disciplina – 3. Doveri in capo al titolare del fondo servente – 4. Modi di costituzione delle servitù prediali – 5. Cause di estinzione delle servitù prediali – 5.1. Confusione – 5.2. Non uso – 5.3. Inutilizzabilità e inutilità sopravvenute – 6. Il mantenimento di un diritto di servitù a distanza illegale da un altro fondo o dal confine e mantenimento del medesimo diritto su un immobile abusivo
Le servitù prediali rientrano nella categoria dei diritti reali di godimento e consistono nel peso imposto ad un fondo (cd. “servente”) per l’utilità di un altro fondo (cd. “dominante”) appartenente ad un diverso proprietario, sulla base di un titolo che può essere negoziale, giudiziale o amministrativo. Come si vedrà, esse presuppongono, quindi, un “rapporto di servizio” tra due fondi, che non devono essere necessariamente contigui, essendo sufficiente che siano posti in maniera tale da consentire l’esercizio del diritto.
L’istituto, che trova il proprio fondamento storico negli “iura praediorum” del diritto romano, è disciplinato dagli artt. 1027 e ss. del codice civile e svolge la funzione di regolare gli interessi dei proprietari confinanti, in ossequio alle esigenze che emergono nella prassi economico-sociale.
Allo scopo di compiere una disamina della disciplina delle servitù prediali ed analizzare i recenti approdi giurisprudenziali in materia di immobile costruito abusivamente occorre preliminarmente soffermarsi sulla nozione di diritto reale, con particolare riferimento ai diritti reali di godimento, quest’ultima essendo la natura delle servitù prediali.
1. Diritti reali: classificazioni
All’interno della categoria dei diritti assoluti distinguiamo i diritti reali, che sono diritti assoluti su una cosa, una res, da cui derivano il nome.
In quanto diritti assoluti, i diritti reali presentano le principali caratteristiche dell’assolutezza, potendo essere fatti valere nei confronti di tutti i consociati sui quali incombe solo un generico dovere di astensione, dell’immediatezza, giacché il titolare realizza il diritto direttamente senza che sia necessaria la collaborazione di altri soggetti, come accade nei diritti di credito, e della tipicità, nel senso che i diritti reali sono solo quelli previsti dalla legge, costituendo pertanto un numerus clausus.
All’interno della categoria dei diritti reali, occorre distinguere tra diritti su cosa propria – nel nostro ordinamento unico diritto di tal genere è il diritto di proprietà che attribuisce al suo titolare le più ampie facoltà sul bene, nei limiti imposti dalla legge – e diritti reali su cosa altrui, trattandosi di diritti che insistono sul diritto di proprietà. In tal senso, i diritti reali su cosa altrui presuppongono una scissione di facoltà nell’ambito del diritto di proprietà, nel senso che talune di esse sono, per così dire, compresse, con il consenso o anche talvolta contro la volontà del proprietario, così da permettere ad un terzo di esercitare un diritto che ha come contenuto queste facoltà. In tal modo l’usufruttuario gode del bene, laddove il proprietario vede compressa la relativa facoltà di godimento; il titolare del diritto di superficie può costruire sul terreno altrui e il proprietario vede compressa la relativa facoltà[1].
Si parla di compressione o anche di elasticità del dominio in quanto il diritto di proprietà riacquista automaticamente la propria pienezza nello stesso momento in cui il diritto reale su cosa altrui viene meno, senza che sia necessaria alcuna forma giuridica di riappropriazione e, dunque, senza alcun atto di retrocessione, dando vita al fenomeno giuridico della consolidazione.
A loro volta, i diritti reali su cosa altrui si distinguono in diritti reali di godimento e diritti reali di garanzia. I primi comprimono il diritto di proprietà con intensità diversa a seconda del tipo di diritto, potendo detta compressione essere massima in alcuni casi, come nell’ipotesi dell’usufrutto.
I diritti reali di godimento si distinguono, quanto al contenuto, in due gruppi: da un lato, stanno i diritti di superficie, enfiteusi, usufrutto, uso ed abitazione – i quali presuppongono un rapporto immediato tra soggetti rispetto ad un’unica res; dall’altro lato, stanno le servitù prediali le quali, pur presupponendo sempre un rapporto soggettivo, concernono non un’unica res bensì la mediazione di due fondi.
Accanto ai diritti reali di godimento, troviamo i diritti reali di garanzia, forse più simili ai diritti di credito se non fosse per alcune particolari caratteristiche che si fanno valere erga omnes. Come si evince dal nome, si tratta di diritti che costituiscono una garanzia su un bene, garanzia talmente incisiva da poter essere opposta nei confronti di qualsiasi successivo avente diritto sulla cosa.
Sono diritti reali di garanzia: il pegno sui beni mobili e l’ipoteca, di regola costituita sui beni immobili.
2. Le servitù prediali: disciplina
Come anticipato, tra i diritti reali di godimento rientra la servitù prediale la quale, ai sensi dell’art. 1027 c.c., “consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente ad un diverso proprietario”. C’è dunque quella realità intesa come inerenza del peso e dell’utilità a ciascun fondo, che manca, ad esempio, nel fatto di parcheggiare un’auto in un fondo, sicché non c’è servitù ma possesso (C. 14/23708). Elementi necessari ed indefettibili della servitù prediale sono dunque il fondo servente, ovvero il fondo che sopporta il peso a favore dell’altro fondo, ed il fondo dominante, ovvero il fondo che, in relazione al peso imposto sul fondo servente, ne trae utilità.
Ad una compressione delle facoltà del proprietario del fondo servente, corrisponde, quindi, un’utilità del fondo dominante.
Quanto all’utilità che deve trarre il fondo dominante dall’operazione, occorre sottolineare come essa debba essere effettiva, non necessariamente perpetua ma provvisoria, con il solo limite dell’effimero (Cass. 01/883), ed oggettiva, ovvero riferita al fondo nella sua concreta destinazione e conformazione. In altre parole, l’utilità deve potersi apprezzare da parte di qualsiasi proprietario e non già dal singolo proprietario, in ciò consistendo la caratteristica della realità e dell’afferenza della servitù al fondo e non al suo proprietario.
Ai sensi dell’art. 1028 c.c., “l’utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante. Può del pari essere inerente alla destinazione industriale del fondo”.
Sul punto, giova richiamare la sentenza nella quale i giudici di legittimità hanno chiarito che “Il concetto di utilitas, intesa come elemento costitutivo di una servitù, non può avere riferimento ad elementi soggettivi ed estrinseci relativi all’attività personale svolta dal proprietario del fondo dominante, ma va correttamente ricondotto al solo fondamento obiettivo e <reale> dell’utilità stessa, sia dal lato attivo che da quello passivo, dovendo essa costituire un vantaggio diretto del fondo dominante come mezzo per la migliore utilizzazione di questo (la S.C., enunciando il principio di diritto di cui in massima, ha confermato la sentenza del giudice di merito con la quale era stata esclusa la natura di servitù in relazione ad un passaggio sul fondo che si pretendeva servente esercitato da parte del proprietario del fondo finitimo al fine esclusivo di attingere acqua presso una fonte sita in altra località, di proprietà di terzi, e priva di qualsivoglia capacità irrigua o di destinazione all’approvvigionamento idrico del fondo predetto, Cass. 97/10370).
Dallo stesso art. 1027 c.c., che parla di diverso proprietario, ricaviamo il principio generale in materia di servitù del “nemini res sua servit”, in base al quale il proprietario di due fondi non può costituire una servitù a vantaggio di uno ed a carico dell’altro, anche se può porre l’uno ad obiettivo servizio dell’altro, costruendo, ad esempio, un acquedotto che attraversa i due fondi, ciò che ha particolare rilevanza se, in un secondo momento, uno dei fondi sia alienato [2](in tal senso, emblematico è l’istituto della costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia). Non si viola però il divieto se si è proprietari di un fondo e comproprietari dell’altro (Cass.98/6994) ovvero se si concede un fondo in enfiteusi o usufrutto costituendo contestualmente su di esso una servitù a vantaggio del fondo mantenuto in proprietà (Cass. 75/2583)[3].
Sebbene il codice civile non lo preveda espressamente, è opinione consolidata da tempo quella per cui i fondi, anche se non confinanti, devono essere almeno vicini così da permettere l’esercizio della servitù. Sul punto, giova richiamare la sentenza nella quale i giudici di legittimità hanno chiarito che “L’elemento della contiguità o vicinanza dei fondi, non previsto espressamente in nessuna norma come requisito essenziale della servitù prediale, costituisce un elemento di fatto più che di diritto, discendente dall’intima essenza della servitù, ossia dal criterio dell’uso e dell’utilità: esso non ha valore assoluto, né va inteso nel senso empirico di materiale contatto o aderenza immediata, bensì nel senso di un rapporto tra due fondi che si trovino in tale reciproca situazione da rendere possibile la sussistenza di una relazione di servizio tra i medesimi” (Cass. 83/965).
La giurisprudenza ammette che lo stesso contenuto di un contratto ad effetti reali costitutivo di servitù possa essere calato in un contratto ad effetti obbligatori, costitutivo dunque di un rapporto obbligatorio, quante volte il creditore della prestazione non sia proprietario di un fondo contiguo. Nulla vieta infatti che il proprietario di un fondo si obblighi a permettere il passaggio sul fondo stesso a chi magari è nullatenente e solo intende attraversare il fondo per godere del paesaggio o per fotografare la natura. Anche in questo caso (si parla al riguardo di servitù irregolari), il diritto è peraltro opponibile al solo proprietario contraente e non dunque a tutti i futuri proprietari del fondo (a meno di esplicito impegno assunto da costoro nei successivi contratti di acquisto)[4].
Allo stesso modo, essendo carente il rapporto tra i fondi, non sono ritenute servitù prediali i diritti e le servitù di uso pubblico aventi, ad esempio, come contenuto la facoltà di visitare una villa di interesse artistico o di passare su una strada privata, quando il proprietario ha messo il bene a disposizione di una comunità indeterminata per soddisfare un’esigenza comune non in via precaria e per mera tolleranza (Cass. 02/12167).
Da ultimo, occorre chiarire che non costituiscono servitù prediali neanche i cc.dd. usi civici, diritti reali sui generis imprescrittibili, inalienabili e perpetui spettanti a determinate collettività comunali sui beni del Comune con scopi precisi (si pensi al diritto di legnatico o di fungiatico).
Le servitù, infine, non devono essere confuse con i limiti e i vincoli imposti dalla legge alla proprietà, non essendo ravvisabili né l’automatismo né la perpetuità e la continuità, come nel caso del vincolo di allagamento di un terreno privato confinante.
Sul punto, si evidenzia la recente pronuncia con la quale la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha affermato che “La servitù di allagamento non ha natura volontaria, in quanto è oggetto di un atto di imperio, sicché, da un lato, la sua regolamentazione costituisce una forma di governo del territorio rientrante nella competenza concorrente tra Stato e Regioni, in virtù degli artt. 117 Cost. e 5, comma 10, del d.P.R. n. 327 del 2001, e, dall’altro, non è riconducibile, per i suoi caratteri di temporaneità e periodicità, al novero delle servitù di natura civilistica, per le quali opera il principio di tipicità, ma si colloca nell’ambito dei vincoli pubblicistici alla proprietà privata indicati solo descrittivamente come “servitù” dall’art. 43, comma 6-bis, del predetto d.P.R. n. 327 del 2001” (Cass., S.U., 17/19402).
3. Doveri in capo al titolare del fondo servente
Quanto ai doveri posti in capo al titolare del fondo servente, unica previsione è quella contenuta nell’art. 1030 c.c. ai sensi del quale “Il proprietario del fondo servente non è tenuto a compiere alcun atto per rendere possibile l’esercizio della servitù da parte del titolare, salvo che la legge o il titolo disponga altrimenti”.
Dalla norma testè richiamata si ricava che in capo al titolare del fondo servente non sussiste alcun altro obbligo se non quello di sopportare il peso imposto sul suo fondo. In taluni casi poi, egli è tenuto ad un “non facere”, come nel caso della servitù di veduta. Non a caso, a tal proposito, si afferma che “servitus in faciendo consistere nequit”.
Non sono infrequenti le ipotesi in cui al titolare del fondo servente sia imposto non solo il pati tipico della situazione passiva del rapporto di servitù, ma altresì a specifiche prestazioni necessarie per consentire l’esercizio della servitù al titolare del fondo dominante, come succede, ad esempio, quando il proprietario del fondo servente sia tenuto a tenere in perfette condizioni d’uso la strada su cui si attua il passaggio veicolare. Si parla, in questi casi, di obbligazione propter rem, in cui debitore è colui che si trova attualmente ad essere il titolare del diritto di proprietà del fondo servente, mentre creditore è il proprietario del fondo dominante oppure il terzo cui detto proprietario abbia attribuito il godimento del bene con atto – traslativo o non ancora traslativo – della proprietà (Cass. 81/3221).
L’obbligazione accompagna il fondo e circola con esso con la conseguenza che non sarà possibile liberarsi di essa se non liberandosi della proprietà del fondo stesso: non è configurabile una sorta di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta dell’obbligazione, parallela a quella prevista in materia contrattuale (art. 1467 c.c.), anche se essa è divenuta nel tempo troppo gravosa.
È sempre possibile opporre l’eccezione di inadempimento qualora il titolare del diritto non esegua la controprestazione eventualmente pattuita, se del caso rafforzata da clausola penale.
Sul punto si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione affermando che l’art. 1030 c.c. “consente l’imposizione – per legge o per convenzione intercorsa tra le parti – di una prestazione di facere in capo al proprietario del fondo servente avente ad oggetto un’attività ulteriore da compiersi o prima che la servitù inizi ad essere esercitata (ad es.: atti volti a conferire al fondo la configurazione e l’assetto necessari per consentire l’esercizio della servitù) ovvero anche in un momento successivo. La suddetta prestazione accessoria imposta al proprietario del fondo servente dalla legge o dal titolo non entra propriamente a far parte del contenuto della servitù, ma costituisce oggetto di una obbligazione propter rem autonoma, ancorchè ad essa accessoria. Tra questa obbligazione (il cui adempimento può, perciò, essere tutelato mediante la previsione di una clausola penale contestuale all’accordo concluso) e la servitù sussiste, tuttavia, una relazione strumentale inscindibile, tale per cui essa ha ragion d’essere e risulta opponibile ai terzi solo se ed in quanto esiste ed è opponibile la servitù (Cass. n. 5129/1983), si trasferisce insieme alla servitù cui è accessoria (Cass. n. 3221/1981) e si estingue se viene a cessare quest’ultima. Per altro verso, la suddetta obbligazione esiste soltanto se risulta dal titolo costitutivo della servitù ed è opponibile a terzi solo se nella trascrizione dello stesso titolo costitutivo del diritto di servitù viene fatta apposita menzione della clausola concernente le prestazioni accessorie. Queste ultime sono, per l’appunto, qualificabili come obligationes propter rem (e non come obbligazioni personali e, quindi, “non ambulatorie”) allorchè abbiano un contenuto di facere funzionale al perseguimento dello scopo di consentire che la servitù inizi ad essere esercitata, mentre, quanto agli obblighi aventi ad oggetto prestazioni da eseguirsi (da parte del proprietario del fondo servente) dopo che la servitù ha iniziato ad essere esercitata, e fintantochè detto esercizio perdura, possono configurarsi come obbligazioni propter rem ad essa accessorie soltanto quelle aventi ad oggetto prestazioni di fare strumentali all’esercizio di una servitù affermativa. Sulla base di questa impostazione dogmatica consegue che la mancata o inesatta esecuzione della prestazione accessoria imposta dalla legge o dal titolo in capo al proprietario del fondo servente fa sorgere in capo a quest’ultimo l’obbligazione di risarcire i danni che siano derivati al proprietario del fondo dominante, il che giustifica la legittimità della pattuizione di una clausola penale accessoria con la quale le parti intendano predeterminare tale misura risarcitoria nel quantum e nella durata, trattandosi di un inadempimento contrattuale (art. 1218 c.c.), posto che si verte in tema di inadempimento di una prestazione dedotta in un’obbligazione propter rem (con l’effetto che il diritto al risarcimento del danno è soggetto alla prescrizione decennale e il titolare della servitù del fondo dominante non ha l’onere di provare che la mancata esecuzione della prestazione è imputabile a dolo o colpa del proprietario del fondo servente)” (Cass. 18/10046).
Più in generale, trattasi in questi casi degli obblighi di cui all’art. 1069 c.c., quando il titolo ponga le opere a carico del proprietario del fondo servente ovvero quando le opere giovino anche al fondo stesso.
Da tali obblighi, il titolare del fondo servente potrebbe liberarsi soltanto trasferendo ad altri la proprietà del fondo ovvero, più drasticamente, mediante l’abbandono del fondo, istituto espressamente previsto dall’art. 1070 c.c., il quale prevede la possibilità che egli rinunzi alla proprietà – o di parte di essa qualora l’esercizio della servitù sia limitato ad una parte del fondo – in favore del proprietario del fondo dominante.
Circa la natura del summenzionato atto di rinunzia non può non evidenziarsi come in dottrina si contrappongano due tesi: secondo taluni, si tratterebbe di atto unilaterale con cui, da un lato, si dismette immediatamente la proprietà sottraendosi all’obbligo reale di sostenere le spese relative e, dall’altro, si offre al proprietario del fondo dominante l’acquisto, a titolo gratuito, del fondo servente. Il proprietario del fondo dominante, dal canto suo, potrebbe accettare l’offerta, con atto scritto suscettibile di trascrizione, ed allora la fattispecie si completerebbe; in caso contrario, si avrebbe derelictio del bene con conseguente acquisto da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 827 c.c., il quale acquisterebbe il fondo libero da obblighi reali, che così si estinguerebbero. Tuttavia, a tale tesi potrebbero muoversi due critiche.
Secondo altra tesi, si tratterebbe di una sorta di offerta liberatoria, per il proprietario del fondo servente, quanto alle obbligazioni reali giacché, se il titolare del fondo dominante rifiutasse l’acquisto, il bene resterebbe in proprietà dell’altro, sebbene privo delle collegate obbligazioni.
Secondo l’opinione di chi scrive, entrambe le tesi sono criticabili: la prima, per il fatto di fare fantasiosamente derivare da una mera offerta, in caso di rifiuto da parte del titolare del fondo dominante, la perdita della proprietà in capo all’offerente, con conseguente acquisto da parte dello Stato, il quale acquisterebbe il fondo libero dagli obblighi. Soluzione questa che non trova – e non potrebbe essere altrimenti – conforto in nessuna norma civilistica.
Quanto alla seconda tesi, sembra difficile poter concepire l’idea che, in un ordinamento giuridico improntato a certi principi, un contraente possa liberarsi delle obbligazioni contrattualmente assunte semplicemente “comunicando” all’altra parte di volersene liberare.
Un’interpretazione letterale della norma permette, invece, di ritenere che il legislatore abbia voluto consentire al titolare del fondo servente di liberarsi delle obbligazioni reali assunte cedendo al titolare del fondo dominante la proprietà del fondo; qualora poi quest’ultimo dovesse rifiutare, nessun effetto coattivo ex lege – acquisitivo in capo allo Stato o di altra natura nella sfera giuridica delle parti contraenti – potrebbe prodursi, con la conseguenza che l’offerente resterebbe vincolato alle obbligazioni assunte, salva la possibilità di avvalersi di altri rimedi offerti dall’ordinamento.
4. Modi di costituzione delle servitù prediali
Quanto ai modi di costituzione delle servitù prediali, occorre distinguere le servitù volontarie dalle servitù coattive.
Sul punto, norma di riferimento è l’art. 1031 c.c., ai sensi del quale “Le servitù prediali possono essere costituite coattivamente o volontariamente. Possono anche essere costituite per usucapione o per destinazione del padre di famiglia”.
Comune è il modo volontario di costituzione delle servitù prediali, che può realizzarsi per atto inter vivos, mediante la stipula di contratto, ovvero mortis causa, in questo caso mediante disposizione di ultima volontà inserita nel testamento.
La costituzione di servitù mediante contratto può avvenire anche a titolo gratuito e, in tal caso, il relativo contratto dovrà assumere la forma della donazione, salvo che si tratti di donazione indiretta, come nel caso di contratto a favore di terzi. L’ordinamento ammette la possibilità che nell’atto di vendita di un fondo l’alienante costituisca una servitù a vantaggio di un altro fondo di sua proprietà (c.d. deductio servitutis).
Se non desta perplessità il fatto che la servitù possa costituirsi per volontà dei soggetti, altrettanto non può dirsi rispetto alla possibilità che essa possa essere costituita coattivamente, ossia anche contro la volontà delle parti.
La ragione di fondo che ha spinto il legislatore a prevedere una forma coattiva di costituzione della servitù va rinvenuta nel fatto che, in concreto, non sono infrequenti le ipotesi in cui il proprietario del fondo si trovi in situazioni difficili o, peggio, insostenibili.
Si pensi, ad esempio, alla servitù di passaggio coattivo di cui all’art. 1051 c.c.: la norma contempla l’ipotesi di un fondo che non abbia accesso sulla via pubblica, ma che potrebbe averlo con “eccessivo dispendio o disagio”. In questo particolare caso, la legge consente al proprietario del fondo intercluso che non sia riuscito ad accordarsi con quello del fondo confinante di rivolgersi al giudice affinché la servitù si costituisca per sentenza, sostituendosi in tal modo la volontà della legge a quella delle parti.
Altra ipotesi di servitù coattiva è quella di cui all’art. 1032 c.c., il quale ammette la possibilità che, nei casi espressamente previsti dalla legge, essa possa essere costituita con atto amministrativo, quante volte la PA sia titolare del diritto alla servitù. In tal caso, al titolare del fondo servente spetterà un’indennità, il cui pagamento è condizione per il suo esercizio, potendo altrimenti il proprietario opporsi al suo esercizio.
Circa l’ammontare dell’indennità, l’art. 1053 c.c. si limita a stabilire che essa debba essere proporzionata al danno cagionato dal passaggio.
Sul punto, la Corte di Cassazione ha chiarito che “In tema di servitù di passaggio coattivo, l’indennità – correlata dall’art. 1053 c.c. al danno secondum ius arrecato al proprietario del fondo servente dall’esercizio del diritto imposto per legge nel caso di fondo intercluso deve essere determinata tenendo conto non esclusivamente di valore della superficie asservita ma considerando ogni ulteriore pregiudizio che sia in concreto derivato al fondo servente per effetto della destinazione al transito di persone o veicoli, mentre non è indennizzabile il danno che sia soltanto astrattamente ipotizzabile, tra l’altro, per il deprezzamento del fondo” (Cass. 04/1545; in senso conforme, Cass. 01/7000).
Nei casi di servitù coattiva esaminati, è evidente come il diritto del proprietario del fondo intercluso sia un vero e proprio diritto potestativo, imprescrittibile ed irrinunziabile. Legittimati all’azione per chiedere la costituzione di servitù coattiva sono il proprietario ed altresì i titolari di un diritto reale di godimento (usufruttuario, enfiteuta, superficiario). Ciò risulta chiaro dagli artt. 1033, 1056, 1057 dove ci si riferisce al titolare dell’utilità in termini generici e non specifici (chi ha, anche solo temporaneamente, il diritto di utilizzarle – art. 1033; dare passaggio alle condutture elettriche – art. 1056; lasciar passare le gomene di vie funicolari – art. 1057) mentre per quanto riguarda l’art. 1051 il riferimento preciso al proprietario è ritenuto dalla dottrina non vincolante ai fini della legittimazione attiva, essendosi voluto il legislatore riferire solamente all’ipotesi più ricorrente[5].
Accanto alle ipotesi di costituzione coattiva della servitù, l’art. 1031 prevede la possibilità che la servitù si costituisca per usucapione.
A tal proposito, occorre richiamare l’art. 1066 c.c., ai sensi del quale “Nelle questioni di possesso delle servitù si ha riguardo alla pratica dell’anno antecedente e, se si tratta di servitù esercitate a intervalli maggiori di un anno, si ha riguardo alla pratica dell’ultimo godimento”.
La norma richiamata ricalca, collocandola nella sede più opportuna, la disposizione dell’art. 700 del codice abrogato, collocata nel titolo del possesso.
Per stabilire esattamente l’ambito di applicazione della norma giova rilevare che il possesso è qui considerato in funzione del godimento, ossia dell’esercizio della servitù, e non della sua costituzione, come suggerito dalla stessa collocazione della norma nel capo sull’esercizio delle servitù. Alla luce di detta collocazione, possono venire in considerazione, sotto l’art. 1066, solo questioni di possesso quale stato di godimento in atto sottospecie di servitù, e non già in funzione di titolo costitutivo della servitù medesima.
Del tutto peculiare è l’acquisto a titolo originario per destinazione del padre di famiglia, in cui l’acquisto ha luogo se due fondi, attualmente divisi, siano stati posseduti dallo stesso proprietario, il quale ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù, come espressamente sancito dall’art. 1062 c.c.
Alla luce dell’istituto richiamato, non è necessario che il precedente proprietario, nel dividere i due beni e lasciarli a due soggetti diversi, abbia espressamente previsto, a carico di uno dei due, la servitù di passaggio: lo stato di asservimento di un terreno in favore dell’altro è automatico per il solo fatto che lo stato dei luoghi rimanga come quello preesistente. Quanto all’onere probatorio, la servitù per destinazione del padre di famiglia può essere provata in qualsiasi modo, anche senza bisogno di un atto scritto. Ciò che conta, infatti, è unicamente l’oggettiva destinazione delle opere permanenti ed apparenti inequivocamente destinate al servizio di una parte del fondo, senza che rilevi alcun intento dell’originario proprietario.
In sostanza, si deve realizzare una situazione tale che se i fondi fossero stati di diversi proprietari sarebbe esistita una servitù. Poiché tuttavia nemini res sua servit, tale condizione, finchè i fondi sono di proprietà di un unico soggetto, non potrà realizzarsi, tanto ciò vero che la destinazione opera immediatamente e la servitù nasce automaticamente se il proprietario aliena un fondo mantenendo la proprietà dell’altro ovvero, in caso di fondo unico, lo divide alienandone solo una parte e riservando a sé l’altra[6].
Ai sensi dell’art. 1062, comma 2, in sede di alienazione del fondo è possibile manifestare una volontà contraria alla nascita della servitù per destinazione del padre di famiglia, mediante apposita clausola contrattuale resa nota o conoscibile all’acquirente.
Sul punto, la giurisprudenza attribuisce al silenzio dell’atto sulla sorte del rapporto di servizio lo specifico significato di mantenere ferma la situazione di fatto a condizione che un tale rapporto tra i fondi sussista e risulti provato.
Di recente si è pronunciata la Corte di Cassazione la quale, in linea con il tradizionale orientamento cristallizzato nella sentenza 1995/3116, ha ribadito che “A norma dell’art. 1062 c.c., la costituzione di una servitù per destinazione del padre di famiglia è impedita solo dalla contraria manifestazione di volontà del proprietario dei due fondi al momento della loro separazione, e tale contraria manifestazione di volontà non può desumersi per “facta concludentia”, ma deve rinvenirsi in una clausola contrattuale con la quale si convenga esplicitamente di volere escludere il sorgere della servitù corrispondente alla situazione di fatto esistente fra i due fondi e determinata dal comportamento del comune proprietario, ovvero in una qualsiasi clausola il cui contenuto sia incompatibile con la volontà di lasciare integra ed immutata la situazione di fatto che, in forza della legge, determinerebbe la nascita della servitù”(Cass. 2018/4872).
5. Cause di estinzione delle servitù prediali
Quanto alle cause di estinzione delle servitù prediali, occorre distinguere a seconda che l’effetto estintivo derivi dalla volontà delle parti ovvero discenda automaticamente dal verificarsi di taluni fatti.
Per quanto riguarda le servitù volontarie, l’ordinamento contempla le ipotesi di compimento del termine finale o avverarsi della condizione risolutiva, le quali, se eventualmente introdotte nel titolo, determinano l’estinzione del diritto di servitù.
Accanto alle ipotesi menzionate, le servitù volontarie, a differenza di quelle coattive che si estinguono nel momento in cui viene meno la necessità per cui sono state costituite, le servitù volontarie vengono meno soltanto per confusione, non uso, inutilizzabilità o inutilità sopravvenute o quando siano state stipulate nuove pattuizioni, consacrate in atto scritto, che ne modifichino l’estensione o le sopprimano.
5.1. Confusione
Situazione che si realizza allorché viene meno, per qualunque motivo, il requisito della diversità di proprietario dei due fondi. Infatti, per il principio “nemini res sua servit”, quando in una sola persona si riunisce il diritto di proprietà del fondo dominante con quello del fondo servente, la servitù si estingue in modo definitivo con la conseguenza di non potersi ricostituire se, successivamente, la confusione dovesse venir meno a seguito del trasferimento del fondo servente ad altro soggetto.
5.2. Non uso
Ai sensi dell’art. 1073 c.c., “La servitù si estingue per prescrizione quando non se ne usa per venti anni”.
Sul punto, la norma richiamata distingue due diverse ipotesi: se la servitù è affermativa e continua (ad esempio: servitù di acquedotto) in cui il fatto dell’uomo è solo iniziale (posizione delle condotte d’acqua) ovvero se la servitù non presuppone un comportamento attivo del proprietario del fondo dominante, come è nel caso delle servitù negative (ad esempio servitus altius non tollendi cioè a dire divieto di sopraelevazione di edificio), non può di certo imputarsi al titolare della servitù il non uso in termini positivi, visto che l’uso non presuppone, come detto, alcuna iniziativa. La prescrizione allora inizierà a decorrere dal momento in cui si è verificato un fatto, naturale (distruzione dell’acquedotto) o imputabile al controinteressato (ad esempio, sopraelevazione effettuata dal titolare del fondo servente in spregio al divieto), che ha impedito l’esercizio della servitù, privando il titolare della relativa utilità (Cass. 98/326).
Se invece la servitù è affermativa ma discontinua (caso tipico: la servitù di passaggio), poiché essa consiste in una serie di comportamenti reiterati del titolare, la prescrizione inizierà a decorrere dall’ultimo atto di esercizio e si interromperà, per poi iniziare di nuovo, con quello seguente: se tra due successivi atti di esercizio trascorrono più di venti anni, la servitù si estingue per prescrizione[7].
Sull’estinzione delle servitù prediali per non uso si è espressa, con una recentissima sentenza, la Corte di Cassazione la quale ha affermato che “In tema di servitù prediali, le modalità di utilizzazione del fondo servente si distinguono in modalità essenziali e modalità estrinseche: le prime incidono o si riflettono sull'”utilitas” con deciso carattere fisionomico, in quanto integrano il vantaggio conferito dal titolo al fondo dominante, mentre le seconde consistono in elementi meramente accessori, non influenti sul contenuto della servitù, in quanto non incidono sull'”utilitas”. Solo la mancata attuazione delle modalità essenziali importa che la servitù non sorga, perché non si concretizza il vantaggio del fondo dominante, mentre l’inattuazione o la modificazione delle modalità estrinseche sono irrilevanti e non importano né la mancanza di costituzione della servitù, né la sua estinzione. (Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto che l’innovazione realizzata su di un fondo gravato da servitù di acquedotto, consistente in un manufatto in parte ricadente sulla condotta, incidesse sulle sole facoltà di manutenzione e pulizia della conduttura, escludendo che comportasse l’estinzione della servitù)” (Cass. 2019/20549).
5.3. Inutilizzabilità e inutilità sopravvenute
Il legislatore ha previsto, all’art. 1074 c.c., due cause di estinzione che si fondano sulla necessità che il diritto non solo possa essere esercitato in concreto, ma che sia in grado, altresì, di realizzare quell’utilità che l’ordinamento ha ritenuto meritevole di tutela. Ebbene, qualora sopravvenga l’impossibilità di esercitare la servitù o cessi l’utilità in funzione della quale la servitù è stata costituita, quest’ultima, pur non estinguendosi subito, resta in uno stato di “quiescenza” per un periodo di venti anni, nell’eventualità di un ulteriore mutamento dello stato dei luoghi che ripristini lo status quo ante o, comunque, renda possibile la sopravvivenza del diritto, sino a che non decorre il termine indicato dall’art. 1073 c.c. (Cass. 2011/7485 e 2006/1854). È bene precisare che, secondo dottrina, lo stato di quiescenza non è concepibile se il fondo (dominante o servente) perisca definitivamente, ad esempio perché sommerso dalle acque in modo permanente (creazione di un nuovo alveo di un fiume), mentre non sarebbe irreversibile la distruzione di un edificio, che potrebbe sempre essere ricostituito. Questa norma si applica così alle servitù coattive come a quelle volontarie (Cass. 1994/9492)[8].
6. Il mantenimento di un diritto di servitù a distanza illegale da un altro fondo o dal confine e mantenimento del medesimo diritto su un immobile abusivo
Delineato il quadro sistematico entro cui si collocano le servitù prediali, giova a questo punto occuparsi di una delle questioni di maggiore interesse per la dottrina e la giurisprudenza, le quali si sono concentrate sui modi di acquisto delle servitù di genesi illecita, e nello specifico, sul mantenimento di un diritto di servitù costituito sia a distanza illegale da un altro fondo o confine che su di un immobile abusivo.
Tradizionalmente, il rapporto tra le servitù prediali ed i limiti legali della proprietà (artt. 873 e ss. c.c.) è stato risolto sulla base della natura degli istituti e della loro ratio: come visto, caratteristiche distintive delle servitù prediali sono l’utilità unilaterale di un fondo a scapito di un altro, il fatto che esse richiedono per la loro insorgenza un titolo di varia natura e, infine, in quanto diritti reali di godimento, la prescrittibilità. Di converso, i limiti legali della proprietà sono ispirati dal principio della reciproca utilità dei fondi vicini, con la previsione di vincoli a beneficio e a carico di ciascuno; suddetti limiti sono imprescrittibili e sorgono ipso iure, per effetto del diritto di proprietà sulla cosa.
Alla luce delle caratteristiche sopra evidenziate è evidente come i due istituti abbiano natura e seguano regole del tutto opposte. Per tale ragione, sino ad un certo punto, la giurisprudenza è stata ferma nel ritenere inammissibile un accordo tra privati costitutivo di servitù che derogasse ai limiti legali prescritti dall’art. 873 c.c., posto che la normativa in parola tutela interessi generali, come quelli dell’igiene e della salubrità dell’ambiente.
Al contrario, parte della dottrina ammetteva la possibilità di ricorrere all’istituto della servitù al fine di mutare il contenuto delle limitazioni legali che insistono su due fondi, sempre nella cornice del meccanismo unilaterale che caratterizza le servitù, ritenendo che, con la costituzione di una servitù, fosse possibile non solo ampliare un limite legale, imponendo obblighi più stringenti rispetto a quelli previsti dal legislatore, ma anche, al contrario, consentire di ridurre la sua incidenza.
Per tal via, la dottrina è giunta ad ammettere che le parti possano sostituire integralmente il regime dei limiti legali intercorrente tra fondi di loro proprietà attraverso la costituzione di servitù che richiamino, o addirittura surroghino, la disciplina di legislativa, con la conseguenza che il rapporto tra i fondi sarebbe regolato esclusivamente dalle servitù volontarie, non avendo alcuna rilevanza le eventuali variazioni normative.
A seguito delle riflessioni portate avanti in dottrina, la giurisprudenza, prima di merito e poi anche di legittimità, ha mutato il proprio orientamento, iniziando ad affermare che l’art. 873 c.c. è dettato a tutela dei diritti soggettivi reciproci dei singoli ed è volto unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose e, pertanto, è derogabile mediante convenzioni tra i privati.
Pur facendo propria la teoria dottrinaria in parola, tuttavia la giurisprudenza maggioritaria ha individuato un’eccezione, precisando che i principi enucleati non valgono allorquando si deroghi a distanze imposte da uno strumento urbanistico integrativo dell’art. 873 c.c., violandosi, in caso contrario, l’interesse pubblico prevalente sotteso alla disciplina normativa; secondo i giudici, infatti, le prescrizioni contenute nei suindicati strumenti non tollererebbero deroghe, essendo poste a tutela di esigenze sovraindividuali.
Orbene, una volta ammessa la possibilità di derogare pattiziamente ai limiti legali attraverso la costituzione di servitù volontarie, si pone un problema di tutela dei terzi danneggiati, anch’essi titolari di fondi confinanti, che non abbiano preso parte all’accordo; questione di particolare rilevanza se si considera la possibilità per le parti di trascrivere i suddetti patti.
Una prima soluzione sarebbe quella di consentire al terzo l’esperimento dell’azione di nullità del contratto, ma ciò solo qualora si sia derogato al disposto del provvedimento urbanistico. Peraltro, al fine di ottenere una tutela maggiormente effettiva, il soggetto potrebbe chiedere la riduzione in pristino ed il risarcimento del danno sofferto.
Con riguardo alle servitù apparenti si è posta l’ulteriore problematica dell’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal legislatore, questione rispetto alla quale si individuano varie soluzioni.
La tesi contraria negativa si fonda sulla circostanza che le distanze tra gli edifici sono poste a fondamento della tutela dell’igiene, della salute e della vita dei privati nelle zone sismiche; di guisa che i privati non potrebbero derogarvi.
Secondo altra tesi, invece, l’usucapione sarebbe ammissibile, avendo l’art. 873 c.c. rilievo pubblicistico solo nella parte in cui attribuisce alla p.a. il potere di agire per conformare la proprietà nei modi previsti dalla legge, non incidendo sui rapporti inter partes.
Sulla questione si è pronunciata la Corte di cassazione la quale, con la sentenza n. 22824 del 2012, ha aderito alla tesi positiva, ritenendo possibile “l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali”. Tuttavia, i giudici di legittimità hanno specificato che se, però, nel tempo necessario ad usucapire, il bene su cui insiste il possesso è demolito e poi ricostruito, l’acquisto non potrà maturare poiché viene meno l’identità della res occorrente per l’unitarietà del possesso ad usucapionem.
Di recente, i giudici di legittimità hanno precisato che è inammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù che deroghi alla disciplina in materia di distanze legali stabilita dagli strumenti urbanistici locali. La stessa non tollera deroghe, che, ove previste, sono invalide; l’ordinamento non può mai accordare tutela ad una situazione che determina l’aggiramento dell’interesse pubblico.
Il distinguo tra la deroga alla disciplina privatistica e quella pubblicistica, ha inciso, quindi, nell’analisi giurisprudenziale, anche in quest’ultima problematica.
Le coordinate individuate possono essere utilizzate per risolvere il quesito controverso della possibilità di usucapire il mantenimento di una servitù derogatrice della disciplina del codice civile o di regolamenti urbanistici, nell’ipotesi peculiare in cui essa verta su di un immobile abusivo.
Originariamente anche su tale profilo la giurisprudenza mostrava un atteggiamento di chiusura, ritenendo che la violazione delle norme amministrative (ad es. l’assenza di una concessione edilizia) incidesse sui requisiti di maturazione dell’usucapione, non consentendone la sussistenza.
L’orientamento più recente, invece, ha stabilito che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, non incidendo sui requisiti del possesso ad usucapionem. Alla base di questo approdo giurisprudenziale vi è una scissione concettuale tra il rapporto pubblicistico (che si instaura tra il privato e la p.a.), e quello strettamente privatistico, non potendo il primo incidere sul secondo, e neppure interrompere il decorso del termine, allorquando ricorrano tutti gli altri requisiti previsti dall’art. 1158 c.c. per la configurazione dell’usucapione. In linea con quanto precedentemente affermato, la Corte di cassazione, con sentenza n. 2018/6727 ha affermato che l’esposto o la denuncia in sede penale sono rivolte ad ottenere una sanzione nei confronti del possessore che sta per usucapire, ma non gli impediscono la prosecuzione del possesso. In particolare, nella sentenza citata si legge che “una volta accertato il compimento del termine previsto dalla legge ai fini dell’usucapione del diritto vantato dagli originari convenuti, del tutto irrilevante deve ritenersi il denunciato omesso esame, da parte della corte territoriale, dell’esposto presentato dall’originario attore in sede penale per la denuncia dell’attività di edificazione contestata, dovendo nella specie trovare applicazione il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale, in tema di usucapione, il rinvio dell’art. 1165 c.c. alle norme sulla prescrizione in generale e, in particolare, a quelle dettate in tema di sospensione ed interruzione, incontra il limite della compatibilità di queste con la natura stessa dell’usucapione, con la conseguenza che non è consentito attribuire efficacia interruttiva del possesso se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure ad atti giudiziali siccome diretti ad ottenere, ope iudicis, la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente (cfr., ex plurimis, Sez. 2, Sentenza n. 9845 del 19/06/2003, Rv. 564425 01), con la conseguenza che non può riconoscersi alcuna efficacia interruttiva all’esposto presentato in sede penale per la denuncia della natura abusiva dell’attività di edificazione contestata, siccome pienamente compatibile con il persistente esercizio, da parte del soggetto denunciato, del possesso oggetto di contestazione”.
La tesi in parola più sembrerebbe confermata indirettamente anche dalle recenti Sezioni Unite n. 8230/2019 sulla nullità degli atti traslativi degli immobili abusivi, nella cui sentenza si legge che “La nullità comminata dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile. Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato”.
In conclusione, dalla disanima dei modi di costituzione delle servitù in relazione alle fattispecie di genesi illecita, può rilevarsi come, nell’ordinamento giuridico italiano, la dottrina e la giurisprudenza sembrano orientarsi nella direzione della dicotomia tra i rapporti pubblicistici e quelli privatistici, che, tutelando interessi contrapposti, non consentirebbero alla disciplina pubblica di incidere sui presupposti di quella privatistica, inter partes.
[1] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XVIII edizione, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019, p. 251.
[2] F. Gazzoni, op.cit., pp. 261-262.
[3] F. Gazzoni, op.cit., p. 262.
[4] F. Gazzoni, op. cit., p. 262.
[5] F. Gazzoni, op. cit., p. 268.
[6] F. Gazzoni, op.cit., p. 269.
[7]F.Gazzoni, op. cit., p. 270.
[8]F.Gazzoni, op. cit., p. 270.
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Roberta Aleo
Nasce a Palermo nel 1991. Dopo la maturità classica si laurea nel 2017 in Giurisprudenza presentando una tesi sperimentale dal titolo "Le strutture investigative di contrasto alla criminalità organizzata".
Nel 2019 consegue il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni legali presentando una tesi dal titolo "Rapporti tra carcere duro ed esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti".
Tirocinante presso il Tribunale e la Procura della Repubblica ed abilitata all'esercizio della professione forense, collabora alla stesura di testi ed articoli giuridici con riviste scientifiche e studi legali.
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